Commento al Vangelo a cura di don Giovanni Berti
A Martina Franca, in Puglia, c’è una bella chiesa barocca dedicata a San Martino, patrono della città. In questa Basilica è venerata anche la compatrona della città, Santa Comasia, di cui si conservano le ossa in un’antica urna visibile in uno degli altari. La storia dell’arrivo delle spoglie della santa, avvenuto nel XVII secolo, è molto particolare. Si narra che il vescovo della città desiderava avere in città le spoglie di una santa martire dei primi tempi della chiesa, e quando lo scrigno contenente le ossa arrivò da Roma, iniziò a piovere in modo prodigioso e ad intermittenza a seconda che le reliquie uscissero o rientrassero nelle chiese. Ma il fatto più originale di questa storia è che il nome della martire a cui appartenevano le ossa era contenuto in un documento che nessuno riusciva a leggere. Allora il vescovo ad un certo punto accetta il corpo della Santa “coma sia”, nel senso che poco importava chi fosse ma che come è così va bene lo stesso… Da qui il nome di Santa “coma sia”, Santa Comasia.
E’ una storia che mi ha fatto sorridere per la sua particolarità al limite della favola, ma mi ha fatto anche pensare su una forma di religiosità che da sempre nel cristianesimo ha bisogno di prodigi, miracoli ed elementi sacri. Santa Comasia è una “non-santa martire” che risponde all’esigenza di sperimentare la presenza reale di Dio tra le nostre case, nella nostra vita personale e comunitaria concreta.
Gesù porta i tre discepoli su un monte di cui l’evangelista non dice il nome, ma lo chiama semplicemente “il monte”, dicendo di fatto che è un luogo più spirituale che geografico. E’ un luogo dove per un tempo che non è quantificabile, Gesù si mostra in modo diverso e luminoso. Ha da poco parlato di rifiuto e morte e i suoi discepoli faticano a comprendere fino in fondo la missione di questo loro amico e maestro. Pietro, qui ancora una volta chiamato con quel nome che indica la sua “durezza” nel comprendere gli insegnamenti di Gesù, insieme ai suoi due amici, vorrebbe trasformare quell’evento miracoloso in una specie di santuario in cui rinchiudere e controllare l’evento. Fare tre capanne richiama una delle feste ebraiche, e questo significherebbe trasformare tutta la vicenda di Gesù in una cerimonia da ricordare, dove al centro però non ci sta Gesù ma ancora una volta Mosè e la Legge antica. Infatti l’elenco fatto da Pietro (“Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa”) ha al centro non Gesù ma ancora Mosè.
Subito l’evangelista annota che Pietro non sa quello che dice, non ha capito la portata della visione che non è ancora conclusa, ma di cui lui vorrebbe già tirare conclusioni e conseguenze. Infatti subito dopo la nube li avvolge con la sua ombra (come lo Spirito Santo che con la sua ombra scende su Maria nell’annunciazione) e la voce di Dio invita a rimettere al centro solo Gesù e non Mosè ed Elia, la Legge e i profeti, che rimangono sempre relativi a Gesù, unico da seguire e ascoltare.
Pietro vorrebbe contenere l’esperienza di Dio in feste, usanze, luoghi, oggetti… ma è chiamato a comprendere che Dio non è mai contenibile in nessun luogo, tempo, rito ed esperienza particolari. Alla fine di tutti gli eventi (trasfigurazione, nube, voce divina…), l’evangelista ci mostra Gesù solo. Ed è lui da solo che rimane davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni e anche a noi, spesso così affamati come i discepoli di avere luoghi, oggetti, segni particolari di Dio.
L’esperienza di Dio nella vita non è mai così definibile e precisa, ed è sempre superiore alla nostra comprensione immediata. Eppure Dio desidera profondamente mostrarsi a noi e fa di tutto per essere punto di riferimento luminoso della nostra vita. Come Pietro e i suoi amici facciamo anche noi fatica a comprendere come Dio si comunica, e tante volte fraintendiamo la sua Parola e i suoi insegnamenti. La vita di fede è un continuo salire e scendere il monte dell’incontro con Dio, e come i tre amici di Gesù anche noi non sappiamo cosa dire e come spiegare questa presenza di Dio (“essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto”). Questo però non ci deve fermare nella ricerca di Dio e nel lasciare che Dio si comunichi a noi. La parola del Vangelo è la via principale per sperimentare la guida interiore di Dio. L’imperativo dato da Dio a Pietro, Giacomo e Giovanni, “ascoltatelo!” è più che mai valido per noi oggi.
La storia di Santa Comasia mi ha fatto pensare proprio a questo. Quelle ossa senza nome portate nella Basilica di Martina Franca mi autorizzano a metterci sopra il mio nome come testimone del Vangelo. Posso dunque anche io, con la forza della presenza di Dio, operare segni luminosi perché al centro metto sempre Gesù e la sua Parola, e tutto il resto (riti, luoghi, oggetti…) diventano secondari rispetto all’opera incontenibile di Dio.