Angelus Domini
Nel cammino liturgico dell’Avvento non può certo mancare la memoria dell’evento centrale della storia della salvezza secondo la prospettiva cristiana: l’annuncio a Maria. Il suo testo è così noto e ricco di suggestioni, che ci soffermiamo soltanto su un paio di aspetti, tutti colti dai primi tre versetti del nostro racconto. Ma forse prima è bene preoccuparsi dell’impatto che l’annunciazione ha sulla cultura attuale. Gérard Rossé (Il vangelo di Luca. Commento esegetico e teologico, p. 61) scrive, ad esempio: “Il concepimento verginale di Gesù è una verità che incontra non poche difficoltà ad essere accolta serenamente dal credente di oggi. Il fatto è che la mentalità moderna, imbevuta di storicismo e, diciamolo pure, di naturalismo, è ben diversa dalla mentalità con la quale il testo fu scritto ed era letto nella Chiesa primitiva. Diverso, di conseguenza, è oggi l’avvicinarsi a questo mistero della fede cristiana. Spontaneamente vogliamo una garanzia storica, ci mettiamo in cerca di prove, di testimonianze da parte di chi ha visto e constatato il fatto. L’attenzione si porta sul dato fisico e quindi sulla possibilità scientifica (medica) di un tale fenomeno fisiologico (partenogenesi)”. Con ciò non vogliamo in alcun modo dire che il racconto debba essere “demitologizzato” per coglierne il messaggio teologico centrale: piuttosto, invece, è opportuno ritornare alla “mentalità” della Chiesa primitiva in cui fu composto e recepito il racconto, e per fare questo si devono sottolineare alcuni aspetti della cultura di quel tempo e che si trovano nel nostro brano.
L’angelo Gabriele, ad esempio, è importantissimo per la letteratura giudaica del primo secolo. Infatti non appare solo nel Vangelo di Luca, autopresentandosi a Zaccaria nel Tempio di Gerusalemme (“Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio”, Lc 1,19), ma è soprattutto noto agli ebrei del tempo perché è uno dei due soli angeli, con un nome, che compaiono nella Bibbia ebraica: l’altro, ovviamente, è Michele (Raffaele appare in Tobia, un libro non canonico per il giudaismo). Questi due angeli hanno un ruolo centrale nel libro di Daniele. Gabriele, in particolare, svolge la funzione di rivelatore escatologico: è l’angelo che annuncia la fine, è il messaggero che copre il tempo dell’attesa nel giudaismo intorno al primo secolo cristiano. Così dice Gabriele: “Figlio dell’uomo, comprendi bene, questa visione riguarda il tempo della fine” (Dn 8,17). La presenza di Gabriele, allora, rispetto alla cultura del tempo in cui fu scritto il racconto dell’annuncio a Maria, dice già in quale senso dobbiamo cogliere le sue parole. Siamo alla fine della storia, o meglio: è l’inizio di tutto. Paradossalmente, lo stesso angelo che annunciava una “fine” nel testo apocalittico di Daniele, dice che questa fine comporta ora un nuovo inizio.
Un altro dato culturale significativo rispetto alla mentalità del tempo, è quello dell’assenza di Nazaret nella Bibbia ebraica. Questo nome non è affatto importante per la storia del popolo dell’Alleanza, diversamente da quello di Betlemme (che ricorre una ventina di volte nel Primo Testamento). Nazaret, un piccolissimo villaggio (“viculus”, così lo descrive San Girolamo), probabilmente sorto intorno al III sec. a.C., è oltretutto in Galilea, una terra cioè tradizionalmente ritenuta origine di eretici, non praticanti della Legge (ma alcuni non concordano con quest’idea), e sobillatori politici. “Può mai venire qualcosa di buono da Nazaret?”, si chiede addirittura Natanaele (cfr. Gv 1,46).
Il saluto dell’angelo a Maria è ricco, ugualmente, di riferimenti biblici e culturali: dice non solo un “Ave” romano, come traduce la Vulgata, quanto piuttosto un riferimento chiaro, per chi conosceva la Bibbia ebraica, alle profezie antiche di stampo messianico: “Rallegrati” (si tratta infatti dell’imperativo di un verbo, “gioire”, “rallegrarsi”) è l’invito rivolto ad una donna, che rappresenta il popolo di Israele. “Ad eccezione di Lam 4,21, chaire, quando lo si incontra nell’Antico Testamento greco, si rivolge sempre alla Figlia di Sion per invitarla a rallegrarsi molto del fatto che il Signore è con lei, Egli, suo re e Salvatore” (J. McHugh).
In sintesi, anche solo rifacendoci a questi pochi esempi visti ora, possiamo dire che già nell’attacco al brano dell’annunciazione è veicolato un importante messaggio teologico. La storia della salvezza – quella che Dio ha costruito con gli uomini – ha un nuovo inizio attraverso una sconosciuta vergine di una sconosciuta città di una zona periferica dell’impero. Questa però, Miriam (così chiamata come la sorella di Mosè), non è ai margini del pensiero di Dio: vi si trova anzi al centro, tanto che l’angelo a lei si rivolge quale Figlia di Sion, per chiedere la sua disponibilità a portare nel grembo un figlio (Lc 1,31), destinato a sedere sul trono di Davide. L’oscura storia di questa donna, il cui “sì” ha squarciato per sempre la storia dell’umanità, dividendola in prima e dopo, è forse anche metafora dell’esistenza dei cristiani: non importa, sembra dirci Luca, in quale luogo vivano. Ad essi capita lo stesso destino di salvezza che ha toccato la vita della Madre di Dio, la stessa vocazione, la stessa chiamata a portare oggi il Figlio nel nostro mondo, lo stesso invito a dire con lei “Ecco, vogliamo anche noi essere servi del Signore”. Che la mentalità moderna lo accetti o no, è l’annuncio più sconvolgente che si possa mai ricevere.
Commento del 24 dicembre 2017