Il commento al Vangelo di domenica 17 marzo 2019 a cura di don Eduard Patrascu.
Non c’è persona umana su questa terra che non desideri, non voglia con tutte le sue forze, stare bene, poter gioire della pace interiore, della serenità, quindi di poter vivere con gioia. E un desiderio normale, legittimo e molto profondo del cuore umano. Per avere questo stato di bene, si cercano con tutte le forze, metodi, mezzi e situazioni che “ricarichino le batterie”, come siamo soliti dire. Di fatto, desiderare di star bene, di sentirti bene, è un gran segno che siamo persone umane. Coloro che hanno dimenticato questa cosa o coloro i quali si sono autoconvinti che la vita è solo sofferenza, rischiano di diventare mostri… o almeno persone che faranno soffrire se stessi e, cosa ancora più grave, che possono far soffrire gli altri, talvolta senza alcun motivo serio.
L’esperienza mostra che in questa ricerca che l’uomo intraprende per sentirsi bene, molte volte sceglie cose, situazioni che in realtà non portano alla vera e piena felicità. Di fatto, quasi tutti i metodi che usiamo nella ricerca della felicità, hanno anche qualcosa di difettoso. Un semplice esempio, magari banale: si cerca di riprendersi partecipando ad una festa dove si mangia e si balla. Chi osa dire che non c’è bisogno di feste? É normale che le vogliamo! Ma solitamente queste feste predispongono a golosità, che tante volte richiedono giorni “per smaltire” e il ballo magari porta la stanchezza alle gambe!
Il vangelo di oggi racconta che Pietro, Giacomo e Giovanni hanno il privilegio di una felicità autentica, profonda… divina. Fanno parte di quel momento nel quale “gli si aprono gli occhi” come si deve e vedono lo splendore di Dio sul volto di Gesù: “è bello/buono che siamo qui” reagisce Pietro istintivamente. Una gioia indescrivibile ha riempito il loro cuore e la loro vita. E non si è mai persa, magari si è un pò diluita perché i tre non avevano ancora imparato appieno a guardare Gesù “come si deve”, non avendo capito ancora che la risurrezione … esiste. La prova che questa gioia non si è mai persa ce la da Pietro stesso, nella sua seconda lettera:
“non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. 17 Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». 18 Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte”.
La gioia del Tabor darà poi la possibilità a Pietro, dopo il rinnegamento di Gesù, di piangere amaramente come pentimento e diventi così il testimone proprio di questa gioia. Il libro degli Atti degli apostoli ce lo dimostra: “dite voi se è giusto obbedire a voi piuttosto che a Dio”, dirà Pietro con coraggio a coloro che volevano proibirgli di parlare di Gesù.
Ecco quindi da dove viene la vera gioia: “è bello, e bene, che noi siamo qui”. Non c’è gioia vera che nell’incontro con Dio. Le altre gioie ben vengano, ma non saranno mai piene. E dove lo possiamo incontrare Dio? Ce lo insegna lo stesso episodio del vangelo di questa domenica. Dove lo hanno visto? Come se ne sono accorti? Il testo ci dice che le vesti di lui sono diventate candide, molto bianche. L’evangelista Marco è meno dettagliato sulla scena, Matteo aggiunge che il suo volto brillò come il sole, cosa che lascia intendere anche Luca. Dunque, i tre hanno incontrato Dio nel volto umano di Gesù e mediante i suoi vestiti. Pertanto, Dio lo incontriamo anzitutto nel volto delle persone umane e in ciò che essi sono. I tre hanno aperto i loro occhi per vedere lo splendore sul volto dell’uomo Gesù. Hanno corretto il modo di guardare, si sono ricordati come si incontrano i volti umani. Di fatto, la prima conseguenza del peccato è che esso altera, quasi distrugge, la nostra capacità di guardare come Dio guarda. Non sappiamo più dove, cosa e come guardare: non focalizziamo più correttamente. Oppure come direbbe la terminologia biblica: peccando, manchiamo la mira. Vale a dire, guardiamo altrove, non dove dovremmo guardare. E per questo l’uomo diventa infelice, scontento. Ed è chiaro che, tenendo conto che guarda da un altra parte, sente il bisogno di dover ricordare, oppure di farsi ricordare da qualcuno, dove, cosa e come deve guardare. In questo senso, ai tre del Tabor gli viene detto: “Questi è il mio figlio prediletto: Ascoltatelo!”.
Dunque, colui che vuole incontrare Dio, colui che vuole sentirsi bene realmente ha questa soluzione: Guardare Gesù. Ascoltarlo, lui che parla attraverso il Vangelo e mediante coloro che lui invia. Pietro, come pure gli altri apostoli, hanno sbagliato anche dopo quell’esperienza. Ma non hanno sbagliato mai così tanto da dimenticare che anche solo guardando Gesù si fa l’esperienza della vera gioia. E tanto meno hanno dimenticato che, pur sbagliando, c’è la possibilità, con il pentimento, di tornare a guardare il volto splendente di Dio in Gesù. Volto che, non dimentichiamo mai, ha brillato sul monte santo, luogo dell’incontro con Dio, che oggi noi chiamiamo “chiesa”. Per questo è bene, è bello andare costantemente, regolarmente in chiesa: ricordiamoci questo. É bello, è bene che tutte le volte che veniamo in chiesa possiamo sperimentare e far sperimentare la realtà che “è bello/fa bene per noi stare qui”.