Commento al Vangelo del 2 aprile 2017 – Damiano Antonio Rossi

Commento a cura di Damiano Antonio Rossi con la collaborazione delle Suore Adoratrici Perpetue del S.S. Sacramento di Vigevano.

Lazzaro, vieni fuori! (Gv 11, 1-45)

Dopo il duro scontro con i giudei, sempre più rigidamente bloccati nella loro posizione di rifiuto nei confronti della rivelazione di Gesù, questi compie un ultimo “segno” per dimostrare la propria origine “da Dio” (cf. 10,33) quasi a voler esaudire, questa volta in modo definitivo e senza appello, la loro richiesta di un prodigio incontrovertibile per poter credere in Lui senza più dubbio alcuno (cf. 6,30). Delle tre resurrezioni compiute da Gesù e riportate dagli evangelisti (quella del figlio della vedova di Nain in Lc 7,11-15 e quella della figlia di Giairo, capo della sinagoga, in Mt 9,18-25pp furono operate da Gesù a breve distanza dal decesso dei due sventurati ragazzi), certamente suscitò molto scalpore la resurrezione di un certo Lazzaro, fratello di Marta e di Maria e, come loro, molto amico di Gesù. Egli, infatti, era morto da ben quattro giorni, era ormai stato sepolto e dal sepolcro “già manda[va] cattivo odore” (11,39). Molto si è discusso circa l’attendibilità storica di un simile episodio, ma la sobrietà del racconto evangelico e le sfumature psicologiche che vi si possono cogliere depongono per la veridicità del fatto narrato dall’evangelista.

Ritenere, come fanno alcuni, che i discepoli avessero fatto un patto con Lazzaro affinché simulasse la sua morte, in modo che Gesù potesse resuscitarlo da una morte presunta e così diventare famoso, oppure che Gesù stesso fosse d’accordo con questa truffa o che l’avesse Egli stesso architettata per trarre in inganno i suoi connazionali e ottenerne un qualche vantaggio politico o religioso, è frutto della perversa fantasia degli scettici ad oltranza. La prima parte di Gv 11 si legge come il racconto proprio di un testimone oculare ed auricolare, trovatosi con Gesù nella regione situata a Est del fiume Giordano e meravigliato del fatto che il Maestro si fosse trattenuto per ben due giorni in quei luoghi, nonostante fosse stato avvisato delle gravi condizioni di salute dell’amico Lazzaro (11,6).

Solo un testimone diretto poteva riferire i detti efficaci di Gesù riguardanti le ore della giornata (11,9) o l’apparente assurdità della sua pretesa di essere “la resurrezione e la vita” (11,25) e di poter garantire addirittura la vita eterna a chi crede in Lui (ibid.); ancora, solo un testimone diretto, che più volte aveva percorso quella strada, poteva sapere che la distanza che separava il villaggio di Betania da Gerusalemme era di “due miglia” scarse

(11,18) e poteva riferire le ansie di Tommaso e degli altri discepoli, consapevoli che Gesù e loro stessi rischiavano la vita, una volta messo piede nella Città Santa (11,8.12-16).

Se l’evangelista si propone come scrittore e testimone attendibile nella prima parte del racconto, perché ritenerlo inattendibile e fantasioso quando narra l’accaduto della resurrezione di Lazzaro, riferendo per di più particolari poco adatti alla solennità del momento, come il pianto di Gesù, addolorato per la morte dell’amico (11,35)? Si può anche ragionevolmente affermare che ciò che la narrazione sottace è impressionante quanto ciò che dice. Non viene riportata alcuna parola di Lazzaro e nulla viene riferito della sua esperienza nell’altro mondo durante quei “quattro giorni”. Un narratore poco affidabile si sarebbe dilungato nell’amplificare a dismisura la portata di un miracolo di per sé straordinario ed inaudito. La sobrietà dell’evangelista è la migliore credenziale della sua affidabilità come testimone e narratore.

La resurrezione di Lazzaro rappresenta, per l’evangelista, il culmine dei “segni” operati da Gesù di Nazareth, del quale riporta una parola d’auto-rivelazione (11,25ss) che costituisce la chiave di lettura dell’intero episodio. L’importanza dell’accaduto, dal punto di vista cristologico e soteriologico, è brevemente trattata all’inizio e nel punto culminante del racconto (11,4.40). Insieme alla guarigione del cieco nato, questo miracolo esprime appieno l’idea cristologica che guida ed ispira il IV Vangelo: Gesù è la luce e la vita del mondo (cf. 1,4). L’evangelista ha inserito l’episodio della resurrezione di Lazzaro proprio al culmine del drammatico scontro tra la fede e l’incredulità ed il “segno” rappresenterebbe, per i giudei, la decisiva spinta a credere nel ruolo messianico di Gesù ed in effetti, dopo il miracolo, molti scelgono di avere fede in Lui (11,45). Preoccupati per la piega assunta dagli avvenimenti (cf. 11,48; 12, 9), i capi giudei decidono di passare al contrattacco e di prendere ufficialmente, durante una seduta del sinedrio, la decisione di mettere a morte Gesù: meglio la morte di un uomo solo che la rovina di un popolo intero (11,50)!

Non è un caso che, proprio nel momento in cui il Figlio di Dio manifesta la sua potenza vitale nel modo più sublime, gli uomini che rifiutano di credere in Lui siano ferocemente determinati a farlo scomparire dalla faccia della terra, prendendo tutte le misure necessarie per raggiungere il loro scopo omicida. Il cammino della croce è già tracciato, ma, contrariamente a quanto pensano gli uomini, esso rientra nei piani di Dio addirittura dall’eternità, perché l’esaltazione di Gesù sulla croce coincide misteriosamente con la glorificazione di Dio stesso nel Figlio suo unigenito. Il “segno” di Lazzaro richiamato alla vita dopo “quattro giorni”, quando ormai il suo spirito vitale ha abbandonato per sempre il corpo mortale ed è sceso nello sheòl, addita già questa glorificazione finale (11,4) e l’involontaria profezia del sommo sacerdote Caifa (11,51ss) dimostra che il complotto degli uomini è necessariamente al servizio dei piani di Dio.

Vari commentatori, in passato, si sono chiesti come mai l’episodio della resurrezione di Lazzaro, così straordinario ed unico nel suo genere, non sia stato riportato anche dai Sinottici. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che, all’epoca in cui furono scritti i Vangeli sinottici, Lazzaro fosse ancora vivente; da un lato, gli evangelisti non avevano voluto esporlo ad inutili pericoli da parte delle autorità giudaiche e romane narrando il prodigio di cui era stato il fortunato protagonista e, dall’altro, Lazzaro stesso poteva essere il testimone più autorevole e credibile del beneficio ricevuto, grazie al quale era assai noto presso le comunità cristiane di quel tempo. Seguendo la logica di questo ragionamento, all’epoca in cui fu composto il IV Vangelo Lazzaro era di nuovo deceduto, quindi erano venuti a mancare i presupposti per una possibile azione di ritorsione nei suoi confronti. Non è da escludere che tutti gli evangelisti abbiano selezionato solo alcuni tra i tanti miracoli attribuiti a Gesù con lo specifico intento di utilizzarli in funzione della personale interpretazione teologica dei fatti narrati.

11,1 Era allora malato un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. 2 Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3 Le sorelle mandarono dunque a dirgli: “Signore, ecco, il tuo amico è malato”.

La lunga storia della resurrezione di Lazzaro inizia con molta semplicità. Il luogo, in cui si è verificato lo straordinario prodigio, è un villaggio che dista circa 3 km da Gerusalemme (corrispondenti alla misura di 15 stadi o di 2 miglia, secondo il modo di misurare le distanze in quel tempo), e si trova sulle pendici orientali del Monte degli Ulivi. La situazione attuale ed il tipo di costruzione del sepolcro di Lazzaro non danno luogo ad obiezioni circa la veridicità del racconto e della sua ambientazione, anche se non possono ovviamente confermare la storicità del racconto giovanneo. La tomba di Lazzaro si trova attualmente all’interno della località El-‘Azaraje e, in origine, si trovava fuori dell’abitato, che sorgeva un po’ più ad occidente, sui fianchi montagnosi del Ras Esh-Shijah. Il nome Lazzaro era assai comune a quel tempo ed il suo significato è “Dio l’aiuta” (un nome assai azzeccato, si direbbe!).

Per conferire una connotazione veritiera e storica al racconto, l’evangelista precisa che Lazzaro è di Betània; se così non fosse, gli abitanti del villaggio lo smentirebbero in un attimo, negando di aver mai avuto un concittadino di quel nome beneficato in quel modo da Gesù di Nazareth. Il racconto, quindi, non è frutto di fantasia e di immaginazione! Ad ulteriore conferma di non temere smentite, l’evangelista precisa che Betània è il villaggio di “Maria e di Marta, sua sorella” e che entrambe sono sorelle di Lazzaro; a giudizio dei critici, il v. 2 sembra l’aggiunta del redattore che ha curato la stesura finale del Vangelo giovanneo e che si è preoccupato di precisare di quale Maria si tratti, visto che questo nome ricorre molto spesso nel testo evangelico essendo di uso piuttosto comune (basti pensare a Maria, la madre di Gesù ed a sua sorella Maria [moglie] di Cléofa, madre di Giacomo il minore e di Ioses [Mc 15,40], noti anche come “fratelli” del Signore nel senso di cugini di primo grado; oppure a Maria di Magdala). Tale aggiunta esplicativa (definita, in termine tecnico, “glossa”) serve a chiarire l’identità dei personaggi in questione e ad anticipare, in qualche modo, l’episodio dell’unzione di Betània (cf. Gv 12,3ss), gesto per il quale Maria sarà criticata da Giuda Iscariota ma lodata da Gesù, che in quel gesto vedrà l’annuncio profetico della sua morte e sepoltura.

Il messaggio, che le sorelle fanno pervenire a Gesù, nasconde una tacita preghiera; esse vogliono indurre l’illustre amico ad accorrere al capezzale del fratello ammalato col chiaro intento di farlo guarire prontamente. In poche righe il vocabolo “malato” (in greco, asthenòn) ricorre per ben tre volte, quasi a voler sottolineare l’estrema gravità delle condizioni di Lazzaro, che di lì a poco, infatti, morirà. Gesù, però, sembra non scomporsi più di tanto davanti alla notizia della “grave malattia” dell’amico e tergiversa, causando lo stupore dei suoi stessi discepoli.

4 All’udire questo, Gesù disse: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato”. 5 Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro.

La risposta di Gesù intende elevare l’avvenimento umano, naturale sia pure nella sua drammaticità, al piano delle intenzioni particolari di Dio. La malattia e la morte fanno parte dell’esperienza umana comune e, spesso, si è indotti ad imputare a Dio la causalità di entrambe anche se, secondo il testo biblico, alla radice della sofferenza e dell’angosciosa ineluttabilità della morte sta il peccato originale commesso dai progenitori a nome e per conto dell’intera umanità (cf. Gen 3,1-19). Il male è generato dal male. Anche il testo evangelico sembra collocarsi su questa linea di pensiero, con una sottolineatura di speranza sino ad allora sconosciuta: se Dio colpisce il peccato col male e la morte, non lo fa come gesto di vendetta né per annientare le sue creature, ma così ha deciso per donare speranza a coloro che scelgono liberamente di aprirsi alla fede nel Figlio suo. Nel momento stesso in cui Dio ha giustamente castigato l’uomo per il suo gesto di ribellione e di superbia, gli ha aperto le porte della speranza (Gen 3,15) orientando l’attesa della liberazione dal peccato e dal male sul suo Unto, su Gesù Cristo. Pur concludendosi con la morte naturale, la malattia di Lazzaro non è finalizzata all’oscurità del dissolvimento del corpo e dello spirito, ma alla gioiosa attesa della resurrezione, di cui Gesù è il frutto ed il protagonista più atteso, essendo Egli “resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20). Davanti alla malattia mortale dell’amico Lazzaro, Gesù è consapevole che il Padre sta operando per mezzo suo al fine di affermare la propria sovranità assoluta sulla vita e sulla morte e che l’imminente prodigio della resurrezione di un uomo morto da quattro giorni è orientato alla sola gloria di Dio Padre, cui, però, è strettamente correlata la gloria del Figlio stesso, che è “uno col Padre” (Gv 10,30).

La “glorificazione” reciproca del Padre e del Figlio è il leitmotiv della cristologia di Giovanni. Quando giunge la sua “ora”, Gesù glorifica il Padre affrontando la propria immolazione volontaria con un atteggiamento di assoluta obbedienza (Gv 10,17s) a Colui che lo ha inviato presso gli uomini come vittima sacrificale e come prezzo per il riscatto di ogni uomo peccatore (Rm 4,25; 5,8-11), ma, al tempo stesso, Egli viene glorificato dal Padre (Gv 13,31s; 17,1) nel preciso momento in cui viene “innalzato” sulla croce (8,28), attirando su di sé lo sguardo di tutti gli uomini (Zc 12,10; Gv 19,37) disposti a credere in Lui e nella sua opera di redenzione. Nelle parole che preannunciano il segno della resurrezione di Lazzaro (“questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio…”) sono implicite anche la morte di Gesù e la sua resurrezione. Il Figlio di Dio annuncia la propria resurrezione mediante il richiamo alla vita dell’amico defunto e, paradossalmente, compiendo questo straordinario prodigio Gesù decreta anche la propria morte (cf. Gv 11,47-53), grazie alla quale, però, il Padre manifesta la propria gloria richiamando il Figlio nella celeste comunione di vita in cui Egli si trovava prima di scendere sulla terra (cf. 17,5) e conferendogli il potere di trasmettere la vita a tutti i credenti (cf. 17,2).

Dopo questa breve ma significativa interpretazione degli avvenimenti che stanno per accadere, Giovanni ritorna al suo racconto per rimarcare il forte vincolo di amicizia che lega Gesù ai fratelli di Betània. Per esprimere il sentimento di amore che Gesù prova nei loro confronti, l’evangelista usa il termine agàpe il quale, pur non escludendo un’inclinazione affettiva naturale ed una spontanea e reciproca simpatia, pone l’accento soprattutto sull’affinità spirituale di questi personaggi (cf. anche Gv 13,23; 19,26). Marta e Maria sanno che Gesù le “ama”, il che le rende forti nella fede in quell’amico speciale, capace di compiere segni fuori della portata di qualsiasi essere umano (11,21.32) perché è ormai chiaro a tutti che Gesù “viene da Dio” (cf. 9,30-33).

6 Quand’ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava.

La malattia di Lazzaro è il preludio della sua morte e di quella di Gesù (11,13.14), così come il prodigio della resurrezione del primo è anticipazione di quella, ben più importante ai fini della salvezza dell’uomo, del secondo. Si può ben comprendere quale valore l’evangelista intende attribuire alla collocazione della storia di Lazzaro nel tracciare la via di Gesù: è l’ultimo tratto di strada che egli deve percorrere prima di affrontare la sua fatidica e cruciale “ora”, quella della sua passione e morte redentrice. Sul cammino verso la morte, che ormai va profilandosi all’orizzonte quale evento ineluttabile e tragico, splende come una promessa la resurrezione dell’amico Lazzaro, quasi a voler significare che la morte non è la fine di tutto, ma è piuttosto la premessa necessaria per l’ingresso nella vita nuova e piena “da risorti” in Cristo Signore, colui che per primo è risorto da morte, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20).

L’annotazione che Gesù voleva molto bene a Lazzaro ed alle sue sorelle (11,5) stride con la decisione del Maestro di fermarsi ancora “due giorni nel luogo dove si trovava”, vale a dire nella località “dove prima Giovanni [Battista] battezzava” (10,40), ad oriente del fiume Giordano. Il comportamento dell’uomo Gesù è spesso sconcertante e controcorrente, ma è giustificato dalla sua obbedienza assoluta e fedele alla volontà del Padre; le sue reazioni, umanamente sorprendenti (cf. 11,15), diventano comprensibili solo se correlate all’incarico che Dio ha affidato al Figlio suo prediletto. A causa della sua natura fragile, limitata e corrotta, l’uomo non è in grado di penetrare e di comprendere la sapienza di Dio (cf. Gb 28), che misteriosamente, ma infallibilmente, lo guida verso la salvezza, ma in Gesù è all’opera lo stesso Spirito di Dio che conosce, Lui soltanto, i segreti di Dio (1Cor 2,11).

7 Poi disse ai discepoli: “Andiamo di nuovo in Giudea!”. 8 I discepoli gli dissero: “Rabbì, poco fa i giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?”.

Solo dopo che sono trascorsi i due giorni Gesù invita i suoi a tornare in Giudea ed a recarsi a Betània dall’amico Lazzaro. Usciti di scena fin dalle prime battute dell’episodio della guarigione del cieco nato (cf. 9,2), i discepoli ricompaiono nel racconto evangelico e si rendono nuovamente protagonisti di uno scambio di battute con Gesù, il quale spiega loro il senso del suo desiderio di recarsi in Giudea. La vera meta del Maestro è Gerusalemme, la città santa nella quale deve compiersi il suo destino umano ed i discepoli vengono da Lui coinvolti nel progetto di salvezza stabilito dal Padre fin dall’eternità. Per il momento si deve giungere solo a pochi chilometri di distanza dalla capitale, ma persino i sassi sanno che per Gesù non tira una buona aria, non solo a Gerusalemme ma persino nell’intera regione di Giudea, dove l’influenza delle autorità giudaiche è in grado di far sentire il proprio peso politico anche sul potere locale romano (cf. 4,7; 7,1). I discepoli si rendono immediatamente conto che il loro rabbì sta cacciandosi in un brutto guaio e si ricordano assai bene del tentativo fatto dai giudei di lapidarlo (10,39) in occasione della festa della Dedicazione del Tempio, nell’inverno appena trascorso (10,22). Dotati di comune buon senso, i discepoli sanno che per Gesù non ci sarebbe scampo se dovesse cadere nelle mani dei suoi nemici dichiarati, pronti a tutto pur di mettere a tacere per sempre quella bocca così scomoda!

9 Gesù rispose: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10 ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce”.

Com’era già accaduto in occasione della guarigione del cieco nato, anche in questo caso Gesù si sottopone alla legge del tempo, che il Padre ha fissato per Lui e che l’evangelista Giovanni circoscrive entro due coordinate storiche e psicologiche: Gesù deve operare “finché è giorno” (cf. 9,4) perché sa che, prima dell’ora stabilità dal Padre suo, i suoi nemici non possono fargli del male (cf. 7,30; 8,20). La risposta, che Gesù dà ai suoi discepoli, confermerebbe tale ipotesi. Gesù è pienamente inserito nell’ambiente culturale del suo tempo. Gli ebrei consideravano il “giorno” come il tempo del lavoro e dell’efficienza psico-fisica, cui poneva fine la “notte” che, a quei tempi, rendeva assai precarie, se non impossibili, le condizioni del lavoro per la quasi totale mancanza di luce, garantita solo dalle torce, dalle lampade ad olio e… dalla luna. La notte era il tempo del riposo per i più, dello studio per pochi altri, ma anche delle malefatte per ladri, assassini e cospiratori di vario genere. Al tramonto del sole, gli agglomerati urbani dotati di cinte murarie chiudevano le porte d’accesso alla città per non correre il rischio di subire incursioni notturne e saccheggi per opera di briganti e d’eserciti nemici. Chi si trovava all’interno delle mura poteva ritenersi al sicuro, ma in un certo qual modo era anche prigioniero ed esposto al pericolo d’eventuali regolamenti di conti e, per ovvi motivi, chi si trovava fuori delle mura non poteva fruire di protezione alcuna. La stessa ripartizione della giornata in dodici ore di luce e dodici di buio corrisponde all’usanza ebraica, che non teneva conto della reale durata del periodo di luce che varia da stagione a stagione, attribuendo un valore relativo alla misurazione cronologica del tempo.

L’alternanza della luce e del buio permette all’autore del IV Vangelo di esprimere, in modo simbolico, la vicenda storico-salvifica di Gesù di Nazareth: la notte alluderebbe alla passione e morte di Cristo, mentre la luce ricorderebbe la sua resurrezione gloriosa.

Secondo un’altra chiave di lettura, il buio indicherebbe il cammino di Gesù verso la propria morte di croce mentre la luce esprimerebbe l’illuminazione interiore che lo rende consapevole del proprio destino, ma alcuni commentatori scorgono nel detto di Gesù un ammonimento rivolto ai suoi stessi discepoli, interpretando il verbo “inciampare” (in greco, proskòptein) in senso figurato. Chi non cammina illuminato da Gesù-luce, rischia di cadere spiritualmente e di perdere la salvezza; per questo gli uomini, che presumono di salvarsi da soli, sono come ciechi che camminano al buio rischiando di rompersi l’osso del collo! Gesù stesso è la luce interiore che illumina e guida l’uomo che decide di fidarsi di Lui, mentre chi lo rifiuta non può attendersi altre luci altrettanto adeguate ad illuminare le sue scelte esistenziali. Chi sceglie di non credere in Gesù, si priva dell’unica luce in grado di guidarlo alla salvezza ed alla piena comunione con Dio, che “è luce ed in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1,5).

11 Così parlò e poi soggiunse loro: “Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo”.

Dopo la riflessione sul viaggio a Gerusalemme, la città santa nella quale sta per compiersi il destino umano di Gesù, strettamente intrecciato col futuro di salvezza d’ogni uomo, il dialogo tra Gesù ed i suoi discepoli ritorna nuovamente alla situazione concreta, contingente. La realtà materiale trova il suo senso compiuto se rimane collegata alle esigenze superiori dello spirito e, viceversa, il mondo spirituale può affermare la sua supremazia su quello materiale nel momento in cui viene riconosciuto come compimento di quest’ultimo. Gesù afferma candidamente che l’amico Lazzaro si è addormentato, alludendo però alla sua morte, di cui rileva il carattere provvisorio e relativo annunciando semplicemente che intende andare a svegliarlo. Di fronte alla morte eterna dello spirito, la dissoluzione fisica del corpo è paragonabile alla dolcezza dell’addormentamento quieto e sereno di chi ha faticato durante la giornata e si merita il giusto riposo ristoratore. Gesù suggerisce un diverso modo di rapportarsi con la tragica realtà della morte, intendendola come il passaggio alla vita vera e definitiva in Dio, ma i discepoli fraintendono il significato delle parole del Maestro, denotando la loro scarsa propensione al ragionamento speculativo e la sostanziale incapacità, tipica di coloro che sono abituati a misurarsi con la concretezza della realtà quotidiana, di cogliere il senso trascendente della vita.

12 Gli dissero allora i discepoli: “Signore, se s’è addormentato, guarirà”. 13 Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno.

Il ragionamento dei discepoli non fa una grinza, almeno dal loro punto di vista e, soprattutto, dimostra una certa elasticità mentale da parte loro, perché hanno ovviamente intuito che Lazzaro non è semplicemente “addormentato” ma soltanto “ammalato”, anche se in modo non grave, giacché ne danno per scontata la guarigione. Saldamente ancorati al comune buon senso, i discepoli fanno fatica a tenere il passo di Gesù, che li sollecita con pazienza amorevole ad interpretare correttamente il significato delle sue parole.

L’esplicita dichiarazione del Maestro, “Io vado a svegliarlo” (11,11), avrebbe dovuto far scattare nella loro mente il ricordo di altri miracoli di resurrezione compiuti da Gesù ed interpretati da Lui stesso come “risvegli” dal sonno della morte (cf. Mc5,35-42 pp), ma i discepoli dimostrano di avere i riflessi piuttosto lenti e tardano a comprendere le intenzioni del loro rabbì.

14 Allora Gesù disse loro apertamente: “Lazzaro è morto 15 e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!”.

A questo punto, a Gesù non rimane altro da fare che dichiarare esplicitamente come stanno le cose e sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. Lazzaro è morto e, cosa veramente stupefacente, Egli non ha fatto nulla per guarirlo dalla malattia mortale perseguendo un fine ben preciso: suscitare la fede dei discepoli nel Figlio di Dio e, per questo motivo, è lieto di non essersi trovato a Betània a tempo opportuno e di poter mostrare, con certezza, l’origine divina della sua missione tra gli uomini (cf. 16,30). Egli sa già in anticipo ciò che sta per fare, ma i discepoli ancora non se ne rendono conto; richiamando in vita Lazzaro, Gesù prepara i suoi discepoli ad affrontare lo scandalo dell’imminente passione e morte di croce, consapevole che l’orrore del patibolo subito dal loro Maestro li farà fuggire tutti, rendendo uno di loro un traditore ed un altro un rinnegato. Il rafforzamento della fede dei discepoli è una cura costante di Gesù, che più volte anticipa loro la propria sorte affinché non cessino di credere quando tutto sarà compiuto (cf. 13,19; 14,29; 16,4). La fede, che sta tanto a cuore a Gesù, non riguarda i suoi poteri taumaturgici, che raggiungono il culmine dell’incredibile con la resurrezione di un morto, sepolto ormai da ben quattro giorni, bensì la sua identificazione con l’Unto del Signore, col Figlio di Dio. Attraverso la resurrezione di Lazzaro, i discepoli sono sollecitati a riconoscere in Gesù colui che vince la morte e che dà la vita al mondo, specie quando Egli stesso sarà, come Lazzaro, chiuso nel sepolcro da “tre giorni” (cf. Lc 24,21).

16 Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!”.

Tommaso, detto “il gemello” (ovvero dìdimo) è l’esemplificazione del discepolo scettico e prudente anche di fronte all’evidenza, se non addirittura tardo di comprendonio, tanto che la sua incredulità davanti alla testimonianza resa dai confratelli, che dichiarano di aver visto Gesù risorto e la sua stessa professione di fede nella divinità del Risorto (“Signore mio e Dio mio!) sono considerate un valido motivo per credere nella resurrezione e nella divinità di Gesù per gli uomini d’ogni tempo (cf. Gv 20,24-29). Nonostante la lentezza nel professare la propria fede in Gesù, Tommaso si riscatta per la fedeltà al Maestro anche a costo della propria vita, esempio di una fede semplice che sa mantenersi ed affermarsi anche nei momenti più oscuri della vita. La fede non è sempre facile e neppure scontata, specie quando gli eventi del vivere quotidiano spingono i credenti ad interrogarsi sui contenuti e sui “vantaggi” o “rischi” della propria fede. Non sempre l’uomo vuole o sa rischiare le proprie certezze scommettendo su un Dio che vede e sente nelle profondità della propria coscienza.

17 Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro.

Più che descrivere, queste poche e semplici parole lasciano capire il clima emotivamente drammatico vissuto dalla famiglia del defunto, il cui decesso doveva essere avvenuto poco dopo la partenza del messaggero inviato a Gesù dalle sorelle di Lazzaro. La sottolineatura che costui si trovasse nel sepolcro “già da quattro giorni” non avrebbe l’ovvio intento di indicare il periodo trascorso dall’evento luttuoso, bensì di escludere qualsiasi dubbio sulla realtà del decesso. Secondo la concezione giudaica, l’anima del morto ritornava nella tomba per tre giorni, per poi entrare definitivamente nello sheòl, il regno dei morti, vagandovi come un’ombra per l’eternità mentre il corpo andava incontro alla definitiva ed inarrestabile corruzione e decomposizione. La fede nella resurrezione dei morti era di poco anteriore alla venuta di Cristo e non era condivisa da tutti i giudei; creduta dai farisei, ma respinta dai sadducei, la resurrezione era stata “vista” dal profeta Ezechiele durante una visione profetica (Ez 37,1-14) e successivamente affermata e data per certa dall’autore del secondo libro dei Maccabei (cf. 2Mac,7,9.14.23.29), non accolto nel canone ebraico per essere stato scritto in lingua greca, quindi non ritenuto ispirato da Dio.

Resuscitando l’amico Lazzaro, la cui anima già vagava definitivamente nello sheòl, Gesù conferma la realtà escatologica della resurrezione dei morti, che, in definitiva, viene prospettata come l’affermazione della gloria di Dio sull’orrore della corruzione. Creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), l’uomo non può essere destinato alla definitiva distruzione del suo essere; attraverso la resurrezione di Cristo ogni uomo ha la certezza che anche il suo corpo verrà recuperato alla gloria della visione eterna del suo Creatore, attraverso la resurrezione finale.

18 Betània distava da Gerusalemme meno di due miglia 19 e molti giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello.

All’evangelista interessa far notare come tra i testimoni della resurrezione di Lazzaro vi erano molti giudei, considerati come gli avversari di Gesù e, quindi, attendibili nel rendere testimonianza dell’accaduto. La distanza tra Gerusalemme ed il villaggio di Betània, circa 3 km, consentiva ai più di recarsi a piedi dalla famiglia di Lazzaro per porgere le loro condoglianze alle sorelle del defunto. Il fatto che in “molti” si fossero recati a Betània per assolvere il dovere della partecipazione al lutto per la morte di Lazzaro, fa supporre che questo personaggio fosse piuttosto noto nella vicina Gerusalemme. Il consolare gli afflitti era, presso i giudei, una delle opere di misericordia più apprezzate che nessun devoto giudeo trascurava di compiere, non solo prima della sepoltura del defunto ma anche nei sette giorni successivi alla tumulazione, per far sentire ai familiari afflitti per la perdita del loro congiunto la solidarietà del clan familiare e degli amici di famiglia. Questa condoglianza non deve essere scambiata con la lamentazione ad alta voce fatta sul defunto subito dopo la morte (cf. Mc 5,38s e pp), usanza comune anche ad altre culture (le préfiche erano donne pagate per fare le lamentazioni nelle case dei defunti anche presso il mondo greco e romano).

20 Marta, dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21 Marta disse a Gesù: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!

Le due sorelle di Lazzaro sono molto differenti tra loro. Mentre Maria è il prototipo della persona contemplativa (cf. Lc 10,38-42), quieta e riflessiva, capace di stare al suo posto e di porsi in ascolto, Marta è esemplare nel sapersi mettere a servizio degli altri con dedizione ed efficienza, senza perdersi in ciance inutili. L’attivismo di Marta è ben organizzato, finalizzato al benessere dell’ospite ed è privo d’invadenza. Quando Gesù si recava presso la famiglia degli amici di Betània, si trovava a proprio agio e riusciva a recuperare le energie fisiche e psicologiche immergendosi in un clima familiare che, con tutta probabilità, aveva molti punti in comune con la sua stessa famiglia: amore, rispetto, operosità, silenzio, raccoglimento, capacità di ascoltare.

Conformemente al proprio carattere, volitivo ed intraprendente, Marta si reca per prima incontro al Maestro, mentre Maria rimane in casa, “seduta”, in atteggiamento di umile ascolto delle parole che Gesù le dirà a breve, pronta a farle proprie come una “vera discepola” del rabbì tanto amato. Le prime parole rivolte da Marta a Gesù suonano quasi come un sommesso rimprovero per un’attesa andata delusa: “se ti fossi affrettato a venire qui… non avresti lasciato morire il tuo amico…”. In realtà, Marta fa una semplice constatazione di merito; ella sa benissimo che Gesù è dotato di poteri sovrumani e lo conosce come uomo generoso e buono, capace di compiere miracoli incredibili perché è un vero uomo di Dio, un profeta. Senza dubbio, Gesù non avrebbe permesso alla malattia di portarsi via un amico ospitale e sempre disponibile come Lazzaro e lo avrebbe certamente guarito. In questa dolorosa circostanza, le parole di Marta esprimono, quindi, una fede semplice e sincera ed un’amorevole fiducia nei confronti dell’amico Gesù, che mai e poi mai avrebbe permesso che dolore ed angoscia entrassero in quella casa!

22 Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”.

Queste parole non fanno che confermare l’incrollabile fede di Marta in Gesù, al quale attribuisce il grande potere di intercedere presso Dio a favore degli uomini più sfortunati e deboli (cf. 9,31). L’evangelista sta preparando, come un abile regista, l’adatto clima di fede nel quale deve avvenire il prodigio inaudito della resurrezione di Lazzaro. Dalle parole di Marta sembrerebbe che, da parte sua, ci sia l’attesa di un miracolo di resurrezione, anche se il fratello è ormai in decomposizione, ma probabilmente la donna intende solo affermare la propria fiducia in Gesù e nel suo rapporto privilegiato con Dio e non intende “forzargli” la mano pretendendo l’impossibile. I fatti dimostreranno che Marta si sbaglia, perché in Gesù opera Colui che può tutto ed al quale “nulla è impossibile” (Lc 1,37; Gen 18,14; Ger 32,27). Marta è una donna pronta alla fede (“anche ora so…”) e, in forma volutamente generica ed indeterminata (“qualunque cosa chiederai…”), accenna ad una speranza ed esprime una preghiera che lascia aperte tutte le possibilità (“Dio… te la concederà”).

Come nella muta preghiera di Maria, che alle nozze di Cana aveva chiesto al figlio Gesù di intervenire in aiuto di chi si trovava in uno stato di necessità (2,3), l’evangelista fa intravedere l’idea di un miracolo senza farla esplicitamente esprimere dalla stessa Marta, che con molta delicatezza lascia a Gesù la libertà di decidere cosa sia meglio per lei e per la sua famiglia provata dal dolore.

23 Gesù le disse: “Tuo fratello risusciterà”. 24 Gli rispose Marta: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”.

La risposta di Gesù è volutamente ambigua (cf. 11,11) poiché parla della resurrezione sia in senso generico, facendo riferimento alla fede giudaica nella resurrezione finale, escatologica, sia in senso specifico, alludendo alla propria volontà di resuscitare subito Lazzaro, senza aspettare la fine dei tempi. Marta si attiene alla prima interpretazione, condividendo la fede, assai diffusa tra il popolo ebraico, nella resurrezione escatologica che, al tempo di Gesù, era sostenuta dai farisei ed avversata dai sadducei (cf. Mc 12,18-27 pp). La professione di fede giudaica, resa da Marta, richiama con forza l’attenzione sull’ultimo giorno, la fine dei tempi. Il ricordo di questo giorno, che solo Giovanni definisce “ultimo” (cf. 6,39.40.44.54; 12,48), consente all’evangelista di contrapporre l’attesa futura giudaica all’attualità della salvezza, che per i cristiani si è compiuta ed è divenuta certezza in Gesù Cristo, il Salvatore ultimo e definitivo dell’umanità, il Signore dei cieli e della terra. [Per molti esegeti, Giovanni ha inteso smantellare polemicamente, a favore dell’attualità della salvezza (praesentia salutis), tutta l’escatologia drammatica e futura sostenuta prima di lui da altri pensatori cristiani dei primi tempi della Chiesa].

25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?”.

L’espressione Io sono (la resurrezione e la vita) ha un tono particolarmente possente e solenne. Se si parla di resurrezione, Marta non deve guardare ad un futuro lontano e dai vaghi contorni, perché la resurrezione è vicina a lei ed è presente in carne ed ossa nella persona misteriosa, ma reale e concreta, di Gesù di Nazareth, che incarna per i credenti l’ora della resurrezione attuale ed escatologica insieme. Gesù attesta di essere colui al quale è stata attribuita la potenza, riservata a Dio solo, di vivificare (cf. 5,21), cioè di dare la vita (e far tornare in vita) e tale potenza è intimamente sua (cf. 5,26), come ha già ampiamente dimostrato mediante i grandi segni compiuti sugli infermi (cf. 4,50-53). La vita e la morte ruotano attorno alla fede nel Figlio di Dio, nella cui persona è racchiuso il giudizio finale, presente già nell’oggi storico: chi crede ha la vita eterna, che non può essere distrutta dalla morte fisica, mentre chi consapevolmente non crede o rifiuta di credere si consegna alla morte definitiva. Marta deve essere convinta che Gesù l’aiuterà all’istante e le mostrerà la gloria di Dio (cf. 11,40) e, al tempo stesso, è invitata da Gesù ad essere un esempio di fede per tutti i credenti: credi tu questo? Dalla risposta di Marta dipende non solo la propria vita eterna, ma anche quella di tanti altri credenti futuri e Marta indica la via, sull’esempio di Maria, la madre di Gesù.

La vita fisica, ritornata in una salma in putrefazione, non è che un pallido riflesso della vera vita che Gesù risveglia nel credente ed il potente grido con cui Gesù fa uscire Lazzaro dal sepolcro (11,43) non è che una debole eco di quel grido con cui Egli, l’Inviato di Dio, chiama tutti gli uomini, che credono in Lui, alla vita di Dio (cf. 5,24s). Rivolgendosi a Marta per avere da lei una proclamazione di fede (“credi tu questo?”), Gesù interpella indirettamente ogni singolo uomo e sollecita una risposta decisa, affermativa o negativa, non già tentennante ed indecisa (cf. Mt 5,37; 2Cor 1,17-19; Gc 5,12) e su tale risposta si gioca il destino di ciascuno di fronte a Dio, giusto giudice, l’unico che può leggere nel profondo del cuore d’ogni essere umano e comprenderne le scelte di fede e di vita.

Io sono la resurrezione e la vita. Tale abbinamento è fondamentale per comprendere il vero significato dell’affermazione successiva, costruita con un distico di grande efficacia espressiva:

  1. “chi crede in me, anche se muore vivrà
  2. “chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”.

In questo parallelismo sinonimico, artificio letterario che consente di ribadire un concetto esprimendolo con affermazioni equivalenti, la fede occupa la prima parte di ciascun emistìco e costituisce la necessaria premessa alla vita, che nel secondo emistìco viene proposta nella sua forma assoluta, come negazione della morte definitiva (non morrà in eterno). Ogni volta, l’esistenza terrena costituisce il punto di partenza per giungere alla vera vita. Infatti, nel primo emistìco, la vita dell’uomo viene proposta come realtà relativa e finita (anche se muore), riscattata però da una scelta di fede (chi crede in me) e da una promessa certa e sicura (vivrà). Nel secondo emistìco, il vivere quotidiano di ogni essere umano è strettamente collegato al mondo superiore dello spirito, di cui la fede rappresenta il mezzo più efficace (chiunque vive e crede in me) per superare l’opprimente limite della vita terrena (non morrà), che acquista un senso compiuto solo se proiettata nell’eternità (in eterno). La fede costituisce, quindi, l’inevitabile punto d’incontro tra la vita terrena e quella eterna dello spirito ed è posta dall’evangelista in forte rilievo come esigenza incondizionata. Nelle parole di Gesù si coglie la contrapposizione tra la vita terrena, naturale e quella dello spirito e si intuisce come la fede sia considerata indispensabile per superare la frontiera della morte corporale. Grazie a Gesù, la vita terrena acquista una nuova dimensione perché chi crede in Lui, datore di vita e di salvezza, riceve la garanzia dell’immortalità.

Credi tu questo? Gesù non si limita a chiedere a Marta se ha fede nella sua persona, ma le chiede se crede a ciò che le sta dicendo. Le parole hanno l’effetto di creare un legame fra chi parla e chi ascolta, ma la parola di Gesù, che è l’eterna Parola di Dio incarnata, crea un vincolo di comunione e di amore indissolubile con il credente che l’ascolta e l’accoglie nella profondità della propria anima. Non basta aderire agli enunciati della dottrina cristiana per dirsi ed essere veramente cristiani, ma occorre fare entrare nella propria vita (che è intelligenza, volontà, sentimento, relazione, azione) ogni parola pronunciata da Gesù, facendo propria l’affermazione di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (6,68). Attraverso Gesù e grazie alla sua parola viene concesso ad ogni credente il dono della vita.

27 Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”.

Marta pronuncia una professione di fede in piena regola, anche se, forse, non comprende totalmente la portata di ciò che va affermando. La sua risposta affermativa ed assai impegnativa alla domanda di Gesù non vuol dire che essa abbia afferrato completamente il significato delle sue parole, ma il “sì” con cui accoglie le parole di Gesù, riconoscendolo come l’unto di Dio, predetto dai profeti e destinato a portare la salvezza ad Israele, le apre il cuore e la mente al mistero, come poc’anzi aveva fatto Pietro dopo il discorso di rivelazione sul pane di vita, pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafàrnao e parso ai più assai duro e difficile da comprendere (6,60.63.68). L’atteggiamento di Marta è esemplare, rispecchiando una fede sicura, capace di resistere anche contro ogni evidenza contraria ed è questa disponibilità a credere che l’evangelista vuole suggerire ai membri della sua comunità. Il giusto atteggiamento d’ogni vero credente prevede di non pretendere, a qualsiasi costo, di penetrare il mistero di Dio con il lume della ragione, ma di affidarsi a Gesù, grazie al quale l’aiuto di Dio non potrà mai venire meno. La professione di fede di Marta, così come quella pronunciata da Pietro (6,68-69), è una fede nel Messia in pieno senso cristiano e riprende, sostanzialmente, le stesse parole usate dall’evangelista nella conclusione originale del suo Vangelo (20,31) per esprimere la propria fede, supportata dalla testimonianza diretta, nel Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza degli uomini: “… perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e… credendo, abbiate la vita nel suo nome”.

Riconoscendo in Gesù “il Messia”, Marta sostiene implicitamente che l’attesa giudaica per il Liberatore d’Israele si è compiuta nel rabbì di Galilea, che l’onora della sua amicizia, ma definendolo anche “Figlio di Dio” ella si spinge più in là dei suoi connazionali nella comprensione del messianismo voluto da Dio e rivelato attraverso le parole della Sacra Scrittura. La messianicità di Gesù, infatti, non si limita al mero aspetto politico e non interessa il solo popolo ebraico, ma ha un significato squisitamente spirituale ed una dimensione universale già intuiti dai profeti, ma male interpretati dagli stessi rabbini, studiosi ed interpreti autorevoli della Parola di Dio.

Le varie professioni di fede di Natanaele (1,49), di Pietro (6,69) e di Marta (11,27) sono state formulate direttamente per la comunità cristiana di Giovanni e trasposte dai tempi di Gesù a quelli dell’evangelista, né vale la pena di chiedersi se simili dichiarazioni, espresse a favore di Gesù, siano storicamente possibili. È certo, però, che la fede dei cristiani della fine del I secolo d.C. era profondamente collegata alla figura storica di Gesù di Nazareth e garantita dall’esperienza diretta del Risorto da parte degli apostoli e di pochi altri discepoli. Così, non c’è da sorprendersi se Marta pronuncia parole che sono attribuibili, quasi certamente, all’evangelista Giovanni: “… che deve venire nel mondo”. Tale locuzione ha la funzione di caratterizzare la figura di Gesù, che è al tempo stesso il Messia ed il Figlio di Dio, il portatore della salvezza inviato da Dio stesso e poco importa che Giovanni l’abbia messa sulla bocca di Marta rispettando o no il dato storico puro e semplice. Giovanni è stato uno dei testimoni della resurrezione e Marta ne ha condiviso la testimonianza; tanto basta all’evangelista per esprimere la propria fede mediante le parole della donna.

28 Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: “Il Maestro è qui e richiama”.

Giovanni interrompe bruscamente il dialogo tra Gesù e Marta, della quale non riporta frasi superflue circa il suo commiato da Gesù od un eventuale incarico da Lui ricevuto di avvisare Maria del suo arrivo a Betània. Sembra quasi che l’evangelista voglia trasmetterci i tratti essenziali del carattere di Marta lasciandoceli intuire più che parlandone direttamente. Questa donna è di poche ed essenziali parole, ma dinamica e senza fronzoli e sa precedere nei fatti le intenzioni dei suoi interlocutori. Marta chiama la sorella di nascosto, sia per evitare ogni scalpore circa l’arrivo di Gesù e sia per allontanare Maria dall’ingombrante presenza dei giudei venuti per le condoglianze di circostanza. Pare di arguire che alle due sorelle fosse di conforto la sola presenza di Gesù e non di tutta quella gente, lì convenuta per semplice convenienza sociale. I giudei erano molto rispettosi e fedeli osservanti delle buone regole riguardanti tanto l’aspetto cultuale quanto quello puramente sociale della loro vita quotidiana, al punto da essere persino petulanti.

Il Maestro ti chiama. Più che a Maria, questo avvertimento sembra rivolto ai lettori, invitati a comportarsi come Maria, la cui fede in Gesù si traduce in una grande capacità di mettersi in ascolto delle sue parole, che sono “parole di vita eterna” (6,68). A coloro che credono in Lui, Gesù parla in modo diverso rispetto a quello che gli è consentito fare con i lontani e gli increduli, per i quali il contenuto del messaggio cristiano è un inciampo (scandalo) alle loro scelte di vita.

29 Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui.

La contemplativa Maria non è da meno dell’energica e volitiva sorella Marta. La sola notizia dell’arrivo di Gesù la fa scattare in piedi e correre dal Maestro, dal quale non si aspetta solo parole di conforto e d’incoraggiamento, come richiederebbero le circostanze, bensì parole capaci di scaldarle il cuore e di aprirle la mente alle profondità dell’Amore di Dio, che sa consolare gli afflitti e sostenere i disperati d’ogni genere (cf. Sal 107). La fretta, che anima la riflessiva e quieta Maria, riflette l’urgenza della chiamata di Dio, che è presente “ora” nel nostro bisogno e che sollecita “subito” la nostra adesione al suo progetto d’amore e di salvezza, non tollerando tentennamenti né ripensamenti (cf. Ap 3,16) di sorta. Incapace di vedere oltre il tempo finito e contingente della propria esistenza, spesso incerto e dubbioso della reale esistenza dell’eternità, l’uomo fa fatica a sintonizzarsi sul tempo di Dio, per il quale il tempo umano è assai ristretto (Sal 39,6-7; 62,10; 90,9-10; 94,11). L’infinita pazienza e misericordia di Dio si ferma di fronte alla libera volontà dell’uomo, che con pervicacia si oppone all’urgenza della salvezza.

30 Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andato incontro. 31 Allora i giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: “Va al sepolcro per piangere là”.

Sapendo che, secondo l’usanza, la casa di Marta e Maria potrebbe essere piena di gente convenuta per le condoglianze rituali, Gesù evita di andarvi ed attende Maria per parlare a cuore a cuore e lontano da orecchi indiscreti. Il linguaggio, che Gesù suole usare con chi crede in Lui, è sempre diverso da quello utilizzato con la folla ostile ed incredula: a questa parla in parabole e per allusioni, agli altri parla in modo esplicito anche se non sempre viene compreso. Gesù sa che, a tempo opportuno, lo Spirito farà ricordare e comprendere a quanti credono in Lui le parole che ha loro detto.

Le mosse di Maria non sfuggono agli attenti giudei, che non sospettando la presenza di Gesù nei dintorni, la seguono presumendo che stia recandosi al sepolcro per piangere il fratello defunto. Il loro arrivo impedisce il colloquio privato ed intimo fra Maria e Gesù. La presenza dei giudei, in ogni caso, crea la giusta atmosfera di lutto e di lamenti che rende comprensibile il “fremito” di Gesù (11,33). I giudei, accorsi per confortare Maria, hanno la sorpresa di vedere Gesù e già sono pronti a muovergli delle critiche gratuite (11,37) ma, loro malgrado, dovranno essere i testimoni di un prodigio inaudito, a motivo del quale i capi religiosi della nazione giudaica decreteranno la morte di Gesù (11,50).

32  Maria, dunque, quando giunse dov’era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo:
“Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”.

Maria ripete alla lettera le parole di sua sorella Marta ed anche in questo caso non bisogna scorgervi alcuna traccia di rimprovero. Il gesto di cadere ai piedi di Gesù potrebbe molto semplicemente esprimere il gran dolore di Maria, ma anche indicare la sua adorazione del Maestro, ritenuto con buona ragione capace di evitare la morte del fratello, qualora Egli fosse stato presente durante la malattia di Lazzaro. La fiducia di Maria e di Marta nelle proprietà taumaturgiche dell’amico è grande, ma le due donne non hanno ancora compreso a fondo la vera natura di Gesù, anche se nel profondo della loro anima hanno già intuito che non è un uomo come gli altri. Facendo risorgere Lazzaro, Gesù prepara le due donne ed i suoi discepoli ad assorbire il terribile impatto dello scandalo della sua morte sulla croce.

33 Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: 34 “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”.

Il breve incontro con Maria ha, da un punto di vista letterario, un valore poco rilevante in sé, ma serve come scena intermedia per introdurre il pathos della seconda fase della narrazione, centrata su due gruppi di personaggi: Gesù e Lazzaro da una parte, i giudei dall’altra. La partecipazione di Lazzaro allo svolgimento degli avvenimenti è del tutto passiva, ma la sua resurrezione dal sepolcro diventa il vero fulcro della crisi tra Gesù ed i giudei. Nonostante l’evidenza dei fatti, i giudei assumono un atteggiamento di radicale rifiuto della verità e Gesù finisce i suoi giorni terreni su una croce. Il pianto sincero di Maria ed il pianto ipocrita di circostanza dei giudei provocano in Gesù una reazione emotiva sconcertante. La “profonda commozione”, manifestata da Gesù al cospetto di quei lamenti ed associata al “turbamento” interiore, ha suscitato svariati commenti, non tutti concordi: per Origene50 e Giovanni Crisostomo51 Gesù ha voluto reprimere un sentimento di dolore che l’aveva assalito come nell’ora del Getsémani; per Cirillo Alessandrino,52 invece e per Ammonio53 Gesù ha represso nella forza dello Spirito Santo un istinto della sua natura umana o carnale; per Teodoro di Eraclea54 e per s. Agostino d’Ippona,55 Gesù ha invece volontariamente suscitato questo moto affettivo, tipicamente umano, per manifestare il suo dolore per la morte dell’amico.

I verbi greci, usati dall’evangelista per esprimere la reazione psicologica di Gesù, lasciano perplessi: il verbo embrimàsthai (tradotto, in italiano, col verbo “commuoversi”) significa propriamente “sbuffare” ed esprime un’eccitazione irata, non la commozione, il dolore o la partecipazione al dolore altrui. Nel racconto originario, il verbo potrebbe aver significato un investire irosamente coloro che stavano facendo il cordoglio di circostanza (cf. Mc 1,43; 14,5; Mt 9,30), anche se l’evangelista ha fatto un’aggiunta ulteriore per imprimere al verbo il significato di un fremito interiore, usando il sostantivo “nello spirito” (in greco, tò pnèumati) che nella versione italiana è stato reso con l’avverbio “profondamente”.

Lo spirito (13,21) o anima (12,27) di Gesù è eccitata e turbata e, per esprimere questo sentimento, l’evangelista usa il verbo greco taràssein, che propriamente significa “agitare, rimescolare” e che, applicato a Gesù, esprime lo smarrimento di fronte alla morte imminente (12,27) o lo sgomento per il tradimento perpetrato da uno dei Dodici (13,21). Ma qual è il motivo di quest’irato fremito interiore di Gesù? Secondo l’evangelista lo adira la fede insufficiente dei presenti, come si può dedurre dal commento malizioso dei giudei, che rimproverano Gesù, capace di guarire un cieco nato, di non essere stato in grado di salvare il suo amico, ma, così facendo, i giudei denunciano un sostanziale rifiuto a credere

  • 50 Origene, fr. 84; GCS IV,549.
  • 51 S. Giovanni Crisostomo, PG 59,350.
  • 52 Cirillo Alessandrino, PG 74, 53A.
  • 53 Ammonio, fr. 379, Reuss p. 291.
  • 54 Teodoro di Eraclea, fr. 155, Reuss p. 105.
  • 55 S. Agostino, CC 428 s.

anche di fronte all’evidenza. È meno probabile che all’origine della reazione irata di Gesù vi sia lo sdegno contro la potenza della morte, dietro alla quale è riconoscibile satana, il distruttore della vita nemico di Dio. Per Giovanni, in definitiva, i veri rappresentanti dell’incredulità radicale sono proprio i giudei, che si distinguono solo per i loro lamenti e non ritengono possibile che Gesù possa venire in aiuto all’uomo in una situazione come quell’attuale.

Dove l’avete posto (“seppellito”)? Gesù vuole che tutti i presenti siano testimoni, volenti o nolenti, del prodigio che sta per compiere e si fa accompagnare sul luogo della sepoltura di Lazzaro. Alcuni Padri della Chiesa hanno colto, in questa domanda di Gesù, una potenziale obiezione alla sua scienza divina e, pertanto, hanno interpretato in questo modo la domanda del Signore: “Come uno che non ama vantarsi egli disse ciò e finse di non sapere, per la bassezza dell’umana natura; egli che pure in quanto Dio sa tutto, [così parlò] per portare molti uomini sul luogo”.56 Giovanni non si fa scrupoli del genere, poiché dal suo vangelo già emerge l’ovvia constatazione che Gesù sa sempre quello che deve fare e che domina da padrone assoluto qualsiasi situazione, anche la propria morte.

Signore, vieni a vedere. Si tratta di una locuzione tipicamente semitica (cf. 1,39), che esprime la necessità di attivare tutte le proprie facoltà psicologiche (volontà, decisione, intelligenza) per verificare e comprendere una situazione di fatto. Gesù viene, in altre parole, invitato dai giudei a controllare di persona la realtà dei fatti e prendere atto anche della propria impotenza di fronte ad un cadavere in avanzata fase di decomposizione: solo Dio potrebbe far tornare in vita il povero Lazzaro! Gesù li accontenta subito.

35 Gesù scoppiò in pianto. 36 Dissero allora i giudei: “Vedi come lo amava!”. 37 Ma alcuni di loro dissero: “Costui che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che questi non morisse?”.

L’evangelista usa due verbi greci differenti per descrivere il pianto di lamento di Maria e dei giudei (klàio) e quello di Gesù (dakrùo). Nel primo verbo si può intuire il desolato sconforto della creatura umana di fronte alla tragica realtà della morte, che come un colpo di spugna spazza via un’intera esistenza destinandola all’oblio ed all’inconsistenza di un aldilà ricco d’incognite; nel secondo verbo si possono coglier diverse sfumature psicologiche, sia nei giudei, convinti che Gesù pianga la morte di un amico assai caro ed amato, sia in Gesù, rattristato per le tenebre dell’ignoranza e dell’incredulità che avvolgono l’uomo e per l’oscurità del destino mortale, da lui stesso condiviso. In altri passi del Nuovo

56 Ammonio fr. 380, Reuss p. 291; cf. anche Cirillo Alessandrino, PG 74,53.

Testamento (Eb 5,7; At 20,19; Ap 7,17; 21,4) le lacrime adombrano il clima d’oppressione e di persecuzione che sempre ed inevitabilmente accompagna la vita del cristiano, il quale deve confrontarsi e scontrarsi con un mondo ostile al progetto salvifico di Dio.

L’evangelista non passa sotto silenzio l’orrore del sepolcro, ma suggerisce di superarlo mediante la fede (cf. 11, 25.39-40). La grandezza del prodigioso segno, operato da Gesù, può essere riconosciuta solo se non si minimizza la durezza e la cruda realtà della morte fisica. Le lacrime di Gesù, segno di uno smarrimento momentaneo ed umanamente comprensibile, precedono di poco la calma e la quieta sicurezza che Egli trova nella preghiera rivolta al Padre (11,41; cf. anche 12,27s) e, in questo senso, il Gesù giovanneo è indissolubilmente legato al destino degli uomini ed aperto alle loro miserie. In Gesù, Dio ha provato nel suo cuore e sulla propria pelle ogni sfumatura della complessa psicologia dell’uomo, “eccetto il peccato” (Eb 4,15) ed attraverso la croce, subita dal Figlio, ha sopportato il dolore ed ha conosciuto l’orrore della morte fisica. Attraverso il segno della resurrezione di Lazzaro, Dio ha voluto dare consistenza alle speranze dell’uomo di una vita senza fine dopo la morte del corpo.

Vedi come lo amava! I giudei, che spiegano il pianto di Gesù con l’amore che Egli nutriva per l’amico, si dimostrano superficiali alla stregua della folla che, udita la voce proveniente dal cielo per rendere testimonianza a Gesù (cf. 12,29), la scambia per un tuono. È lungi dalla mentalità dei giudei che Gesù possa proporsi come colui che può eliminare l’oscurità della morte. Essi possono anche nutrire della simpatia per il Maestro venuto dalla Galilea, ma la fede in Lui sembra al di fuori della loro portata. A qualcuno dei presenti torna alla mente il prodigio compiuto da Gesù sull’uomo nato cieco, ma il ricordo non è propriamente positivo, visto il rimprovero che segue: ha guarito un cieco nato, ma non ha impedito la morte di un proprio amico. Si tratta di una critica ingiusta e gratuita, che spiega il gesto di reazione di Gesù, che freme d’ira nel suo intimo di fronte ad una malafede così palese e preconcetta. Il richiamo alla guarigione del cieco nato permette all’evangelista di sottoporre ai lettori il collegamento teologico tra questo segno e la resurrezione di Lazzaro. I due grandi miracoli vanno considerati nel loro insieme, perché rivelano Gesù come luce e vita degli uomini.

38 Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra.

La rinnovata emozione di Gesù, che nel suo intimo freme di sdegno per l’incredulità dei giudei, si riferisce evidentemente al loro malizioso commento: “… non poteva anche far sì che questi non morisse?”. Nonostante il fremito interiore, Gesù non si scompone, così come non aveva reagito apertamente di fronte ai piagnistei di circostanza dei visitatori (11,33). Senza dire una parola, Gesù si reca al sepolcro, nel quale è sepolto Lazzaro. L’evangelista ci rivela i particolari del luogo della sepoltura del defunto: si tratta di una grotta, cioè una cavità scavata nella viva roccia, la cui apertura è ostruita da una pietra di grosse dimensioni, fatta scorrere grazie ad un’apposita scanalatura opportunamente confezionata nel terreno antistante la grotta. Questo tipo di sepolcro è differente da quello in cui sarà deposto più tardi il corpo di Gesù, ad accesso orizzontale e più frequentemente usato dalla tradizione giudaica.

39 Disse Gesù: “Togliete la pietra!”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni”.

L’ordine di Gesù è perentorio e non ammette repliche, anche se Marta si fa interprete della perplessità dei presenti facendo notare, tra le righe, che ci si dovrà turare il naso. Il lezzo emanato da un cadavere in decomposizione è nauseabondo e provoca ribrezzo e voltastomaco, oltre a rendere impura l’aria respirata dagli astanti. Nemmeno le bende intrise d’aromi, usate per avvolgere i cadaveri, hanno il potere di trattenere il cattivo odore che si sprigiona da un corpo in preda alla putrefazione. L’ulteriore sottolineatura di una morte datata quattro giorni contribuisce a rendere più clamoroso il prodigio che sta per compiersi, perché sottintende la definitiva separazione dell’anima dal corpo mortale.

In senso allegorico, la morte del corpo, di cui il fetore è il segno più repellente, è simbolo della morte di un’anima che si è allontanata definitivamente da Dio, il quale avverte il cattivo odore della malvagità, del peccato, dell’orgoglio, della presunzione e della superbia che scaturiscono dal cuore di quanti hanno deciso di consegnarsi nelle mani del principe della morte eterna.

40 Le disse Gesù: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?”.

Nell’immediato, la gloria di Dio è visibile attraverso la resurrezione del defunto Lazzaro, ma Gesù orienta lo sguardo del credente verso orizzonti più ampi ed affascinanti, perché nella resurrezione di un morto si può scorgere il potere di Gesù di dare la vita vera, che sopravvive alla morte e che dura per l’eternità. Per questo motivo anche l’espressione “vedrai la gloria di Dio” è volutamente ampia ed indeterminata. Attraverso la malattia e la morte di Lazzaro si svela la gloria di Dio, che traspare attraverso l’azione salvifica del Figlio (cf. 11, 4). Tutti i segni o miracoli compiuti da Gesù rendono visibile la gloria di Dio e di Gesù stesso (cf. 2,11), ma solo i credenti riescono a vederla (cf. 1,14).

41 Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. 42 Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”.

Secondo il modo di sentire giudaico, gli avvenimenti straordinari potevano accadere per intervento diretto di Dio onnipotente, grazie all’intercessione di uomini devoti e pii, mentre la cultura religiosa greco-ellenistica attribuiva agli uomini divini il potere sovrumano di compiere prodigi, senza il concorso necessario di una qualsivoglia divinità. La preghiera, che Gesù rivolge al Padre, non è dettata da un bisogno umano puro e semplice (cf. 12,27s; 17,1-25) ma scaturisce dalla totale sottomissione del Figlio al Padre (cf. 14,28.31). Poiché il Figlio vive in piena unità col Padre, del quale conosce e compie la volontà con assoluta fedeltà, la sua preghiera è sempre certa di essere esaudita. L’intima unione di Gesù col Padre viene espressa dal gesto compiuto da Gesù, che leva gli occhi al cielo o in alto (17,1); colui che è disceso dal cielo rimane costantemente collegato con il cielo, vale a dire col Padre suo (cf. 1,51). Questo modo di rivolgersi a Dio in preghiera, levando gli occhi verso l’alto, non era del tutto estraneo al mondo religioso ebraico, che intendeva esprimere così un sentimento di fiduciosa implorazione (cf. Sal 123,1; Lam 3,41), ma se per i Sinottici lo sguardo di Gesù verso il cielo aveva in sé qualcosa di speciale (cf. Mc 6,41pp), per Giovanni tale gesto era una peculiare espressione della sua dignità di Figlio; si comprende pertanto come la preghiera di Gesù si trasformi necessariamente in ringraziamento.

Gesù è sicuro di essere esaudito dal Padre perché sa di compiere sempre ciò che il Padre gli chiede di fare (cf. 8,29) in virtù di quel continuo flusso d’amore, che unisce l’uno all’altro in modo indissolubile. La relazione personale unica, che intercorre tra Gesù ed il Padre, è racchiusa in questo circolo virtuoso: uno chiede e l’altro esaudisce, in modo assolutamente reciproco. Anche coloro che credono in Gesù possono accedere alla dinamica virtuosa del dono reciproco con Dio, poiché è stato loro assicurato il pieno esaudimento delle richieste fatte al Padre nel nome di Gesù (14,13; 15,7.16; 16,23s).

Gesù non formula per sé la preghiera rivolta al Padre, ma per la gente che gli sta attorno, affinché comprenda il miracolo come testimonianza del Padre per la missione del Figlio. I presenti devono essere indotti a credere, così come devono essere esortati alla fede i lettori del testo evangelico.

Nella propria coscienza umana Gesù ha elaborato la consapevolezza che, per salvarsi, gli uomini devono credere con convinzione nella sua missione di salvezza, progettata e decisa dal Padre in totale conformità col volere del Figlio.

43 E detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. 44 Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”.

Il grido di Gesù esprime la potenza della voce di Dio o del suo angelo, che nel giorno del giudizio finale risveglia nelle loro tombe tutti i morti della terra, riportandoli alla vita (cf. 1Tess 4,16) e chiamando ciascuno per nome. In quell’ordine imperioso, rivolto al defunto

Lazzaro, si rendono manifeste la maestà ed il potere soprannaturale del Figlio di Dio, origine e vertice di tutta la creazione, “l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine” (Ap 22,13) d’ogni cosa che si trova “nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10). Colui, grazie al quale “tutto è stato fatto e senza il quale niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (1,3), ha il dominio completo sulla natura e tutto è stato messo in suo potere, compresa la morte (cf 1Cor 15,25-26), che è la negazione assoluta della vita sia del corpo sia dello spirito. Il tono del racconto, narrato dall’evangelista, è chiaramente di stampo apocalittico, poiché in esso viene adombrata la resurrezione finale di tutto il genere umano, ma dal punto di vista prettamente stilistico l’avvenimento miracoloso è descritto in modo molto realistico, anche se s’intuisce una situazione ambientale surreale. Il defunto esce dalla tomba da solo, con mani e piedi avvolti nelle bende e col volto coperto dal sudario. Si possono immaginare le reazioni emotive dei presenti alla vista di quello spettacolo sconvolgente: paura, stupore, inquietudine, sbalordimento, gioia, angoscia, ammirazione, incredulità. Qualcuno è convinto veramente di trovarsi di fronte ad un prodigio inaudito, qualcun altro insinua maliziosamente che è tutto un trucco e che è stata montata una grossolana messinscena. Molti degli astanti credono (11,45), mentre altri restano convinti di aver assistito ad una truffa e si precipitano a riferire la cosa ai loro capi (11,46). Gesù non si cura delle reazioni della gente, ma ordina semplicemente di liberare Lazzaro dalle bende che lo tengono legato e di lasciarlo andare. Il ritorno alla vita di tutti i giorni è la prova migliore dell’avvenuto miracolo.

L’episodio della resurrezione di Lazzaro suscita alcune riflessioni sul concetto di “vita” elaborato e proposto dal quarto evangelista:

  1. Gesù Cristo è di volta in volta definito pane di vita (6,35.48), luce della vita (8,12) e vita in senso assoluto (11,25; 14,6) perché è stato inviato dal Padre per dare la vita al mondo (6,33); Gesù è il principio stesso della vita, vale a dire il suo punto di partenza.
  2. Nella propria persona ed attraverso le parole che ha pronunciato od i miracoli che ha compiuto, Gesù ha incarnato, rivelato e comunicato la vita di Dio, dovuta a quanti accolgono la sua rivelazione e credono in Lui. Per costoro la vita consiste nella liberazione dal dominio della morte (5,24) e nel superamento dei confini angosciosi della morte (8,51; 11,26; 12,25) già nel tempo dell’esistenza presente, non solo in una prospettiva futura.
  3. Il dono e la promessa della vita sono la risposta positiva di Dio all’interrogativo dell’uomo sul senso della propria esistenza e sul contenuto della vera salvezza. La vita è “la luce degli uomini” (1,4), la chiarificazione del senso del loro cammino sulla terra, altrimenti oscuro e tragico (8,12). Il concetto di vita contribuisce ad esprimere meglio il significato della salvezza, che solo con la fede si riesce a comprendere pienamente come nuova e definitiva esistenza in Dio. Di tale esistenza l’uomo è assolutamente debitore nei confronti di Dio.
  4. La vita, che l’uomo riceve attraverso Cristo, non è una dotazione materiale né una forza magica, ma una realtà divina, una piena partecipazione alla vita di Dio, che è origine d’ogni vita (5,26; 1Gv 1,2). Il possesso della vita da parte del credente, frutto del dono del Padre attraverso il Figlio (1Gv 5,11), opera la comunione col Padre e col Figlio (1Gv 1,3; 2,23s; 5,12).
  5. Anche i sacramenti hanno la loro importanza nel processo di comunicazione della vita ai credenti, perché sono segni efficaci che uniscono i credenti a Cristo e, per mezzo suo, al Padre (Gv 3,5; 6,53-57; 1Gv 5,7s). La vita donata a chi (nel battesimo) è generato da Dio è, per sua natura, permanente (Gv 6,27; 1Gv 2,27; 3,9) e deve condurre ad una relazione viva e cosciente con Cristo e con Dio, ad una permanenza nell’amore (Gv 14,21.23; 15,9). Per rimanere in Cristo ed avere la vita eterna è indispensabile l’eucaristia (6,56).
  6. La  vita  divina  donata  al  cristiano  diventa  dovere  morale  e  chiede  di  essere confermata nell’amore fraterno (1Gv 4,20s).

Giovanni distingue nettamente tra la vita biologica (bìos), con relativo aspetto psichico, intellettivo e volitivo (psykhé), che caratterizza la parte terrena e caduca dell’esistenza umana e la vita eterna (zoè), verso la quale ogni uomo tende in virtù di una vocazione comune all’eternità connessa con l’atto creatore di Dio, che ha fatto l’uomo “a propria immagine e somiglianza” (Gen 1,26-27). Secondo la teologia giovannea, la vita proviene da Dio e giunge agli uomini attraverso Gesù Cristo (cf. 3,16; 5,26; 6,57), ma l’uomo coltiva naturalmente, quasi geneticamente, dentro il proprio essere l’ansiosa ricerca della salvezza, identificata con un genere d’esistenza necessariamente diversa da quella sperimentata sulla terra come provvisoria e fugace (cf, 4,13s; 6,27; 7,38; 8,12; 17,3).

Grazie a Gesù Cristo, l’uomo può comprendere che la meta della sua esistenza è la vita in Dio e che può giungervi “conoscendo” il Padre attraverso il Figlio: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (17,3). Il mandato di Dio a Gesù significa vita per gli uomini, ai quali è offerta l’eternità come un dono prezioso da accogliere consapevolmente e con impegno personale.

Il risalto che viene dato al ruolo di Gesù Cristo nel trasmettere la vita di Dio agli uomini, rende implicitamente evidente la non disponibilità a buon mercato di questo tipo di vita.

Solo ed abbandonato a se stesso, l’uomo non riesce a liberarsi dei propri limiti creaturali (3,31), dalla schiavitù dei suoi desideri (8,34-36) e dall’attrazione verso ciò che è passeggero (6,26.35); solo la fede in Colui che è portatore di vita può vincere la cecità spirituale dell’uomo e schiudergli la via per ottenere l’agognata pienezza di vita. Senza la mediazione del Figlio di Dio, l’uomo non è in grado di raggiungere, da solo, la vita eterna, che è pienezza d’amore e di conoscenza di Dio.

La vita eterna, donata da Cristo a chi crede in Lui e nella sua missione, non è solo una promessa per il futuro, ma è una realtà che si realizza nel presente dell’esistenza terrena, nella quale ogni credente può realizzare l’attesa della vita futura mediante rapporti d’amore e di servizio a vantaggio dei suoi simili. La vita, donata all’uomo nella fede, va ben oltre la morte del corpo materiale, che naturalmente provoca timore ed angoscia ma che, grazie alla Rivelazione, denuncia la propria provvisorietà ed inconsistenza di fronte alla promessa nella quale Dio stesso si è impegnato resuscitando il proprio Figlio, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 1,20). Per ottenere la vita eterna, cioè per vivere eternamente in Dio e con Dio, l’uomo non può pensare al singolare; chi aspira alla salvezza deve spogliarsi d’ogni angusto e meschino individualismo e collocarsi nella prospettiva di una salvezza collettiva, in comunione coi suoi fratelli e compagni di viaggio.

Il passaporto per entrare nella vita eterna, in comunione reciproca con Dio, è l’amore a due dimensioni: verso Dio e verso il prossimo (cf. 15,7-10).

Il miracolo della resurrezione di Lazzaro fa precipitare gli eventi. Messi sull’avviso da alcuni giudei, testimoni del prodigio compiuto da Gesù a Betània (11,46), i sommi sacerdoti ed i farisei decidono di riunire il sinedrio (11,47), il tribunale religioso ed amministrativo della nazione giudaica e discutono sul da farsi. È grande la preoccupazione che i romani possano intervenire con la forza delle armi per reprimere una possibile rivolta popolare capeggiata da Gesù (11,48), forte delle sue qualità taumaturgiche, ma il sommo sacerdote Caifa offre la giusta soluzione al caso-Gesù: meglio la morte di un uomo solo che la rovina di un’intera nazione (11,49-50). La motivazione politica della condanna a morte di Gesù, pronunciata dal sinedrio per istigazione di Caifa, s’intreccia inesorabilmente col progetto salvifico di Dio, che attraverso la morte del Figlio vuole riscattare l’intera umanità dal peccato e sottrarla alla perdizione eterna. Nonostante le intenzioni malvagie ed il calcolo politico dei capi della nazione giudaica, il sommo sacerdote Caifa pronuncia un’involontaria profezia (11,51): la morte di Gesù avrà lo scopo di “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (11,52).

Nell’attesa che giunga la sua “ora”, Gesù si ritira presso la città di Efraim e per un po’ non si fa più vedere nei pressi di Gerusalemme (11,54-57), dove tutti sono in attesa di vederlo, gli uni per festeggiarlo e gli altri per fargli la festa (nel senso di ucciderlo…).

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