ASCOLTATELO!
In quel tempo, 28b. Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
Il Vangelo della seconda Domenica di Quaresima sofferma la nostra attenzione sulla trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor. L’intento di Luca è di anticipare la vittoria del Risorto sulla morte.
Per comprendere il brano è necessario collocarlo nel contesto dei primi due annunci della passione.
Nella prima parte del versetto 28, infatti, si parla di “otto giorni dopo”. Gesù aveva dichiarato che per essere suoi discepoli è necessario rinnegare se stessi, prendere la propria croce e seguirlo. La croce rivela l’amore di Dio per l’uomo. La trasfigurazione non mostra un’altra realtà, ma la verità profonda della realtà, cioè il Cristo che va verso il suo compimento.
Mentre il Battesimo di Gesù al fiume Giordano anticipava l’inizio della sua missione, la trasfigurazione anticipa il cammino verso il compimento della missione, che avverrà a Gerusalemme. È anche anticipazione della gloria del Risorto. In questo racconto, infatti, Luca usa gli stessi termini utilizzati nel racconto della risurrezione: le vesti sono sfolgoranti, i testimoni sono due (Mosè ed Elia sul Tabor, così come sono due gli angeli al sepolcro), come è riportato da Luca 24,4.
“Pietro, Giovanni e Giacomo”: i nomi dei tre discepoli prediletti sono in ordine diverso rispetto agli altri sinottici. Probabilmente la comunità di Luca conosceva maggiormente Giovanni rispetto a Giacomo, per cui Luca l’ha nominato subito dopo Pietro.
“Salì sul monte”: gli evangelisti non identificano il monte. Ne parlano solo come luogo dell’incontro tra Cristo e il Padre, della preghiera solitaria e notturna (cfr. Luca 6,12). La tradizione ha riconosciuto nel monte Tabor (circa seicento metri sul livello del mare) il luogo probabile della trasfigurazione che, all’epoca di Gesù, sembra fosse occupato da una fortezza. I monti sono comunque come un dito indice puntato ad indicare il mistero di Dio. Sono un invito ad immergerci in un’altra dimensione.
29. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
“Mentre pregava”: Luca puntualizza che la trasfigurazione avviene in un contesto di preghiera, iniziata prima e continuata successivamente.
“Il suo volto cambiò d’aspetto”: a differenza dei sinottici, Luca parla solo del volto di Cristo, non di tutta la persona. Chi dipinge icone sa che esiste la “luce taborica”, cioè una luminosità che viene dal di dentro ed elimina ogni ombra. Il volto, in particolare, rivela la realtà nascosta, dà visibilità all’invisibile.
“La sua veste divenne candida e sfolgorante”: questi sono i termini che si riferiscono alla condizione beata nel Cielo. Sono termini apocalittici che richiamano la gloria e la vittoria. L’aspetto di Gesù trasfigurato è lo stesso aspetto con cui si presentano i due angeli, annunciatori della risurrezione il mattino di Pasqua.
30. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31. apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Gesù appare nella sua essenza e conversa con Mosé ed Elia, che preannunciano gli avvenimenti prossimi ad accadere. L’evangelista Luca riferisce anche il contenuto della loro conversazione, diversamente dagli altri sinottici.
“Due uomini”: sono personaggi che appaiono in modo visibile, così come i due angeli il mattino della risurrezione. Di Mosé non è stata trovata la tomba ed Elia è stato rapito in cielo. La loro morte, perciò, è avvolta nel mistero.
“Mosé”: rappresenta la legge.
“Elia”: rappresenta i profeti.
“Suo esodo”: evoca l’uscita del popolo dall’Egitto, ma si può intendere anche uscita come sinonimo di morte, come riferimento al mistero pasquale di Gesù.
32. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
“Erano oppressi dal sonno”: il sonno di cui si parla non è fisiologico per la fatica del viaggio o per l’orario notturno. Si tratta di un “sonno teologico”, cioè dell’incapacità umana di capire il mistero.
“Quando si svegliarono”: i tre discepoli non hanno seguito la conversazione e non possono capire il senso dell’evento.
33. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quello che diceva.
L’intervento di Pietro è fuori luogo: è pieno di stupore e all’oscuro del senso della presenza di Mosé ed Elia e della loro conversazione con Gesù. Vorrebbe rendere eterno questo istante di bellezza e di gloria. Esattamente quanto vorremmo fare noi quando siamo afferrati da un momento di grande emozione spirituale.
“Facciamo tre capanne”: Pietro propone la costruzione di tre capanne o tende. Secondo gli esegeti, la tenda è un riferimento alla Tenda nella quale era contenuta l’Arca dell’Alleanza, quando il popolo di Israele era peregrinante nel deserto. La tenda è segno della presenza di Dio. Altro riferimento è la festa delle capanne: il popolo per una settimana andava a dormire nelle tende per ricordare l’esperienza dell’Esodo: “Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Levitico 23,42-43).
34. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura.
Nell’Antico Testamento la nube ha una funzione teologica: è segno della presenza speciale di Dio: Egli si manifesta e si cela nello stesso tempo.
“Nube”: richiama il monte dove dimorava la gloria del Signore: “Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti”.
È un richiamo alla nube che si posava come fuoco sulla tenda del convegno: “Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora. Per tutto il tempo del loro viaggio, quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano le tende. Se la nube non si innalzava, essi non partivano, finché non si fosse innalzata. Perché la nube del Signore, durante il giorno, rimaneva sulla Dimora e, durante la notte, vi era in essa un fuoco, visibile a tutta la casa d’Israele, per tutto il tempo del loro viaggio” (Esodo 40,34- 38).
“All’entrare nella nube, ebbero paura”: di fronte ad un fenomeno soprannaturale la paura avvinghia l’uomo, che rimane impressionato. Così è avvenuto per Pietro e per gli altri due discepoli. Così accade a noi quando sentiamo di non poter dominare una realtà sconosciuta.
35. E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”.
Sia all’atto del Battesimo sia sul Tabor il Padre dichiara che Gesù è il suo eletto. Sul Tabor, però, vi è una visibilità della gloria, constatabile dai tre discepoli preferiti. I termini utilizzati da Padre per identificare Gesù richiamano la sua divinità e, insieme, la necessità di passare attraverso la sofferenza per realizzare il disegno divino.
“Figlio”: è un titolo molto più forte di quello messianico, perché esprime la relazione unica tra Cristo e il Padre. Ne parla anche il Salmo 2,7-8: “Annunzierò il decreto del Signore. Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”.
“L’eletto”: l’espressione richiama il Servo sofferente di Jahvè, che ha il compito di soffrire per la salvezza del popolo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio” (Isaia 42,1).
“Ascoltatelo!”: nel libro del Deuteronomio viene chiesto di ascoltare colui che sostituirà Mosè. Biblicamente parlando, pertanto, chiedere di ascoltare Gesù significa chiedere di ascoltare colui che è mandato da Dio: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”. Ascoltare Cristo significa essere disposti ad accettare la croce, fidandoci che essa è solo un passaggio per una gloria più grande, perché dopo la risurrezione Egli salirà al Cielo fino al suo ritorno: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (Atti 1,11).
Noi cristiani siamo chiamati a contemplare la gloria del Signore Gesù e poi scendere dal monte per percorrere la sua stessa strada. La vita del discepolo, infatti, non consiste nello stare sul divano a guardare alla televisione il film sulla vita di Cristo, e poi continuare le proprie abitudini. Consiste nel partecipare alla sua opera di salvezza, con il nostro contributo di sacrificio e di amore. Gesù non è un personaggio da applaudire, ma il Signore da seguire. Forti della preghiera e dell’incontro con Lui, riusciremo a darne testimonianza, a prezzo del nostro sangue.
36. Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Di fronte all’evento di eccezionale portata, i discepoli tacciono, sopraffatti dall’esperienza vissuta. Dopo la passione, sarà il Risorto stesso a confermarli nella fede.
Anche noi cristiani dobbiamo essere i contemplativi che rimangono affascinati da Cristo e sanno manifestarlo agli uomini del nostro tempo, perché possano intravederne le fisionomie. Verrà poi il giorno in cui lo vedremo faccia a faccia. In ciascuno di noi avverrà la trasformazione: le ferite scompariranno, i nostri limiti si dissolveranno e vivremo nella luce senza fine.
Suor Emanuela Biasiolo