Entriamo con questa celebrazione della Messa “Cena del Signore” nel Triduo Pasquale di morte e risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Siamo immersi nella sorgente, nel cuore, nell’apice della liturgia e della vita stessa della Chiesa. In questa celebrazione, madre di tutte le celebrazioni eucaristiche, facciamo memoria della sua stessa istituzione fatta dal Signore proprio in quella sera in cui veniva tradito.
Tutta la giornata di oggi ci permette di riflettere sulla realtà poliedrica della Chiesa, dove ci sono diversi ministeri e carismi il cui unico fondamento e destinatario è Cristo; ma ci permette di riflettere anche su alcune dinamiche umane che caratterizzano i nostri rapporti non sempre liberi dalle paure.
Nella Messa del Crisma contempliamo il comune fondamento del sacerdozio regale e ministeriale: il tradimento, l’angoscia, il servizio gratuito nonostante tutto. Tutti i battezzati “per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo, vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo”, per offrire, attraverso le attività quotidiane, “spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui che dalle tenebre” li ha chiamati “all’ammirabile sua luce” (Lumen Gentium 10).
Come insegna il Concilio Vaticano II “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (Lumen Gentium 10).
In questa celebrazione la visibilità del Popolo di Dio, nella totalità delle sue membra, si concretizza con particolare efficacia. In effetti, secondo quanto afferma ancora il Concilio, vi è “una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri” (Sacrosanctum Concilium 41).
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Tutti noi, allora, consacrati con il Crisma, liberi dalla nativa corruzione e consacrati tempio della sua gloria siamo chiamati – come recita la preghiera di benedizione di questo santo olio – a spandere il profumo di una vita santa.
Ed ecco però che la liturgia del pomeriggio ci fa riflettere sulle necessità di “imparare” uno stile diverso per spandere il buon profumo; non più e semplicemente il rito del passato espresso nelle prescrizioni nella prima lettura dell’Esodo (12,1-8.11-14) ma la vita che assurge ad essere nuovo rito.
Cristo infatti, cingendosi le vesti e lavando i piedi ai suoi discepoli, scardina la certezza religiosa del passato e della vecchia ritualità fatta di prescrizioni e di norme e inaugura il servizio e l’attenzione al fratello come linguaggio liturgico nuovo da imparare nella sacra assise della comunione fraterna.
Il sangue dell’agnello senza difetti nato nell’anno, prescritto da Esodo, viene sostituito dall’Agnello senza macchia Cristo Gesù che si dà come cibo a nutrimento.
Quello che siamo chiamati a trasmettere è quello che il Signore Gesù ha fatto “nella notte in cui veniva tradito”: il pane, preso e spezzato dalle sue mani, il calice, alzato alla fine della cena e, per rendere ancora più percepibile l’impatto di entrambi sulla concretezza dei nostri reciproci rapporti, la lavanda dei piedi, lo sconvolgente abbassarsi del Maestro e Signore davanti ai suoi discepoli, davanti a noi.
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Le azioni, più che i discorsi e le dichiarazioni, il modo di fare e di porsi più che l’astrattezza delle idee: ecco ciò che i cristiani si trasmettono di generazione in generazione, con cura trepidante e con timore e tremore, non per la paura di un sacro anonimo e minaccioso, ma per la consapevolezza della profondità della confidenza con cui il Signore si mette nelle nostre mani.
Certamente, ai gesti sono seguite le parole: “questo è il mio Corpo”, “questo è il mio Sangue”, “Fate questo in memoria di me”. Sono le stesse parole che da secoli ripetiamo al culmine del nostro radunarci nel suo nome.
Non si tratta però di aggiunte o di messaggi ulteriori, ma di esplicitazioni dell’avvenimento su cui s’innestano, di quella dedizione da parte del Signore, esistenziale e corporea, da cui scaturiscono.
Così ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, che nella commemorazione di questa sera ha le sue radici, possiamo gridare con l’antico popolo dell’alleanza: “È la Pasqua del Signore”, è il suo atto definitivo di liberazione dal male, il suo passaggio dalla morte alla vita e la possibilità a noi donata di diventarne partecipi con lui.
Il suo proposito di salvezza si compie, non come auspicio o pia credenza, ma come pane e vino, ossia, come cibo e bevanda, come realtà destinate a essere assimilate concretamente e tradotte in pratica nell’esistenza storica di chi li assume e non solo dalla loro mente o dalla loro sensibilità superficiale.
Dio si fa carne, cibo, nutrimento, non si fa idea.
Nell’omelia del Giovedì Santo dell’Anno Santo 2000, il cardinale Carlo M. Martini rivolgendosi alla sua Chiesa di Milano così si esprimeva: Nel corso dell’ultima Cena Gesù prende il pane, rende grazie a Dio, lo spezza e dice: «Questo è il mio corpo». Dopo aver cenato prende anche il calice e dice: «Questo è il mio sangue dell’alleanza».
Nelle sue mani il pane e il vino diventano lui stesso. Quando dunque mette un pezzetto di quel pane nelle mani di Pietro, di Giovanni, di Andrea, di Giuda, è come se dicesse: «Sono io, non temere, mi metto nelle tue mani, mi fido di te e mi affido a te, perché tu faccia una cosa sola con me».
Gesù vuole diventare una cosa sola con noi, sino al punto da scomparire diventando nostro nutrimento. Questa è la notte in cui siamo chiamati a vincere, nel nostro cuore, la stessa resistenza manifestata da Simon Pietro.
Quel suo modo di nascondersi dietro il paravento di una falsa religiosità che, con il pretesto di mettere Dio in alto, sopra le vicende di questo mondo, non lo lascia di fatto operare nel concreto della propria vita, sui suoi piedi, sulla parte del corpo umano che ci tiene piantati sulla terra.
“Signore, tu lavi i piedi a me?… Tu non mi laverai i piedi in eterno!”. Anche qui vediamo quanto Gesù abbia valorizzato la capacità di comunicare con i gesti il mistero che le parole umane non possono afferrare: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”.
Questo rimane valido anche per noi, oggi, invitati al banchetto preparato dal Signore.
Lo celebriamo sapendo che ciò che viene fatto davanti ai nostri occhi e che insieme facciamo in sua memoria, obbedienti al suo comando, non lo possiamo capire interamente nel rito, ma cominciamo a coglierne il significato profondo solo dopo, nella vita, nell’incontro con l’altro, nel sacramento del fratello e della sorella che ci troviamo accanto, a casa, per strada, a scuola, sul posto di lavoro. “Quello che io faccio… lo capirai dopo”.
È necessario lo spazio intermedio del mistero, dell’attesa di un di più, della terra di mezzo della fiducia.
“Capite quello che ho fatto per voi?”. È infatti evidente che non lo abbiamo ancora capito, che stiamo ancora arrancando, che facciamo terribilmente fatica ad arrivare a quel “dunque”, evocato da Gesù: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri”.
Ci siamo fermati sovente alla prima parte rituale e celebrativa, dimenticando la congiunzione più strettamente deduttiva del “dunque” da declinare nella storia sporcandosi le mani e prendendo posizione, compromettendosi con il linguaggio “sporco” del mondo per lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle che con noi e insieme a noi camminano verso la patria attraversando la terra comune della storia.
Commento al Vangelo tratto dal sussidio CEI al periodo di Quaresima/Pasqua 2025, scarica il file PDF completo. Scarica anche l’introduzione al Tempo di Pasqua.