Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 19 gennaio 2020.
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Non c’è pagina della Scrittura in cui non compaia in qualche modo il tema della vocazione. “In principio” Dio chiama le creature all’esistenza (Sap 11,25), chiama l’uomo alla vita e quando Adamo si allontana da lui gli chiede: “Dove sei?” (Gn 3,9). Chiama un popolo e lo predilige fra tutti i popoli della terra (Dt 10,14-15); chiama Abramo, Mosè, i profeti e affida loro una missione da portare a compimento, un piano di salvezza da realizzare. Chiama per nome anche le stelle del firmamento ed esse rispondono: “Eccoci!” e gioiscono e brillano di gioia per colui che le ha create (Bar 3,34-35). Comprendere queste vocazioni equivale a scoprire il progetto che Dio ha su ognuna delle sue creature e su ogni uomo. Nessuno e nulla è inutile: ogni persona, ogni essere ha una funzione, un compito da svolgere.
“Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” – dichiara il Signore per bocca di Osea (Os 11,1) e Matteo (Mt 2,15) applica questa profezia a Gesù. Sì, anch’egli ha una vocazione: ripartire dalla terra di schiavitù, ripercorrere le tappe dell’esodo, superarne le tentazioni e giungere con tutto il popolo alla libertà.
E la nostra vocazione?
“Dio ci ha chiamati con una vocazione santa ” (2 Tm 1,9), ci ha chiamati “mediante il nostro vangelo, all’acquisizione della gloria del Signore nostro Gesù Cristo” (2 Ts 2,14).
I cammini che conducono a questa meta sono diversi per ciascuno di noi: c’è il cammino di chi è sposato e quello di chi è celibe, c’è il percorso dei sani e dei malati, dei vedovi, dei separati, dei fidanzati… Ciò che importa è ascoltare e scoprire dove Dio vuole condurre ognuno e “camminare in modo degno della vocazione che è stata assegnata” (Ef 4,1). “Angelo del Signore” è chiunque si affianca al fratello e lo aiuta a discernere e a proseguire lungo la via tracciata per lui da Dio.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Signore, che vuoi che io faccia? Aiutami a capire e a realizzare il tuo disegno di amore”.
Prima Lettura (Is 49,3.5-6)
3 Il Signore mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria”.
5 Il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
– poiché ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
6 mi disse: “ È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Abbiamo già incontrato nella festa del Battesimo di Gesù il “Servo del Signore” del quale si parla nella lettura. Oggi è egli stesso che racconta la sua vocazione.
Come altri grandi personaggi dell’antico e del nuovo Testamento (Geremia: Ger 1,5; il Battista: Lc 1,15; Paolo: Gal 1,15), anch’egli è scelto da Dio fin dal grembo materno ed è inviato a compiere una grande missione.
Difficile stabilire se il profeta si riferisse a un personaggio storico reale (Geremia? Mosè?) o se, per “Servo del Signore”, intendesse la collettività d’Israele. Il primo versetto della lettura di oggi sembra favorire questa seconda interpretazione (v. 3), ma quello successivo pare contraddirla: Israele sarebbe inviato dal Signore… a riunire Israele (v. 5).
L’identificazione più coerente e rispettosa del testo è, probabilmente, quella di chi lo considera una personificazione del “resto fedele d’Israele”. Sarebbe, cioè, l’immagine delle persone pie che, in mezzo a un popolo che si è allontanato dal suo Dio, hanno saputo resistere alle lusinghe del paganesimo.
Siamo a Babilonia nel VI secolo a.C.. Da decenni gli israeliti si trovano, umiliati e avviliti, in terra straniera. Hanno ormai abbandonato tutti i loro sogni di grandezza e, quando ripensano al loro glorioso passato, provano soltanto disagio e sconforto. “Cantateci i canti di Sion” – chiedono coloro che li hanno deportati (Sal 137,3). Ma come intonare l’inno di vittoria, eseguito dai loro padri sulle rive del mar Rosso, ora che sono schiavi e lontani dalla loro patria?
In questa situazione, umanamente senza speranza, il piccolo resto, l’Israele-fedele è chiamato dal Signore, che gli affida un duplice compito: riunire tutti i figli del suo popolo dispersi fra le nazioni per riportarli nella terra dei loro padri (v. 5) e divenire luce e segno di salvezza fino alle estremità della terra (v. 6).
La scelta di questo Servo è contraria ad ogni logica umana. L’impresa cui è chiamato può essere portata a compimento solo da qualcuno che disponga di doti e di mezzi eccezionali. Invece è proprio attraverso questo servo debole che il Signore ha deciso di manifestare “la sua gloria” (v. 3). Egli lo apprezza e gli dona la sua forza (v. 5).
Non sappiamo a quale personaggio storico si sia ispirato il profeta nel tratteggiare la figura del “Servo del Signore”. Ciò che è certo è che i primi cristiani hanno visto i suoi lineamenti perfettamente riprodotti in Gesù. Come il “Servo”, Gesù ha svolto la sua missione cominciando a riunire “le pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,6) e ha voluto che la sua luce splendesse anzitutto in Galilea: nel “paese di Zabulon e di Neftali, il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce” (Mt 4,15-16). Poi, come quella del “Servo del Signore” (Is 49,4), anche l’attività di Gesù in favore d’Israele si è conclusa con un fallimento, con una morte ignominiosa, ma Dio è intervenuto e ha mutato in trionfo l’apparente sconfitta. Dopo la Pasqua, la missione di Cristo si è estesa – come quella del “Servo” – al mondo intero: “Andate dunque – ha ordinato ai discepoli – e ammaestrate tutte le nazioni, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 27,19-20).
Seconda Lettura (1 Cor 1,1-3)
1 Paolo, chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, 2 alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: 3 grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.
La prima Lettera ai corinti – dalla quale sarà tratta la seconda lettura delle prossime sei domeniche – è stata scritta da Paolo per risolvere alcuni gravi problemi sorti in quella comunità: anarchia e disordini durante le celebrazioni eucaristiche, dissensi e gelosie, poca chiarezza su alcune questioni morali, confusione di idee riguardo alla risurrezione dei morti… Oggi ci viene proposta l’introduzione di questa lettera. In essa vengono indicati i mittenti (Paolo e il fratello Sòstene) e i destinatari (la chiesa di Dio che è in Corinto) e viene rivolto ai fedeli l’augurio di grazia e di pace. Tre versetti soltanto, ma in essi sono accennati temi teologici che vale la pena mettere in rilievo.
Anzitutto Paolo si presenta come apostolo per vocazione.
Apostolo è colui che è inviato a predicare il vangelo là dove nessuno lo ha ancora annunciato, è chi getta il seme da cui nasce, germoglia e cresce fino a raggiungere il pieno sviluppo la comunità. Più avanti nella sua lettera, Paolo impiegherà proprio questa immagine: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere” (1Cor 3,6).
Prima di entrare nel merito dei problemi che intende affrontare (cosa che farà in termini molto severi), sente il bisogno di richiamare e giustificare la propria autorità.
A differenza dei rabbini e dei maestri del suo tempo, non si appella agli studi che ha fatto, né alla sapienza, né all’esperienza che ha accumulato lungo gli anni. Si richiama alla sua vocazione, alla chiamata personale che ha ricevuto da Dio.
Ecco qui, di nuovo, il tema della vocazione che abbiamo trovato nella prima lettura; anche Paolo è stato scelto e gli è stato affidato un compito: essere apostolo. Ricorda questa vocazione per disporre i corinti ad accogliere le sue parole, le sue esortazioni, le sue decisioni: non espone le proprie dottrine, ma parla in nome di Dio che lo ha inviato.
Oltre a Paolo, il v. 1 cita Sòstene. Chi è costui? Gli Atti degli apostoli menzionano un certo Sòstene, capo della sinagoga di Corinto. Costui, assieme ad altri giudei, un giorno aveva trascinato Paolo in tribunale perché fosse condannato per bestemmia. Di fronte al proconsole Gallione che, tra l’incredulo e il divertito, assisteva a una discussione per lui di ben scarsa importanza, il dibattito teologico era divenuto sempre più acceso e si era tramutato in rissa. Ad avere la peggio era stato proprio Sòstene che – non si sa bene per quale ragione – era stato malmenato dai suoi stessi correligionari (At 16,12-17). Se si tratta della stessa persona si può concludere che le botte ricevute… sono servite a farlo rinsavire.
Destinataria della lettera è – come abbiamo già rilevato – “la chiesa di Dio che sta in Corinto” (v. 2). È la “comunità”, il “gruppo di cristiani” di quella città. Chiesa significa: “gente convocata”, “gente chiamata” da Dio. È ancora il tema della vocazione che ritorna: se i corinti sono divenuti credenti, è perché Dio li ha “chiamati”, li ha “scelti”.
I cristiani di Corinto sono santi convocati (v. 2). “Santo” significa “separato”, posto da parte, riservato a Dio. I corinti sono santi perché diversi dai pagani. Non vivono in un ghetto, lontani dagli altri – questo sarebbe contrario al vangelo che li vuole “sale della terra” (Mt 5,13) e “lievito” che fa fermentare la farina (Mt 13,33) – sono separati perché conducono una vita guidata da princìpi diversi da quelli dei pagani. Paolo richiama questa santità per introdurre i richiami severi contro i comportamenti immorali di alcuni membri di quella comunità.
Infine va sottolineata l’insistenza dell’Apostolo sull’unità che deve regnare fra i credenti in Cristo. I corinti non possono dimenticare che la loro comunità è parte della chiesa universale. La definizione che viene data di questa chiesa è suggestiva: sono tutti coloro che, in ogni luogo, invocano il nome del Signore Gesù Cristo (v. 2).
Si comprenderà più avanti (già dalla lettura della prossima domenica) la ragione di questo richiamo: sta preparando un intervento duro contro le divisioni e i dissapori che si sono manifestati nella comunità.
Vangelo (Gv 1,29-34)
29 Il giorno dopo, Giovanni vedendo Gesù venire verso di lui disse: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! 30 Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. 31 Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele”.
32 Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui.
33 Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo.
34 E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio”.
I tre vangeli sinottici iniziano il racconto della vita pubblica di Gesù ricordando il suo battesimo. Giovanni ignora questo episodio, tuttavia dedica un ampio spazio al Battista. Lo inquadra, fin dai primi versetti, in una prospettiva originale: più che come precursore, lo presenta come “l’uomo mandato da Dio a rendere testimonianza alla luce” (Gv 1,6-8). La sua vita e la sua predicazione suscitano interrogativi, attese e speranze nel popolo, circola addirittura la voce che sia lui il messia. Una delegazione di sacerdoti e leviti va al di là del Giordano per interrogarlo, per avere delucidazioni sulla sua identità e sulla sua opera. Egli risponde: “Io non sono il Cristo… Io battezzo con acqua, ma in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (Gv 1,19-28).
È in questo contesto che si inserisce il nostro brano.
Entra in scena il protagonista – Gesù – da poco evocato dal Battista nel dibattito che ha avuto con gli inviati dei giudei. Al vederlo venire verso di lui esclama: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!” (v. 29).
È un’affermazione che – come vedremo – è densa di significati e di evocazioni bibliche.
Il Battista mostra di avere intuito l’identità, da tutti ancora ignorata, di Gesù. Com’è giunto a scoprirla e perché lo definisce con un’immagine tanto singolare? Mai nell’AT una persona è stata chiamata “agnello di Dio”. L’espressione segna il punto di arrivo del suo lungo e certamente faticoso cammino spirituale; è partito, infatti, dall’ignoranza più completa: “Io non lo conoscevo” – ripete per due volte (vv. 31.33).
Chiunque voglia giungere “alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù” (Fil 3,8) deve cominciare a prendere coscienza della propria ignoranza.
È strana – dicevamo – l’immagine dell’agnello di Dio. Il Battista ne aveva a disposizione altre: pastore, re, giudice severo. Quest’ultima l’ha anche impiegata: “Viene uno più forte di me… Ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile” (Lc 3,16-17). Ma – nella sua mente – nessuna riassumeva la sua scoperta dell’identità di Gesù meglio di quella dell’agnello di Dio.
Educato probabilmente fra i monaci esseni di Qumran, aveva assimilato la spiritualità del suo popolo, ne conosceva la storia e aveva dimestichezza con le Scritture. Pio israelita, sapeva che i suoi ascoltatori, sentendolo accennare all’agnello, avrebbero immediatamente intuito l’allusione all’agnello pasquale il cui sangue, posto sugli stipiti delle case, in Egitto aveva risparmiato i loro padri dall’eccidio dell’angelo sterminatore. Il Battista ha intravisto il destino di Gesù: un giorno sarebbe stato immolato, come agnello, e il suo sangue avrebbe tolto alle forze del male la capacità di nuocere; il suo sacrificio avrebbe liberato l’uomo dal peccato e dalla morte. Notando che Gesù è stato condannato a mezzogiorno della vigilia di pasqua (Gv 19,14), l’evangelista Giovanni ha certamente voluto richiamare questo stesso simbolismo. Era infatti quella l’ora in cui, nel tempio, i sacerdoti cominciavano a immolare gli agnelli.
C’è una seconda allusione nelle parole del Battista.
Chi ha presente le profezie contenute nel libro di Isaia – e ogni israelita le conosceva molto bene – non può non percepire il richiamo alla fine ignominiosa del Servo del Signore del quale abbiamo sentito parlare anche nella prima lettura di oggi. Ecco come il profeta descrive il suo incamminarsi verso la morte: “Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori… è stato annoverato fra gli empi, mentre invece portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,7.12).
In questo testo, l’immagine dell’agnello è collegata alla distruzione del peccato.
Gesù – intendeva dire il Battista – si farà carico di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutte le iniquità degli uomini e, con la sua mitezza, con il dono della sua vita, le annienterà. Non eliminerà il male concedendo una specie di amnistia, un condono, una sanatoria; lo vincerà introducendo nel mondo un dinamismo nuovo, una forza irresistibile – il suo Spirito – che porterà gli uomini al bene e alla vita.
Il Battista ha in mente un terzo richiamo biblico: l’agnello è associato anche al sacrificio di Abramo.
Isacco, mentre cammina a fianco del padre verso il monte di Moria, chiede: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l’agnello” (Gn 22,7-8).
“Eccolo l’agnello di Dio!” – risponde ora il Battista – è Gesù, donato da Dio al mondo perché sia sacrificato in sostituzione dell’uomo peccatore meritevole di castigo.
Anche i dettagli del racconto della Genesi (Gn 22,1-18) sono ben noti e il Battista intende applicarli a Gesù. Come Isacco, egli è il figlio unico, il benamato, colui che porta la legna dirigendosi al luogo del sacrificio. A lui si adattano anche i particolari aggiunti dai rabbini. Isacco – dicevano questi – si era offerto spontaneamente; invece di fuggire, si era consegnato al padre per essere legato sull’altare. Anche Gesù ha donato liberamente la sua vita per amore.
A questo punto viene da chiedersi se davvero il Battista avesse presenti tutti questi richiami biblici quando, per due volte, rivolto a Gesù, ha dichiarato: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,29.36).
Lui forse no, ma certamente li aveva presenti l’evangelista Giovanni che intendeva offrire una catechesi ai cristiani delle sue comunità e a noi.
Nella seconda parte del brano (vv. 32-34) viene presentata la testimonianza del Battista: egli riconosce come “Figlio di Dio” colui sul quale ha visto scendere e rimanere lo Spirito. Il riferimento è alla scena del battesimo narrata dai sinottici (Mc 1,9-11). Giovanni introduce però un particolare significativo: lo Spirito non solo è visto discendere su Gesù, ma rimanere in lui.
Nell’AT si parla spesso dello spirito di Dio che prende possesso degli uomini conferendo loro forza, determinazione, coraggio, tanto da renderli irresistibili. Si parla di una sua discesa sui profeti che vengono abilitati a parlare in nome di Dio; ma la caratteristica di questo spirito è la sua provvisorietà: permane in queste persone privilegiate fino a quando hanno portato a termine la loro missione, poi le lascia ed esse ritornano normali, svanisce ogni loro abilità, intelligenza, sapienza, forza superiore. In Gesù invece lo Spirito rimane in modo duraturo, stabile. La stabilità nella Bibbia è attribuita soltanto a Dio: solo lui è “il vivente che rimane in eterno” (Dn 6,27); solo la sua parola “rimane in eterno” (1 Pt 1,25).
Attraverso Gesù lo Spirito è entrato nel mondo. Nessuna forza avversa lo potrà mai scacciare o vincere e da lui sarà effuso su ogni uomo. È il battesimo “in Spirito Santo” annunciato dal Battista (v. 33). Uniti intimamente a Cristo, come tralci a una vite rigogliosa e piena di linfa, i credenti porteranno frutti abbondanti (Gv 15,5), dimoreranno in Dio e Dio in loro (1 Gv 4,16), riceveranno la stabilità nel bene che è propria di Dio, perché, mentre “il mondo passa con la sua concupiscenza, chi fa la volontà di Dio rimane saldo in eterno” (1 Gv 2,17).
È questo il messaggio di speranza e di gioia che, attraverso il Battista, Giovanni, fin dalla prima pagina del suo vangelo, vuole annunciare ai discepoli. Nonostante l’evidente strapotere del male nel mondo, ciò che attende l’umanità è la comunione di vita “col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo”. Queste cose – dice Giovanni – le scrivo “perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,3-4).