Commento al Vangelo del 20 Gennaio 2019 – p. Roberto Mela scj

Fin dalle prime domeniche per annum dell’anno liturgico il codice è dato: un codice nuziale, una password indispensabile per comprendere e amare il rapporto che lega il Dio dei cristiani (e degli ebrei) al proprio popolo. Dopo il battesimo al Giordano, a Cana di Galilea Gesù manifesta nuovamente al suo popolo la propria identità. Una manifestazione “nuziale” che stria fin dal principio tutti i segni che egli compirà per portare alla fede gli uomini e le donne di Israele.

Li prenderà per amore, capiscano o non capiscano.

Il Terzo Isaia

Strutturando graficamente i suggerimenti offerti da A. Mello nel suo commentario al libro di Isaia (che in questo segue a sua volta le indicazioni di C. Westermann), si può apprezzare la struttura concentrica del Terzo Isaia (Is 56–66), composto probabilmente negli anni successivi al ritorno dall’esilio (538 a.C.), prima della missione di Neemia (metà del V sec. a.C.).

A) 56,1-8 oracoli sull’ammissione dei gentili nella comunità del Signore

B) (0)

C) 56,9–57,13: oracoli profetici contro l’idolatria, assimilabili a quelli dei cc. 57–58

D) 57,14–58,14: oracoli di richiamo all’autenticità del culto yahwista

E) 59,1-15: salmo penitenziale di lamentazione che fa da cornice agli oracoli profetici, quasi un contrappunto corale

F) 59,16-20: oracoli di giudizio sulle nazioni, quali probabili correttivi alla prospettiva universalistica dei cc. 60 e 62

G) 60,1-22: oracoli di salvezza quali nucleo fondamentale della predicazione profetica sulla ricostruzione di Gerusalemme

X) 61,1-11 pilastro centrale della struttura concentrica: Il centro della profezia (vv. 1-3a Il servo; vv. 3b-9 Il doppio promesso; vv. 10-11 La gioia delle nozze)

G’) 62,1-12 oracoli di salvezza quali nucleo fondamentale della predicazione profetica sulla ricostruzione di Gerusalemme

F’) 63,1-6: oracoli di giudizio sulle nazioni, quali probabili correttivi alla prospettiva universalistica dei cc. 60 e 62

E’) 63,7–64,11: salmo penitenziale di lamentazione che fa da cornice agli oracoli profetici, quasi un contrappunto corale

D’) (0)

C’) 65,1-16a: oracoli profetici contro l’idolatria, assimilabili a quelli dei cc. 57–58

B’) 66,16b-25 + 66,7-14: oracoli sulla ricostruzione di Gerusalemme che continuano la predicazione dei cc. 60 e 62, ma con tonalità apocalittiche

A’) 66,15-23: oracoli sull’ammissione dei gentili nella comunità del Signore.

Il brano letto nella liturgia odierna segue immediatamente la descrizione della gioia della nozze espressa in Is 61,10-11 e sembra essere una risposta anticipata all’angosciosa domanda posta in 64,11, dopo aver lamentato la distruzione dei Gerusalemme e del tempio: «Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore, tacerai e ci umilierai fino all’estremo?».

Non tacerò

Il profeta prende la parola e sente irresistibile dentro di sé l’urgenza di parlare. Parlare a favore di Gerusalemme, che vede devastata nelle sue mura atterrate e colpita al cuore nel suo tempio distrutto. Per Sion e per Gerusalemme, per il suo monte santo e per la città madre di tutti i villaggi che la circondano, il profeta non tacerà, non se ne starà in silenzio, annichilito dagli eventi (cf. Is 42,14; 57,11). Non si darà per vinto di fronte alla desolazione provata dal suo cuore.

Alzerà con costanza e fiducia la sua voce. Sarà come una sentinella che scruta fisso il cielo fino a che il chiarore della sua giustizia non “esca/yēṣē” come il sole (cf. Sal 130,5s), da dietro il monte degli Ulivi. La invocherà e la annuncerà (cf. Sal 57,9; 108,3). È il sole che viene a illuminare la sua fidanzata, la sua luna. Il profeta continuerà a parlare fino a che la giustizia di Gerusalemme, trasmessagli per contagio da YHWH, non si riveli come salvezza che brucia vibrante come una torcia che accompagna un corteo regale.

Tutte le genti vedranno la giustizia di Gerusalemme, il suo rapporto profondo con YHWH, il partner dell’alleanza, e tutti i re vedranno la sua gloria, che le viene da lui (cf. Is 60,1: «la gloria di YHWH è sorta su di te»). Si chiamerà Gerusalemme con un nome nuovo (cf. Is 60,14.17; 61,3.6; 62,4.12), un’identità neonata (cf. Is 56,5). Sarà un nome che tutti sentiranno, ma, allo stesso tempo, nome silente come il bacio che le labbra di YHWH imprimeranno su quelle dell’Amata.

Il nome nuovo

Gerusalemme sembrerà una splendida corona regale nella mano di YHWH, quando il “suo” sole spunterà dal monte degli Ulivi a baciare col suo biancore abbacinante le mura e i merli che la circondano come rinnovato scrigno dorato. I popoli vedranno la città posta sul monte (cf. Mt 5,14). Non potrà mai più rimanere nascosta agli occhi delle nazioni.

Col soffio infuocato della sua parola innamorata YHWH pronuncerà il nome nuovo di Gerusalemme, portandola alla vita. Chiamandola per nome, la sottrarrà al caos dell’abisso, all’indistinto pauroso dell’anonimato raggelante (cf. Is 43,1).

«È l’alba di un giorno di nozze. Il re è andato a difendere i diritti e la giustizia (ṣdqh) della città e torna vittorioso e salvatore (yš‘). Prende la città come sua sposa: “la moglie è la corona del marito” (Pr 12,4) e diadema reale» (L. Alonso Schökel).

Non ci si rivolgerà più in modo sprezzante a Gerusalemme irridendola sarcasticamente col nome di “Abbondonata/‘Ăzûbāh” dal suo Amato (cf. Is 49,14; 54,1.4; 60,15), abbandonata in mezzo a una terra “Desolata/Šemāmāh” (cf. Is 49,8).

Diletta sposa

Ora un nome nuovo aleggia sulle mura di Gerusalemme, corre veloce per le sue viuzze attorcigliate.

D’ora in poi si chiamerà “Il Mio Compiacimento (è) in Lei/Mia diletta/Hepṣî-bāh”. Sarà preziosa agli occhi di Qualcuno. Una donna che piace, attrae per la bellezza del suo corpo e della sua anima, la sapienza del suo cuore e la grandezza del suo animo. Il suo volto coronato dal diadema fa impazzire tutti.

E il suo Amato prende in sposa Lei e tutta la terra che le sta intorno, che le dona la parte di identità cui non può rinunciare.

La sua terra sarà chiamata “Sposata/Be‘ûlāh”, unita al suo Sposo/Signore amante focoso, ma non padrone dispotico (ba‘al). «È la terra materna, fecondata non da Baal, ma dall’autentico Signore della pioggia» (L. Alonso Schökel) (cf. Os 2).

Gerusalemme, sarai “Appartenente” a uno sposo che ti ama, non una donna di “Nessuno”, “di tutti”. Proprio come un “giovane ragazzo/bāḥûr” “possiede/prende in sposa una vergine/yib‘al [] betûlāh” con tutto l’ardore del suo amore giovanile, così ti sposerà “il tuo costruttore/bōnek” (congetturando un participio di “bānāh/costruire” + suff. 2 femm. sing.; la traduzione CEI 1974 seguiva questa congettura, mentre CEI 2008 si attiene strettamente al TM “bānāik/i tuoi figli”, impossibile da seguire, ai limiti dell’incestuoso).

Mia Gioia

Il giovane ragazzo “si compiace/ḥāpēṣ” della vergine che prende in sposa. Di più, lei è la gioia della sua vita. Egli è “colui che si rallegra/meśôš” in continuità per lei (participio piel). La gioia per la sposa è la sua nuova identità. E così sarà per sempre per il Dio di Gerusalemme: “gioirà per te/yāśîś ‘ālayik”. La sua gioia ha il tempo dell’yiqtol: una gioia “aperta”, senza tempo, non mai finita. Amore in progress.

L’atmosfera è quella dell’innamoramento, dell’amore statu nascenti. Non c’è una storia d’amore andata male e poi ricucita (cf. Osea), un peccato e un esilio da ricuperare.

L’aria è fresca, nuova, sorgiva.

«Ecco, io faccio una cosa nuova:

proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19a).

Lo sposalizio al terzo giorno

Ci inoltriamo nel Vangelo di Giovanni, il Vangelo dell’aquila, che dall’alto vede in profondità e con larghe vedute simbolico-teologiche. Anche il brano delle “nozze di Cana” ne contiene varie di rara profondità.

Arriva il terzo giorno (2,1), il sesto dopo i primi quattro (cf. Gv 1,19-28.29-34.35-43.44-51), rimettendo nel computo come uno degli ultimi tre giorni il primo dell’ultimo terzetto.

Nella Bibbia “il terzo giorno” registra sempre un evento che cambia il corso degli avvenimenti, imprimendo una svolta decisiva alla storia. Così per il dono della Torah all’Horeb (cf. Gen 19,16), così per la risurrezione di Gesù (cf. 1Cor 15,4).

Si giunge così al sesto giorno della settimana inaugurale delle opere del Messia, registrata dall’evangelista Giovanni nella sua opera. Il giorno della creazione dell’uomo e della donna a immagine di Elohim.

“Ci fu uno sposalizio” in Cana di Galilea, e non in quella del Libano. L’enfasi sullo “sposalizio/gamos” introduce fin da subito un codice nuziale agli eventi che seguono, durante i quali Gesù opererà un “segno/sēmeion” che dà il “la” a tutti gli altri sei che compirà nei giorni in cui la sua luce brillerà nel mondo (Gv 8,12), nelle dodici ore in cui cammina nella luce e così non inciampa nelle tenebre (cf. Gv 11,9).

I sette “segni/sēmeia” saranno come sette stelle che brillano nel “Libro della gloria” (Gv 1–12), compiuti da Gesù per portare alla fede coloro che li vedono e ascoltano con fede la loro “spiegazione” nei discorsi che li seguono.

La madre, Gesù, il vino

Allo sposalizio è presente la madre di Gesù, non citata col suo nome ma presentata nel suo ruolo di generatrice di vita, di relazioni, di attenzione, di affetti e di cura. È la madre di Gesù, ma anche la madre dei suoi fratelli, di tutti gli uomini e di tutte le donne del mondo, in specie degli sposi che si aprono a una vita nuova. Sembra che Gesù e i suoi discepoli siano lì anch’essi, perché c’è la madre, feconda di figli e di amore, di comunione, di gioia, di allegria (cf. G. Matino, L’allegria, Bologna 2018).

La madre di Gesù compare nel Vangelo di Giovanni solo in questo passo e in quello in cui è presentata ritta sotto la croce del Figlio, insieme al Discepolo Amato (cf. Gv 19,25-28, gynai al v. 26). Gv 2,1-11 e Gv 19,25-28 si richiamano a livello letterario e teologico. Gv 2,1-11 è prolessi, un anticipo di Gv 19,25-28 e, allo stesso tempo, un’analessi, un rimando all’indietro, alla stipulazione della prima alleanza al Sinai in Es 24,8ss.

Viene a mancare il vino e la madre di Gesù lo fa notare al figlio: «Vino non hanno/oinon ouch echousin». Nel passato si traduceva in modo errato: «Non hanno più vino». Il vino di cui si parla, il vino delle nozze, in realtà gli sposi non lo hanno mai avuto! Gesù non c’era, infatti, mentre preparavano la festa… E, finché lui è fuori del gioco, il vino delle nozze non c’è, in assoluto…

Māh lî we lāk/ti emoi kai soi;

Gesù prende le distanze dalla “madre”, chiamandola “donna/gynai”. È un’espressione rara in greco e assente nell’ebraico, ma usata da Gesù per rivolgersi alla Samaritana (Gv 4,21), alla peccatrice (Gv 8,10), a Maria di Magdala (Gv 20,13.15) e soprattutto a sua madre sotto la croce col Discepolo Amato (Gv 19,26).

Gesù prosegue la sua interpellazione della madre con un’espressione idiomatica ben nota nell’AT, che in questo caso suonerebbe: “māh lî we lāk/ti emoi kai soi;/che cosa è a me e a te?”.

Detta a un nemico, essa esprime totale mancanza di comunione, un’assenza di rapporto, un contrasto o una dissociazione di idee o di prospettive, la volontà di interrompere definitivamente i rapporti per il futuro, la divergenze di prospettive, l’assenza di comunanza di idee e di esperienze di vita: «Non ho niente a che fare con te» (cf. Gs 22,24; 2Sam 16,10; 19,23; 1Re 17,18; 2Re 3,13; 9,18-19; 2Cr 35,21).

Detta a un amico, essa esprime una presa di distanza dalle posizioni, dalle idee, dai modi di fare dell’amico, dal livello in cui si pone, per invitarlo a cambiare tono, modi, idee, tipi di rapporti, livello del discorso ecc. Gesù non si rivolge bruscamente alla madre come fosse un nemico. Le chiede solo, come si fa con un amico, di cambiare livello a cui si pone il discorso, di cambiare qualità di rapporto. La madre non può più situarsi a livello puramente familiare, ma deve “salire” a quello più tipicamente teologico.

L’“ora” di Gesù

La frase che segue – «Non è giunta (forse) la mia ora (?)» – pone delle difficoltà grammaticali, strettamente collegate, a loro volta, a importanti dati teologici che non vanno trascurati.

La maggioranza degli interpreti e delle traduzioni la interpretano in senso affermativo (cf. CEI 2008).

Altri suggeriscono di darle un senso interrogativo.

Il grande esegeta gesuita p. Albert Vanhoye, oggi cardinale, propone l’interpretazione interrogativa: «Non è forse giunta la mia ora?». Mi sento di condividere questa interpretazione.

Al termine di uno studio esegetico approfondito, egli è arrivato alla conclusione che, a livello grammaticale, dopo una frase interrogativa – «che cosa a me e a te?» –, una frase seguente che inizi con la congiunzione oupō debba anch’essa avere un valore interrogativo e non affermativo. Il senso della frase sarebbe il seguente: «Non è forse giunta la mia ora?».

Oltre al dato grammaticale, vanno tenuti presenti anche alcuni dati teologici fondamentali.

Nel Vangelo di Giovanni la menzione della “madre di Gesù” ricorre solo nell’episodio/segno della nozze di Cana e nel tragico momento del suo stare ritta e intrepida con il Discepolo Amato sotto la croce del Figlio al calvario. Il segno di Cana rimanda strettamente al dono d’amore pasquale di crocifissione/esaltazione/morte e a quello successivo di risurrezione.

Nel Vangelo di Giovanni l’“ora” ha una grande valenza teologica. È certo l’ora della missione, della sua manifestazione al mondo (cf. Gv 7,14). Al termine della festa delle Capanne il piano di arrestare Gesù non va in porto perché secondo l’evangelista non era ancora giunta la sua ora (cf. Gv 7,30; 8,20). Verso la fine della sua vita pubblica, l’“ora” di Gesù si rivela essere il momento della glorificazione del Figlio dell’uomo, il momento della donazione d’amore totale che Gesù compie nella sua crocifissione/innalzamento sulla croce (cf. Gv 12,23-24.27a.b: «Gesù rispose loro: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto […]. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!”»).

Anticipata nel segno “sacramentale” della lavanda dei piedi durante la cena degli ultimi addii, con il quale il “buon pastore de-pone la sua veste (cf. Gv 13,4 e 10,11.17.18) – cioè il simbolo antropologico della persona, della sua vita – per poi ri-prenderla (cf. Gv 13,12) con potere autonomo e piena libertà (cf. Gv 10,18), l’“ora” di Gesù è anticipata anche nel segno dell’unzione di Betania (cf. Gv 12,7) e nella risposta alla domanda dei greci che lo vogliono vedere : “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato” (Gv 12,23b).

A livello teologico, nel Vangelo di Giovanni, è evidente che colui che fa giungere l’“ora di Gesù è il Padre, non un agente umano (Maria, gli avversari religiosi o politici ecc.).

Se si interpreta la risposta che Gesù dà a sua madre durante le nozze di Cana – episodio letterariamente e teologicamente strettamente collegato alla scena del calvario, al dono d’amore compiuto da Gesù sulla croce fino all’effusione del sangue – dandole un senso interrogativo («Non è forse giunta la mia ora?») –, sembra abbastanza certo di aver raggiunto il risultato esegetico-teologico più corretto: al momento della nozze di Cana Gesù ha appena iniziato la sua vita pubblica, lasciando definitamente dietro di sé la sfera della vita familiare, e con questa scelta è consapevole di aver acconsentito a che il Padre iniziasse a fare scattare la sua “ora” (che è “ora” del Padre e del Figlio, nello Spirito), l’“ora” della sua donazione d’amore totale.

“Non è forse giunta la mia ora?”, direbbe allora Gesù alla madre, con una domanda retorica che richiede una risposta affermativa. “Cambia livello di posizionamento”, chiederebbe di conseguenza Gesù alla madre. «Non porti più a livello familiare, da madre a figlio, ma a quello teologico; acconsenti anche tu all’“ora” che il Padre ha deciso di iniziare a far scattare per me e non chiedere più le cose facendo pressione a partire dal tuo solo amore materno». Maria acconsentirebbe alla proposta di Gesù, facendo solo presente maternamente la situazione incresciosa degli sposi.

Se si sceglie di interpretare la frase di Gesù in senso affermativo («Non è giunta la mia ora»), ci si porrebbe su un piano interpretativo che vede esaltata nella “madre” la sua funzione di intercessione. Occorre ricordare che, nei decenni successivi alla morte e risurrezione di Gesù, la Chiesa ha approfondito la figura e l’importanza teologico-spirituale di Maria, “la madre di Gesù”, la “Donna” (cf. Ap 12,1ss).

Nel momento cruciale delle nozze di Cana, momento in cui non c’è vino”, Maria intercederebbe presso Gesù perché venga incontro alla situazione imbarazzante e incresciosa degli sposi, eventualmente prendendo in considerazione anche il fatto di decidere di far scattare l’“ora” della sua manifestazione a Israele (cf. Gv 1,31, in cui Giovanni Battista afferma: «Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele»).

Consapevole o meno che fosse, continuando con la frase successiva detta ai “diaconi”: «fate qualunque cosa egli eventualmente vi dirà» (v. 5), la “madre di Gesù” contribuisce concretamente in modo materno al fatto che, in quel frangente, inizi a compiersi la nuova alleanza, fondata anch’essa, come quella stipulata al Sinai/Horeb, sulla parola di tutto il popolo unanime: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (cf. Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27).

Maria, “la madre di Gesù”, più che semplice madre di intercessione viene dunque a porsi, a livello simbolico e teologico, come la madre della nuova alleanza.

Acqua pietrificata

Senza neppure attendere la risposta da parte di Gesù, “la madre” dice ai “servitori/diaconi/diakonoi” di fare quello che eventualmente Gesù dica loro di fare (v. 5).

Il narratore ricorda la presenza di sei idrie di pietra contenenti ciascuna 80-120 litri di acqua, pronta “per la purificazione dei giudei/pros ton katharismon tōn Ioudaiōn”. Le idrie devono purificare le mani e, tendenzialmente, il cuore dei giudei, ma sono “di pietra/lithinai” (per preservare la purità dell’acqua) e “sono giacenti/keimenai”, in una posizione di passività permanente. Le giare di pietra giacenti per terra non potranno mai purificare il cuore dei giudei, e così raggiungere il loro scopo.

L’acqua delle giare simboleggia sia la Torah che lo Spirito di Dio (cf. Gl 3,1-5; Gv 7,37-39, che riportano le parola gridate da Gesù l’ultimo giorno della festa delle Capanne, il più importante, e interpretate dall’evangelista “onnisciente”: «“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti, non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato»).

Le parole della Torah risulteranno sempre inefficaci a raggiungere lo scopo inteso da YHWH, restando esterne al cuore degli uomini. Solo lo Spirito che viene dal costato del Figlio le interiorizzerà vitalmente.

Gesù dice ai “diaconi “di riempire le giare con l’acqua che eventualmente mancasse ed essi le riempiono fino all’orlo. Per compiere il suo “segno” Gesù si serve degli strumenti approntati da YHWH per la vita di fede del suo popolo, ancorché imperfetti e mancanti (Torah e Profeti), non sostituendosi ad essi ma portandoli a pieno compimento (cf. Mt 5,17).

I diaconi obbediscono alla lettera e senza discutere alle parole di Gesù e riempiono dell’acqua mancante le giare, fino all’orlo (eis anō = fino alla cima, fino al principio). Gesù dirà ai “giudei” (cifra storico-simbolica indicante per lo più l’insieme delle forze religiose e storiche che si oppongono a Gesù) che essi “provengono dal basso/ek tōn katō este”, mentre lui “proviene dall’alto/ek tōn anō eimi” (Gv 8,23). Gesù proviene dal Padre, da quell’“alto” al quale egli alza gli occhi per pregare in occasione della rivivificazione di Lazzaro (cf. Gv 11,41; “verso l’alto” manca nella traduzione CEI 2008).

Al retto studioso ebreo Nicodemo, Gesù ricorderà di lì a poco che è necessario che “voi/i giudei rinasciate dall’alto/di nuovo” per vedere il regno di Dio (cf. Gv 3,3.7).

Di dov’è?

Gesù dice ai “diaconi” di attingere “ora/nyn” e di portare dell’acqua all’architriclino (“il capo del banchetto”), la persona che aveva il delicato incarico dell’approvvigionamento del vino (normalmente molto forte e aspro) e del controllo della sua corretta mescolanza con l’acqua, per un prodotto personalizzato secondo le diverse esigenze di ciascun ospite del banchetto.

L’architriclino assaggia l’acqua diventata vino (il “miracolo” della trasformazione viene accennato puramente en passant, quasi a indicare che il vero “segno” sta in altro) e, dal momento che “ignora di dove esso venga/ouk ēidei pothen estin”, chiede spiegazioni allo sposo.

Tutto il Vangelo di Giovanni è percorso dalla domanda “di dove sia/pothen estin” Gesù, quale sia la sua origine, quali le radici a cui attinge la vita e la missione, quale sia la fonte da cui attinge acqua viva.

La domanda sul “da dove/pothen” ricorre in 4,11 (la Samaritana); 7,27 (alcuni abitanti di Gerusalemme pretendono di sapere di dove sia Gesù, “questo qui/touton”, e sostengono che il Cristo, quando viene/verrà, nessuno sa di dove sia); 7,28 (nella zona templare Gesù grida ai presenti che essi lo conoscono e sanno di dove sia, a livello umano); 8,14 (nella zona templare Gesù risponde ai farisei sostenendo che la sua testimonianza è veritiera, anche se dà testimonianza a se stesso, perché egli “sa da dove è venuto/oida pothen elthon” e “dove va/pou hypagō”, mentre rinfaccia loro il fatto che “ignorano da dove vengo e dove vado/ouk oidate pothen erchomai kai pou hypagō); 9,29 (“i giudei” del v. 18 ammettono con le loro stesse parole che costui non sappiamo di dove sia/touton ouk oidamen pothen estin”); 9,30 (il cieco nato guarito li irride con fine ironia, sottolineando proprio ciò che stupisce, il fatto cioè che “voi [menzione enfatica del pronome personale, non necessario] non sapete di dove sia/ouk oidate pothen estin”; 19,9 (a Gesù, stremato dalla flagellazione, Pilato rivolge sprezzante la domanda decisiva che ha attraversato tutto il racconto evangelico: “Di dove sei tu?/pothen ei sy;”; visto il tono illocutorio non recettivo, Gesù non lo degna neppure di una risposta).

L’architriclino non sa di dove sia il vino che gli portano i diaconi.

Essi invece lo sanno perché hanno eseguito prontamente e alla lettera il comando di Gesù

Nel Vangelo di Giovanni nessuna persona umana sa di dove sia Gesù.

Ergo, Gesù è l’acqua diventata vino, di cui si ignora di dove sia.

Il vino buono (e bello) dello sposo

È per chiarire la faccenda incomprensibile del vino, inaspettatamente abbondante e buono, che l’architriclino fa chiamare “lo sposo/ton nymphion” e gli fa notare come, al contrario dell’usanza comune nei banchetti, egli abbia conservato fin ad allora (cf. «attingete ora», v. 8) “il vino buono-bello/ton kalon oinon”, invece di servirlo per primo, lasciando “quello inferiore/meno (buono)/ton elassō”.

Gesù sa di dove egli viene perché egli è il vino nuovo, bello e buono che viene dall’alto/di nuovo.

Il vino buono e abbondante scorre a fiumi nel banchetto escatologico, nelle nozze definitive (cf. Is 25,6; Os 2,10.24; Gl 2,19; 4,18; Am 9,13), quando lo Sposo/il Costruttore sposerà la sua sposa, Gerusalemme (cf. Is 62,5). Essa è stranamente innominata nell’episodio delle nozze di Cana, perché la sposa è la Chiesa, la comunità rappresentata in nuce da Maria, la madre di Gesù e dal Discepolo Amato, ritti e intrepidi sotto la croce, quando dal costato trafitto del Nuovo Adamo fluisce “sangue e acqua” (cf. Gv 19,28-34, unica altra volta in cui “la madre di Gesù” viene nominata nel Quarto Vangelo; cf. 7,37-39).

Dall’interno di Gesù, dalla sua coscienza di Nuovo Adamo addormentato sulla croce dalla tardēmāh fatta scendere e abbracciata dal Padre che sta compiendo un mistero divino di salvezza (cf. Gen 1,21 al momento della creazione della donna; 15,12 prima di stipulare l’alleanza con Abramo), fluisce la vita donata da Gesù in circostanze “tragiche” (= sangue) e l’acqua del suo spirito/Spirito filiale “consegnato” alla Chiesa sposa raccolta in nuce, statu nascenti, sotto la croce.

La sposa, la nuova Eva esce per miracolo del Padre dal costato trafitto del Figlio trafitto per amore “senza-fine/fino alla fine/eis telos” (cf. Gv 13,1).

Si celebrano le nozze nuove.

L’alleanza nuova viene stipulata.

Con parole tacite ma forti come quelle usate per l’alleanza stretta con Abramo nella notte di terrore e grande oscurità (cf. Gen 15,12.18).

Non c’è più l’acqua “ferma”, “pietrificata” nelle giare passive e pietrificate, incapaci di purificare e di dare vita.

È il vino nuovo, bello e buono delle nozze definitive, della nuova alleanza per la quale “la madre di Gesù” ha interceduto affinché iniziasse la sua prolessi, l’anticipazione della sua stipulazione, in attesa della piena realizzazione sulla croce.

Nozze nuove e alleanza nuova, scritta nel sangue e nell’acqua dello Sposo Buono e Bello.

Il “segno” archē

«Questo fece come “inizio/archē” dei segni Gesù a Cana di Galilea» (v. 11).

È il segno archetipico. Il primo nel tempo, il fondamento degli altri, il primo che dà l’intonazione striata di sponsalità a tutti gli altri sei registrati nel Vangelo di Giovanni. Il codice nuziale è inserito fin all’inizio del testo del Vangelo, all’inizio della vita della Chiesa.

Sarà una vita sponsale, il trionfo della “gloria/gr. doxa/ebr. kābôd” di Gesù (cf. v. 11). Gesù la “rese manifesta/ephanerōsen”, rivelando chiaramente e concretamente (phaneoō) all’esterno ciò che lo costituiva in pienezza al suo interno.

Nozze di Cana.

La Madre è presente. Intercede.

La Nuova Alleanza può iniziare a essere scritta nel cuore.

Tutto è pronto.

Il vino è nuovo, buono e bello.

Le nozze dell’Amante, del Costruttore, possono essere celebrate.

Lo Sposo bacia la sposa e le trapassa il suo amore nuziale.

«Mi baci con i baci della sua bocca!

Sì, migliore del vino è il tuo amore. […]

Trascinami con te, corriamo!

M’introduca il re nelle sue stanze:

gioiremo e ci rallegreremo di te,

ricorderemo il tuo amore più del vino. […]

Mi ha introdotto nella cella del vino

e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 1,2.4; 2,4).

Commento a cura di padre Roberto Mela scj – Fonte del commento: Settimana News

ALTRO COMMENTO

“Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino»”.

Tutti ci cercano per quello che abbiamo, ma chi ti vuole davvero bene non tiene da conto di ciò che hai, ma di ciò che ti manca. L’amore vero è prendere a cuore la mancanza dell’altro, perchè in quella mancanza si gioca il meglio e il peggio della vita. Sono infatti le nostre mancanze la causa prima dei nostri peccati, ma sono altresì proprio le mancanze i punti di svolta dei grandi santi. Ritrovare il vino che manca non serve a riempire un vuoto, ma a cambiarne la sostanza.

Gesù non crea il vino dal nulla, ma cambia l’acqua in vino, cioè prende ciò che c’è e a partire da questo opera un cambiamento radicale. Quello che fino a ieri ti faceva peccare può cominciare ad essere il punto di forza della tua santità. Assurdo! Ma questo è il miracolo: il Signore è l’unico che può prendere sul serio la mia mancanza e trasformarla in santificazione.

Da cosa ce ne accorgiamo? Dal fatto che cominciamo a sentire un’inspiegabile letizia che non trova altra ragione se non nella Grazia di Dio.

Fonte

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