Notte di Pasqua
È la notte più santa per i cristiani. Notte in cui non è lecito ad alcuno andare a dormire. È la notte in cui YHWH/Il Padre passa in mezzo al suo popolo per riscattarlo dalla schiavitù. È la notte in cui Gesù, vero uomo e vero Figlio di Dio, risorge dalle tenebre della morte. Vince la sua morte e anche la nostra. È il “passaggio/pesaḥ” decisivo, dopo la “Passione/paschein” umiliante ma redentrice. È la notte dell’annuncio della felice colpa che ha meritato di avere un così grande Redentore.
La morte è stata umiliata, annullato il suo pungiglione, ingoiato per la vittoria. L’enigma della morte, che senza il Cristo risorto resta insolubile alla mente e al cuore degli uomini, si scioglie come neve al sole. La gioia è grande, immensa. Chi ha sciolto il nodo ultimo che attanaglia i pensieri delle giornate passate sotto il sole sa a Chi va incontro, Chi lo aspetta, Chi è colui che dona sale e luce alle sue giornate. Esse possono ora essere vissute nella serenità, custodite.
È la notte di Pasqua.
Passaggio di Dio Padre che “salta” e “protegge” i suoi figli.
Vittoria di Gesù, il Figlio di Dio, sull’Ultimo Nemico, la morte.
Vita nuova dello Spirito del Cristo risorto, effuso nei cuori dei credenti.
Oracolo di condanna e di salvezza
La settima e ultima lettura della Veglia Pasquale tratta dall’Antico Testamento riporta una bellissima pagina del profeta Ezechiele, il profeta-sacerdote che accompagnò il suo popolo nell’esilio a Babilonia (598 a.C.). Egli impiega i due generi letterari più diffusi fra i profeti: un oracolo di condanna e uno di salvezza.
L’oracolo di accusa è molto duro. Ezechiele riceve da YHWH l’ordine di proclamare la condanna che segue un’accusa ben precisa, ma anche la promessa di un riscatto gratuito e inatteso, fonte di vita nuova.
Il profeta deve riassumere lo stato delle cose e motivare chiaramente le azioni di YHWH, sia nel male che nel bene.
Profanazione
Il popolo di Israele, casa di Israele, famiglia di famiglie, durante la sua esistenza nella terra della promessa “ha profanato/wayeṭamme’û” “il loro suolo/’admātām” (< ’ădāmāh). Non è più suo, santo, tutta proprietà intangibile di YHWH, suo “possesso particolare/segullāh”. Le “vie/derākîm” di Israele, il suo comportamento morale e religioso concreto, assomigliano all’impurità delle mestruazioni, sangue della vita che appartiene a YHWH e che si perde “inutilmente”. Per un certo tempo rende le donne impure ritualmente, impossibilitate ad accedere alla preghiera verso YHWH nel tempio.
Con le guerre e gli omicidi, Israele “ha sparso/šāpak” sulla terra il sangue che ha reso impura “la terra/hā’āreṣ” che lo era già a causa degli idoli venerati da Israele. Esso ha aperto il cuore ad altri dèi oltre a YHWH, unico liberatore di Israele e unico partner dell’alleanza stretta fin dai tempi dei patriarchi.
Dispersione
Con un’azione perfettamente corrispondente al tradimento vigliacco operato da Israele, YHWH ha “sparso/ šāpak” la sua “ira/ḥāmāh” sugli israeliti. L’ira di YHWH è il volto oscuro del suo amore, il volto dell’amore offeso. Un amore intenso, appassionato, che tiene moltissimo al proprio amato e che non sopporta di essere tradito per altre figure inesistenti e false. Esse sono opera dell’uomo, non creatrici del mondo intero e non liberatrici di un popolo da una schiavitù umiliante e annichilente. Un amore appassionato, ma non stupidamente geloso. Un amore “preoccupato” del bene dell’amato, un amore che vuole “custodirlo” e che non sopporta di vederlo inseguire stupidamente delle realtà fasulle e non impegnate in un “patto/berît” di alleanza e di vita.
Dopo lo spargimento dell’ira, YHWH ha proceduto a “disperdere/pûṣ” (alla coniugazione hiphil) gli israeliti ed essi sono stati “ventilati/dispersi come pula ventilata/zārāh”. Questa è la modalità scelta da YHWH con la quale “giudicare/šāpaṭ” Israele, secondo “le loro strade/il loro modo di comportarsi” e le loro azioni concrete.
Non è quindi un giudizio arbitrario, capriccioso di YHWH, ma una sentenza giusta, conseguente alla malvagità idolatrica di Israele. Giunti fra i popoli fra i quali sono stati dispersi, i figli di Israele “hanno profanato/wayeḥallelû” il nome santo di YHWH. I residenti locali hanno infatti irriso il legame tra Israele e il loro Dio. Sono il popolo appartenente a YHWH – così dicevano e così si pensava in tutto il mondo –, eppure sono dovuti uscire tristi dalla loro terra come un tempo erano invece usciti esultanti dalla prigione d’Egitto per andare a ereditare il dono della terra fatto loro da YHWH.
Che Dio è quello che rigetta il suo popolo in un controesodo negativo, dopo essersi tanto speso per l’esodo positivo? Che razza di popolo è quello che, liberato per la libertà, misconosce il suo Dio liberatore per venerare dèi che lo porteranno di nuovo in prigione? Contraddizioni di Israele che mettono in pessima luce la figura del loro Dio, YHWH, oltre alla loro vita religiosa e morale.
Per onore del mio Nome
A quel punto, dice YHWH al profeta Ezechiele, «Io ho avuto riguardo/wā’eḥmol per il mio nome». Non potevo sopportare ulteriormente che venisse infangata la mia qualità di liberatore, di alleato fedele a un partner infedele. Ho deciso di “recuperare” Israele non badando alle offese subite. Volevo salvaguardare la mia fama di un Dio che non si ferma a compiere solo la metà dei compiti esigiti dal patto, ma che per amore si accolla anche il recupero dell’alleato traditore.
YHWH non fa sconti di pena. È indispensabile che Israele prende seria coscienza del male compiuto. L’assunzione consapevole delle proprie responsabilità, la coscienza vigile degli sbagli commessi e la sottomissione volonterosa all’assunzione delle conseguenze negative dei propri comportamenti sono il primo passo, ineludibile, per il recupero di un rapporto di alleanza. Su questa base, YHWH, dopo l’oracolo di giudizio e di condanna, può far pronunciare al suo profeta l’annuncio della salvezza.
L’annuncio di condanna, infatti, non è mai l’ultima parola di YHWH nella Bibbia. Esso è sempre collegato a uno spiraglio di salvezza – eccedente la colpa commessa –, dato per scontato che Israele lo accetti, lo desideri e si metta generosamente in cammino.
Oracolo di salvezza. Santificazione del nome
Segnato da una svolta precisa del discorso (“perciò/lākēn”, v. 22) e preceduto dalla “formula del messaggero”, giunge finalmente l’oracolo di salvezza. YHWH agirà non tanto per riguardo a Israele, ma «per amore del suo nome» profanato da esso fra le genti.
YHWH lo “santificherà/weqiddaštî” nuovamente fra i popoli dove gli israeliti sono stati dispersi. Lo santificherà non esigendo da loro chissà quali sacrifici di animali o ulteriori sofferenze, ma gratuitamente, in modo plateale, altamente dimostrativo per tutte le genti. Esse dovranno vedere con i loro occhi la qualità paradossale della santità di YHWH, la “verità” del suo nome rivelato nel roveto ardente (cf. Es 3,14): «Io sarò come e quando vorrò esserci, ma sarò presente sempre e solo per liberare».
YHWH santificherà il suo nome profanato riportando a casa il suo popolo. Santificazione innovativa, esistenziale, “popolare”, non sacrale! YHWH sarà reintegrato nel suo onore quando il suo popolo tornerà libero nella sua terra, rinnovato radicalmente.
Raduno, ritorno, purificazione
Il processo di “santificazione” del proprio “grande nome”, che YHWH stesso attua di sua volontà, abbraccia varie tappe. Esse sono espresse con una serie di verbi di grandissima valenza “esodica”. YHWH farà fare a Israele un nuovo esodo, sperimentato però a un livello molto più profondo del primo. Il suo impegno è totale: per quattordici volte i verbi sono coniugati alla prima persona singolare, con un susseguirsi impressionante di squilli di tromba del suffisso verbale in –tî.
Vi “prenderò/welaqaḥtî” da mezzo ai popoli, promette YHWH per bocca di Ezechiele. Il popolo esiliato sarà “estratto” dalla terra di schiavitù con una spettacolare azione di commando da parte di YHWH. Vi “radunerò/weqibbaṣtî” – prosegue YHWH – dalla vostra dispersione in terre che non sono la terra che avevo preparata in dono per voi. La “raccolta” sconfigge la dispersone spersonalizzante, la perdita della propria identità di popolo nell’assimilazione alle culture circostanti, anche se attuata con apparente “dolcezza” e messaggi subliminali. Vi “farò venire/wehēbē’tî” – promette infine YHWH – sul suolo/terra che vi appartiene. Al “recupero” dell’ostaggio deve seguire la fase di finalizzazione costituita dal rientro in tutta sicurezza in un luogo/porto sicuro.
Dall’“esterno” YHWH procederà sempre più verso l’“interno”. Vi “aspergerò/wezāraqtî” all’esterno con acque pure – promette YHWH –. Esse cancelleranno simbolicamente la profanazione perpetrata in precedenza. Quindi vi “purificherò/’ăṭahēr” da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli. Secondo i saggi di Israele fu più difficile per YHWH liberare la mente dei figli di Israele dal pensiero del faraone, che non trarli fuori dalla schiavitù e far attraversare loro il deserto.
La soggezione mentale e “l’amore per il sequestratore” è stata una “sindrome di Stoccolma” che ha messo Israele in uno stato di dipendenza psicologica e affettiva dura da superare. Meglio le cipolle e i porri sicuri insieme al sequestratore – mormorarono gli israeliti nel deserto (cf. Nm 11,5; 20,1-5) –, che una libertà precaria la quale si trascina nella vastità terribile di lande solitarie prive di cibo e di acqua.
Cuore nuovo, spirito nuovo
YHWH arriva al “cuore” della promessa del nuovo esodo. Gli errori grossolani derivano da un centro decisionale e affettivo infartuato e da polmoni asfittici e cancerosi. Le parole e le decisioni positive escono invece da un cuore sano e allenato, mentre lo slancio e la freschezza di vita dipendono da un’energia vitale che gonfia di aria pulita due polmoni sani. Per Israele è necessario, quindi, un doppio dono da parte di YHWH (cf. la doppia ricorrenza del verbo nātan). Un doppio trapianto.
“Vi darò un cuore nuovo/wenatattî lāken lēb ḥādāš” – promette ancora YHWH – “e uno spirito nuovo darò in mezzo a voi/werûaḥ ḥādāšāh ’ettēn beqirbekem”. “Allontanerò/Rimuoverò/wahăsirōtî” dalla vostra carne il cuore di pietra, statico, insensibile, refrattario alla recezione della parola di YHWH e incapace di scelte vitali e attente alle situazioni concrete. Un cuore che è ormai incompatibile con l’ambiente che lo circonda. Un cuore che fa rigetto rispetto alla carne che lo rinchiude. “Vi darò/wenātattî” un “cuore di carne/lēb bāśār”, conclude allora il prodigioso “chirurgo di guerra”.
Il mio spirito dentro di voi
«E – addirittura! – il mio spirito “donerò/darò” in mezzo a voi/we’et-rûḥî ’ettēn beqirbekem». La mia stessa vita nel profondo della vostra carne, della vostra anima, della vostra vita. Diventerete consentanei con me perché connaturati a me. “E farò in modo/we‘āśîtî ’et ’ăšer” che possiate “camminare/tēlēkû” nei miei statuti, e possiate “custodire/osservare e mettere in pratica/tišmerû wa‘ăśîtem” i miei decreti. La vita vi verrà da dentro, non da un’osservanza esterna della mia volontà di bene depositata nelle istruzioni sapienziali, nelle leggi generali e nelle norme concrete attuative.
Lo stesso respiro che anima il mio cuore, dice YHWH, muoverà tutto voi stessi. Sarete completamente nuovi. Doppio trapianto riuscito: intervento cuore-polmoni.
Pasqua nella terra dei padri, alleanza rinnovata
Abiterete nella terra che io “diedi in dono/nātattî” ai vostri padri, è la degna conclusione della promessa del controesodo, dell’esodo nuovo, che YHWH fa a Israele. Un nuovo esodo celebrato con una nuova Pasqua.
Radunati, riportati in patria, purificati, dotati di un cuore di carne e dello stesso spirito di YHWH, i figli di Israele riconosceranno finalmente il loro vero e unico Dio e ricomporranno a livello ancor più profondo l’alleanza infranta per la propria colpevole “dimenticanza”. Una “formula di riconoscimento” e di alleanza conclude la splendida promessa di YHWH al suo popolo in esilio: «Diventerete per me (il mio) popolo e io diventerò per voi il vostro Dio».
Rotolata via
Osservato il comandamento del sabato, le donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea (cf. Lc 23,49) e che erano venute con lui (cf. 23,55) tornano al “sepolcro/mnēma” che avevano scrutato a lungo dopo la sepoltura del Maestro. Vi tornano con gli aromi e la mirra preparati nelle poche ore libere prima di quel sabato molto solenne (per l’evangelista Giovanni era la vigilia del giorno della Pasqua).
È il giorno “uno” del settimana, l’ottavo sabato registrato da Luca (4, 16.31; 6,1.6; 1,10; 14,1; 23,54). È il giorno che si astrae dalla settimana e la supera come ottavo giorno. Un giorno nuovo che non vedrà più tramonto. Giorno in cui il sole di Gesù risorto splende perenne.
Al mattino prestissimo le donne portano gli aromi destinati a esorcizzare la morte dell’Amato, attenuando il pungiglione che offende il suo corpo con l’odore della decomposizione. Vogliono incontrare lo sposo che dorme, esprimergli amore e vicinanza. Trovano la pietra pesante che chiude il “sepolcro/mnēmeion”, sigillo contro il quale ogni speranza s’infrange, “rotolata via/apokekylismenon”, non certo da mano d’uomo. Entrano e non trovano il “corpo/sōma” del Signore Gesù.
Non è qui: è risorto!
Due uomini in vesti bianche – appartenenti al mondo divino, “celestiali” – si presentano ad esse, che con timore e pudore abbassano il viso “a terra/pros tēn gēn”. “Il sepolcro” e “la terra” sembravano rinserrare tristemente tutto l’orizzonte mentale delle donne nell’ambito chiuso e disperato della morte.
Un annuncio inatteso rompe però il cerchio plumbeo che appesantisce i loro cuori perplessi per quello che vedono: «Perché cercate il Vivente con i morti? Non è qui, ma è risorto/alla egērthē!».
Il Vivente non sta in compagnia con i morti, perché Dio non è dei morti ma dei viventi, poiché tutti vivono per lui (cf. 20,38). Solo la parola di esseri provenienti dal mondo divino può spezzare con il loro annuncio onnisciente la verità ultima delle cose e delle persone, contemplate con gli occhi di Dio. La ricerca delle donne sbaglia infatti direzione, benché colma d’amore. È rivolta all’indietro, alla venerazione di un passato, di un Amato vinto dall’Ultimo Nemico.
Il Sonno Definitivo non ha risucchiato il Signore Gesù. Egli è stato risvegliato dal sonno. Il re riposava nel cuore della terra, ma il seme è stato richiamato al risveglio della Primavera di Dio Padre. Egli è il nemico acerrimo e vittorioso della Morte che acceca gli occhi e polverizza le anime.
La Vita non può coesistere con la Morte. Un valvassino di un minuscolo regno, pur spaventoso d’aspetto e dal pungiglione mortale, non può competere con il Sovrano della Vita e della Luce.
L’uomo non è fatto per le tenebre. Il suo amore, i suoi sogni, la sua anima, le sue relazioni, i suoi semi affondati nella terra non possono finire nel nulla. Dio non ama per caso, per prova e a tempo determinato. «Il suo amore è per sempre/le‘ôlam ḥasdô», martella per 26 volte di seguito il Sal 136.
L’uomo vive per vivere, per vivere sempre. Vuole la vita, la luce, il calore. Vuole gli abbracci, i baci appassionati, stare insieme per sempre… Dio darà forse una serpe o una pietra ai suoi figli che chiedono amore e vita?
Ricordate!
La morte non è vinta coi rimpianti, con i sospiri dell’animo affranto. La morte e l’oblio sono vinti dalla parola, dal ricordo che rende presente il passato, il Maestro, il Figlio dell’uomo e figlio di Dio. “Ricordate/mnēsthēte” in che modo il Maestro vi ha parlato nella primavera del discepolato, intimano alle donne i due uomini in bianche vesti. Ricordate le parole, il modo in cui le ha dette, nell’aria frizzante della Galilea che avete lasciato per seguirlo. Ricordate per farle “risalire al cuore”, per reimpiantarle nelle sede della memoria, dell’affetto, della coscienza e delle decisioni.
C’è un piano di salvezza del Padre – “è necessario/dei” (v. 7), aveva annunciato Gesù ancora in Galilea – che abbraccia il mistero della consegna del Figlio dell’uomo in mano di uomini peccatori, uomini dai bersagli falliti per la poca forza messa nel tendere l’arco e scoccare le frecce della loro vita.
Rientra nel piano di salvezza – aveva proseguito Gesù – che il Figlio dell’uomo venga ucciso con l’ignominia atroce della croce, ma il terzo giorno risorgerà.
Il terzo giorno vedrà un intervento cruciale del Padre nella storia, come sempre il “terzo giorno” vede una svolta cruciale nel corso degli eventi o una rivelazione particolare. La Bibbia è ricca di riferimenti: cf. Gen 22,3 il “legamento” di Isacco; 34,25 la vendetta di Simone e di Levi per lo stupro subito da Dina; Es 19,16 la teofania al Sinai; Gs 3,2 il passaggio del Giordano con Giosuè; Gdc 20,30 la guerra di Israele contro Beniamino; 2Sam 1,2 Davide apprende la morte di Saul; 1Re 3,18 il giudizio di Salomone; 1Re 12,12 Geroboamo si presenta a Roboamo; 2Re 20,8 il segno della guarigione che permetterà al re Ezechia di salire al tempio; Os 6,3 il terzo giorno YHWH ridarà la vita e farà rialzare i percossi e gli straziati dai suoi “castighi”; 1Mac 11,18 il re Tolomeo muore; Gv 2,1 il “segno” di Cana.
Vaneggiamento
L’evangelista ricorda il nome delle donne discepole di Gesù fin dalla Galilea e fedeli a lui fino alla fine. Si ricordano delle parole di Gesù nella primavera del loro discepolato, al tempo del “fidanzamento”: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2b).
Senza che lo abbiano comandato gli esseri in bianche vesti, le donne tornano al luogo del raduno degli Undici e degli altri che erano con loro. “Annunciano/anēngeilan” la buonissima e bellissima notizia del sepolcro vuoto e dell’avvenuta risurrezione di Gesù. Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo, benché testi normalmente non ammessi a deporre in tribunale in quanto donne, diventano le prime autorevoli testimoni della risurrezione di Gesù e “inviate/apostole” ad annunciare il Vangelo/Buona notizia agli apostoli (maschi). Apostole degli apostoli.
Quelle loro parole-fatti riferiti (ta remata tatua, il corposo dābār ebraico: parola-fatto) parvero agli apostoli un “vaneggiamento/l’eros”. Anch’essi infatti si erano dimenticati delle parole didattico-profetiche di Gesù sulla sua sorte, benché le avesse ripetute per ben tre volte nel corso del loro discepolato (cf. Lc 9,22; 9,43-45; 18,31-33).
Corsa e meraviglia
Solo l’evangelista Luca ricorda la corsa (edramen) solitaria di Pietro al sepolcro, dopo essersi alzato/risorto spontaneamente (anastas, uno dei due verbi di risurrezione) dalla sua situazione simbolica di “seduto/sdraiato/morto”. Anch’egli non si fida dell’annuncio delle donne, ma come rappresentante autorevole degli Undici mantiene viva la speranza in ciò che le donne gli avevano ricordate delle parole di Gesù e corre al sepolcro per un verifica coscienziosa.
Pietro si china dall’alto verso il basso (parakypsas), in posizione “negativa”, di chiusura al mistero, di ritorno al passato (“sepolcro”, “chinatosi” ecc.), a ciò che è controllabile sulla terra. In un “presente drammatico”, Pietro “vede/blepei” solo le “vesti/othonia” di Gesù (cf. anche Gv 20,6), ma il suo corpo non c’è.
La Vita non può essere trattenuta prigioniera della morte.
La meraviglia è grande in Pietro. Continua anche mentre “torna verso se stesso/apelthōn pros heauton”.
Ritorna in sé perché gli sembra di sognare. Torna in sé perché ricupera la memoria di parole dette da Gesù, ma seppellite e travolte dentro la tristezza della tragedia appena accaduta.
Torna “verso” se stesso quale portavoce autorevole dei Dodici, apostolo scelto da Gesù per la sua fede bisognosa certo di perfezionamento, ma poggiata sulla fedeltà di Gesù.
Torna verso se stesso, quale “perno” dei Dodici radunati – senza il “traditore” andato per la sua strada – nella «sala, grande e arredata, al piano superiore» (cf. 22,12). La sala della comunione, la sala della comunità.
Nella comunità che ricorda e rielabora insieme nello Spirito le parole di Gesù, Pietro e gli altri potranno percepire il mistero grande della sua Pasqua. È il “passaggio” rapido di Gesù dal regno della morte a quello immensamente più grande della Vita del Padre.
Gli Undici e gli altri che erano con loro non riusciranno ad abbracciare il mistero nella sua totalità, ma la spinta che viene da quella tomba vuota e dalle vesti lasciate a terra sarà potentissima.
Inizia la vita nuova, pasquale,
Vita di stupore, di gioia, di futuro.
Non è qui, è risorto!
È nella luce davanti a te. È nel fuoco dentro di te.
Vortice che spinge e attrae a sé.
Profumo di primavera.
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News