Commento al Vangelo del 19 Aprile 2020 – p. Ermes Ronchi

Le ferite del Signore e la gioia di credere

Padre Ermes Ronchi commenta il brano del Vangelo di domenica 19 aprile 2020.

padre Ermes Ronchi
padre Ermes Ronchi

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene. Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto.

E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il Vangelo, in mezzo a loro. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, la pace qui. Pace che scende dentro di voi, che proviene da Dio. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso. Gesù e Tommaso, loro due cercano.

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SE TROVA CHIUSO LUI NON SE NE VA

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. E manca l’aria.
Eppure Gesù viene, nonostante il loro e il mio cuore inaffidabili: e stette in mezzo a loro. Mi conforta pensare che se trova chiuso lui non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì. Shalom, ha detto, parola biblica che contiene molto più della pace come semplice fine delle violenze, porta la forza dei retti di cuore dentro le persecuzioni, la serenità dei giusti nelle ingiustizie, una vita appassionata su quelle che sono spente. Pienezza. Fioritura.
Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, il vento sottile dell’Oreb su Elia profeta, quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando!
“Se non vedo e non tocco, non crederò”. Povero, caro Tommaso, diventato addirittura proverbiale! Vuole delle garanzie, e a ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne sarà sconvolta.

Gesù si avvicina alla nostra lentezza del credere con pochi, semplici verbi: guarda, metti, tocca. Tommaso comprende da quei fori il motivo per cui Cristo è risorto: amore legato a ferite incancellabili, luminose, da cui non sgorga più sangue ma luce: ferite trasfigurate.
Attraverso le nostre ferite, che sono i colpi duri o insensati della vita, ci scopriamo capaci di affiancare altri quando attraversano le nostre stesse tempeste. La debolezza allora, come quella dei discepoli, non è un ostacolo, ma diventa una opportunità per meglio seguire il Signore.

Tommaso si arrende non ai suoi occhi o al suo toccare, ma a questa esperienza di pace offerta da Gesù per ben tre volte. E la sua pace scende ancora su noi peccatori sconfitti, sulle nostre chiusure e sulle nostre paure. Tommaso passa dall’incredulità all’estasi. Se alla fine abbia toccato o no il corpo del Risorto, non è così importante.

“Mio Signore e mio Dio”. Tommaso ripete quel piccolo “mio” che cambia tutto, che non indica possesso geloso, ma rivela ciò che mi ha rubato il cuore e mi fa vivere, la parte migliore di me. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.
Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine consolante che finalmente è mia. E Gesù mi dice beato! Beato chi fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora.
La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici portando le nostre piaghe di luce.

Rischio dolcissimo: “Ecco io carezzo la vita, perché profuma di Te!” (Rumi).

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