La liturgia del Venerdì Santo si apre in silenzio con un atto di adorante prostrazione e si chiude in silenzio. Sono poche le parole di commento, profondo è l’ascolto, prolungata la risonanza interiore.
La passione secondo Giovanni narra con cura i passaggi del desiderio ardente di comunione di Gesù, di un amore che è servizio, del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro, del processo costruito e attuato contro Gesù. Proprio nel confronto con Pilato, Gesù può esprimere in che senso egli è Re e cos’è il suo Regno.
Lo fa con un linguaggio caro all’autore del quarto Vangelo, che fin dalle prime pagine parla di un’appartenenza alla terra e di un modo di parlare terreno, opposto a un provenire dal cielo, un rinascere dall’alto e parlare con parole celesti, con una sapienza non di questo mondo.
Ciò che segue subito dopo – la coronazione di spine, l’iscrizione appesa sul capo di Gesù innalzato sulla croce – confermano la novità di questo Regno e congiungono quest’ora della donazione suprema con alcuni gesti che l’hanno preparata: la metafora del chicco di frumento caduto in terra, la promessa di attirare tutti a sé nell’innalzamento sulla croce, la lavanda dei piedi, la preghiera per l’unità dei discepoli proprio mentre quest’unità si sta frantumando per tradimento e paura. Sotto la croce, Giovanni narra l’atto stupendo con cui Gesù consegna la madre al discepolo amato e questi alla madre: generati entrambi come Chiesa nascente proprio qui, in quest’ora, quando Gesù consegna il suo spirito al Padre.
Padre santo, aiutami a riconoscere la tua volontà nelle cose che non comprendo. Fammi dono del santo discernimento, quello che mi permette di riconoscerti anche lì dove la mia mente mai mi porterebbe: la strada della croce. Essa è la sola che porta alla vita vera, quella della risurrezione. Amen.