Commento al Vangelo della Santa Domenica a cura di Giulio Michelini
La trasformazione di Gesù, quella di Pietro e dei discepoli
Brano, quello della trasfigurazione, tra i più difficili da leggere e da collocare all’interno del percorso storico della vita di Gesù, è ricco di suggestioni intertestuali: quanto accade, come la teofania al momento del battesimo, o la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque, è raccontato con ricche allusioni ad avvenimenti e racconti dell’Antico Testamento. Vediamone l’inizio.
Otto giorni dopo. L’annotazione temporale lucana «otto giorni dopo» (negli altri sinottici è «sei giorni dopo») collega il racconto con quanto è appena accaduto: Gesù ha terminato il suo primo annuncio della passione e ha ricevuto però anche una grande delusione da Pietro. Se poco prima l’aveva riconosciuto come Messia, ora invece gli consiglia, prendendolo da parte, di non recarsi a Gerusalemme, perché il Cristo non avrebbe dovuto morire: Simone è come Satana.
Ecco perché in un breve ma intenso studio del 2009, il gesuita Maurice Gilbert del Pontificio Istituto Biblico, chiedendosi la ragione della presenza di Mosè ed Elia sul Tabor, concludeva che questi si trovano con Gesù per portargli la consolazione di cui ha bisogno. Mosè ed Elia perciò sul monte della Trasfigurazione non hanno solo un ruolo “teologico” (rappresentando, secondo un’interpretazione antica, la Legge e i Profeti), ma sono molto di più. Le loro biografie li mettono in grado di portare a Gesù la consolazione di cui ha bisogno, perché conoscono bene quanto Gesù ha passato e sta per passare. Hanno vissuto tutti e due varie prove, hanno chiesto a Dio di morire (cf. Es 32,32 per Mosè, quando, subito dopo il vitello d’oro, si rivolge al Signore implorando il perdono per il suo popolo: «se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!»; e 1Re 19,4 per Elia: «Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei mie padri»), hanno avuto grosse delusioni, per le quali a tutti e due è concessa la visione di Dio (cf. Es 33,21-22; 1Re 19,13).
Scrive Gilbert: «In Gesù Mosè ed Elia si incontrano, vedono Gesù nella gloria, e gli portano il loro conforto. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada che Gesù dovrà intraprendere». La presenza di Mosè ed Elia non è solo per i discepoli, ma è la consolazione per il Figlio che sta per andare a Gerusalemme. Gesù deve essere consolato e rafforzato – come farà l’angelo al Getsemani, secondo il racconto di Luca, nel momento della lotta estrema (cf. Lc 22,43-44) – circa il suo esodo, ovvero a riguardo del suo futuro, e, aggiungiamo noi, anche per le altre prove che ha vissuto.
Gesù trasformato. I tre sinottici provano a spiegare quanto è accaduto sul Tabor (il monte della Galilea dove, sin dal 348, secondo Cirillo di Gerusalemme, sarebbe avvenuta la Trasfigurazione), e descrivono a loro modo la “trasformazione” (il verbo in Matteo e Marco implica un verbo al passivo, cioè un passivo divino: «fu trasformato») che Gesù ha avuto.
Ma forse è più importante notare quanto viene messo in rilievo soprattutto nel racconto di Marco. Nell’economia del suo vangelo infatti ha un ruolo importante la voce al v. 7: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Non si tratta solo di ascoltare la voce di Gesù, ma anche di accogliere che sia anche Figlio, e non soltanto, cioè, “Messia”. Questo elemento, come ha notato Paolo Mascilongo nel suo commento al vangelo (Il vangelo di Marco. Commento esegetico e teologico, Città Nuova 2018), si spiega col fatto che Pietro, nella sua confessione, aveva riconosciuto Gesù solo – se si può dire – come “Messia”: «Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”» (Mc 8,29). La voce del Tabor, invece sottolinea che Gesù non è il Cristo, ma è il Figlio, proprio con il nome che già gli era stato dato nel battesimo. Questo elemento, di per sé, non ha riscontro invece nel racconto matteano, dove Pietro aveva già visto in Gesù e il Messia e il Figlio (cf. Mt 16,16: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente»).
Pietro, quindi, è costretto a cambiare la sua prospettiva su Gesù: «La voce [della trasfigurazione] è legata alla confessione di Pietro, tramite il passaggio di Mc 8,31 e la predizione della passione. Più che una correzione, però, si può vedere nella trasfigurazione un passo ulteriore della progressiva rivelazione dell’identità del protagonista; i due brani si integrano a vicenda. Tra i due episodi vi sono analogie» (Mascilongo, 538). Nonostante sia proprio Pietro colui che è stato chiamato Satana ed è stato rimproverato dal Maestro, «tuttavia egli è con naturalezza di nuovo invitato da Gesù a seguirlo sul monte della trasfigurazione» (539). Per Pietro-Satana, che era stato invitato ad andare “dietro” a Gesù, vi è una nuova possibilità, quella che gli permetterà ancora una volta di cambiare idea su Gesù e sul modo in cui questi è il Messia e il Figlio.
Verso Gerusalemme. Ma la Trasfigurazione non è solo la consolazione per Gesù e il modo in cui Pietro viene trasformato: Gesù doveva mostrare la sua gloria (Luca solo insiste per due volte con la parola gloria), perché su quel monte rivelerà il suo destino ultimo e quello di ognuno di noi, l’esodo che anche noi dobbiamo prima o poi portare a compimento. L’annuncio della passione e morte di Gesù – e anche nostra – non è mai completo se ad esso non è associato quello della gloria, della risurrezione. La nostra sorte infatti si compirà quando anche il nostro corpo, la nostra vita, saranno trasfigurate e anche noi – come già Pietro, Giovanni e Giacomo – vedremo il Risorto “così come egli è”, non solo nella sua forma umana, ma nella sua più completa realtà. La trasformazione di Gesù è lo svelamento della personalità profonda di Gesù, quella dell’eletto, del Figlio unigenito. Ed è anche profezia della nostra futura trasformazione.
Ascoltare, non vedere. Ciò che ha consolato i discepoli sul monte è stato il poter vedere cose meravigliose. Per diverse volte in questo episodio ricorre il verbo “vedere” (al passivo, visti = apparsi: 9,31; all’attivo: 9,31.36; all’imperativo, al v. 30: “ed ecco”, in gr.). Ma – terminata la visione – ciò che resta, nella nube, è solo una voce.
Ci dice della situazione in cui noi ora siamo: quella dei credenti, beati anche se non possono più vedere il Signore, come dice Gesù nel Quarto vangelo, «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). Se ora si vede ancora il Signore, è solo in un modo “confuso”, dove la sua presenza appare, ma non chiaramente, come per i discepoli di Emmaus. Può essere (intra)visto nei poveri, nei piccoli, nel prossimo. Nei sacramenti, dove – come scrive san Leone Magno – «è passato ciò che era allora visibile nel nostro Salvatore» (Sermones 74,2). Non lo possiamo vedere: i credenti invece lo devono ascoltare, nella sua Parola, che grazie alla Chiesa ancora ci viene trasmessa.
La preghiera e la trasfigurazione. Un ultimo dettaglio, che caratterizza la versione lucana che stiamo leggendo in questa domenica, e che ha a che fare con uno degli impegni quaresimali, la preghiera.
Da quanto abbiamo detto sopra, si può forse comprendere che Gesù salga sul monte, scrive Luca, per pregare. Tra tutti i vangeli, quello che fornisce almeno una ragione per cui Gesù sale sul Tabor, è il vangelo secondo Luca. Luca è infatti l’evangelista che più di tutti insiste sulla preghiera, e lascia pregare Gesù anche quando gli altri vangeli non lo dicono: al battesimo (Lc 3,21: «Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera»), alla scelta dei Dodici (Lc 6,12: «In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio»), e, appunto, sul monte della trasfigurazione: «Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare» (Lc 9,8).
La prima reazione di Gesù di fronte a quanto accaduto sei giorni avanti (per Luca: otto giorni) è la preghiera. Anche se il testo non lo dice, forse dovremmo parlare di una vera e propria terapia, una modalità con la quale Gesù risponde alle sollecitazioni che gli sono giunte dalla confessione di Pietro, dal suo annunciare la prossima morte, e, ancora, dall’incomprensione di Pietro-Satana. Ogni momento di preghiera, questo tempo di preghiera, è un tempo favorevole per fare unità e raccogliere i sentimenti, compiendo il discernimento degli spiriti per lasciarsi così guidare da Dio attraverso i successi e gli insuccessi, le gioie e le prove della vita, tutto quello che ci accade e che rischiamo di subire, se non veniamo portati sul monte da Lui.