Oggi si celebra la festa dell’Ascensione di Gesù al cielo. Nella prima lettura l’avvenimento è descritto così:
“Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
Questa, la descrizione, per così dire, esterna dell’avvenimento. Il significato nascosto dell’evento ci è illustrato invece da san Paolo nella seconda lettura, ed è che Dio “ha fatto sedere alla sua destra Gesù Cristo”; “tutto ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa”. L’Ascensione celebra l’intronizzazione di Cristo come Signore dell’universo.
È curioso ascoltare sulla bocca di quei due angeli (gli “uomini in bianche vesti”) lo stesso rimprovero che, in toni meno amabili, è stato spesso rivolto ai cristiani, da parte dei non credenti: “Perché state a guardare il cielo?”. “I cristiani – ha detto Hegel – sprecano in cielo i tesori destinati alla terra!”. “Essi – ha affermato C. Marx – proiettano in cielo i loro desideri inappagati sulla terra”.
La festa di oggi ci costringe a riflettere su che cosa significa la parola cielo che ricorre continuamente nelle letture bibliche e nello stesso nome della festa: “Ascensione di Gesù al cielo”. Alcuni confondono oggi questo cielo della fede con quello fisico o astronomico e ne nasce una miscela esplosiva. Tempo fa, negli Stati Uniti, c’è stato un suicidio in massa di 39 persone appartenenti a una piccola setta denominata “Porta del cielo” (Heaven’s Gate). Il motivo? Stanchi e disgustati della vita della terra e sviati dal gran parlare che si fa oggi di alieni, di UFO e di extraterrestri, essi erano impazienti di salire “a un livello più alto” e andare a vivere su qualche altro pianeta. Il passaggio vicino alla terra della cometa Hale-Bopp fu preso come il segno atteso. Era scoccata l’ora di lasciare quaggiù i loro “veicoli” o “contenitori”, come chiamavano il corpo; bisognava affrettarsi a salire sulla nave che era venuta a prenderli, prima che questa scomparisse di nuovo negli spazi profondi del cosmo.
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Anche da questo episodio increscioso si vede quanto sia importante chiarire cosa dobbiamo intendere quando il Vangelo ci parla di cielo. Platone, uno dei più grandi maestri dell’umanità, ha racchiuso in una similitudine, il senso spirituale del cielo; si tratta del cosiddetto mito della caverna. Non vi spaventate, vedrete che si tratta di una filosofia comprensibilissima. E poi chi ha detto che i tesori più alti del pensiero umano debbano essere riservati solo ai dotti e a chi ha potuto fare l’università? Non esiste idea per quanto profonda, che, trovando il linguaggio adatto, non si possa far capire anche alla persona meno istruita.
Immagina – scrive dunque Platone – questa scena. Degli uomini sono stati rinchiusi nel fondo di una grotta buia, con le spalle voltate all’ingresso. Sono legati in modo tale che non possono guardare che in avanti, alla parete di fondo. Alle loro spalle, dietro un muretto, c’è della gente che va e viene, recando vari oggetti in mano o sulla testa. Tra l’ingresso della grotta e questa gente con i vari oggetti, c’è un fuoco che proietta le loro ombre sulla parete di fondo, l’unica che i prigionieri possono vedere. Non avendo, da sempre, visto null’altro, le persone incatenate nella grotta pensano che quelle ombre siano l’unica realtà, che non esista altro. Tanto che se qualcuno riesce a liberarsi e a uscire all’aperto e torna poi indietro, tentando di dire ai prigionieri come stanno veramente le cose, essi lo metteranno a morte, pensando che per la troppa luce gli ha dato di volta al cervello. (Quello che fecero, di fatto, gli Ateniesi con Socrate!).
Questa, dice Platone, è la condizione di noi uomini nel mondo. Il mondo è tutto una caverna. Le cose che crediamo vere e reali, non sono che ombre di realtà che si trovano lassù, in cielo. Sono imitazioni di realtà celesti. Bisogna sciogliersi dal corpo che ci incatena alla materia e alle illusioni, “uscire dalla caverna”, per conoscere la vera realtà. Platone aveva dunque già capito che il cielo, in quanto patria definitiva dell’uomo, non è quello fisico, posto in qualche remota parte del cosmo. È un cielo qualitativamente diverso, situato fuori dello spazio e del tempo. Lui lo chiamava “mondo delle idee”, o iperuranio.
Il nostro grande pittore Raffaello ha magistralmente sintetizzato il pensiero di Platone nel famoso quadro detto “La scuola di Atene”. In esso vediamo i due massimi filosofi antichi, Platone e Aristotele, rappresentati in atteggiamenti opposti. Aristotele, con la mano rivolta in giù, dice che la realtà è sulla terra e che la nostra conoscenza deve partire dalle cose che si vedono e si toccano; Platone con il dito rivolto in su ricorda che la realtà è in alto, in cielo.
Oggi siamo tutti, chi più chi meno, “aristotelici”, tutti con lo sguardo e l’attenzione rivolti alla terra. Ci servirebbe a tutti un pizzico di platonismo. Se il tanto vilipeso “amore platonico” significa un amore più spirituale, più poetico e ideale, allora, anche in amore, sarebbe utile diventare tutti un po’ più platonici, visto che oggi il pericolo maggiore è quello di banalizzare l’amore, riducendolo solo alla sfera fisica dei sensi.
Ci sono frasi della Scrittura che sembrano ricalcate sul modulo platonico di vedere le cose, illustrato dal mito della caverna. Quel personaggio del quadro di Raffaello con il dito puntato verso il cielo, potrebbe benissimo essere san Paolo quando dice:
“Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Colossesi 3, 1-2).
Allora, la fede cristiana non sarebbe che una forma aggiornata di platonismo? Niente di nuovo sarebbe successo con la venuta di Cristo? No, c’è una differenza sostanziale; il cielo dei cristiani non è lo stesso di Platone. I cristiani non ragionano più con lo schema spaziale quaggiù / lassù, oppure in basso / in alto, ma con lo schema temporale presente / futuro. Quando parliamo di cielo, noi non intendiamo uno spazio che sta sopra di noi, ma un evento che sta davanti a noi, verso il quale siamo incamminati. E questo evento è il ritorno glorioso del Signore, la parusia, i “cieli nuovi e la terra nuova”. Dopo aver detto agli apostoli: “perché state a guardare il cielo?”, i due angeli dicono loro in che direzione devono, invece, guardare, e cioè verso il ritorno del Signore:
“Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
San Paolo dice la stessa cosa:
“La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo” (Filippesi 3, 20).
“Non abbiamo quaggiù una cittadinanza stabile”, dice la Scrittura, e a questo punto ci aspetteremmo che il testo prosegua dicendo: “ma cerchiamo quella di lassù”; invece è scritto: “ma cerchiamo quella futura” (Ebrei 13, 14).
Qualcuno dirà: ma questo che differenza fa? Fa una enorme differenza! Agli occhi di Platone, questo mondo perdeva ogni valore. Il mondo era per lui una caverna, cioè una prigione; giocando sull’affinità delle due parole in greco, egli diceva che il corpo (soma) è una tomba (sema). Fuggire, evadere dal mondo diventa, in questo caso, la parola d’ordine. Non c’è salvezza della carne e del mondo, ma solo dalla carne e dal mondo.
Per i cristiani no. Il cristiano non è un dualista come Platone. Il corpo non è un semplice “veicolo” o “contenitore” da lasciare quaggiù. Esso è destinato a partecipare, con l’anima, alla gloria. La risurrezione di Cristo e la sua ascensione al cielo nel suo vero corpo, stanno a indicare proprio questo. Noi vogliamo essere felici “in questa nostra carne”, non senza di essa, e così – ci assicura la fede – sarà. L’incontro con il Signore che viene, o “andare a stare con il Signore” (Filippesi 1, 23): ecco cos’è il “cielo” per noi cristiani.
Di più: se questo mondo è di Dio, creato da lui e in attesa, anch’esso, della piena redenzione (cfr. Romani 8, 19), allora non solo non possiamo disinteressarci della sua sorte, ma dobbiamo contribuire alla sua conservazione e al suo miglioramento. Lungi dal distoglierci dal compito di migliorare le condizioni di vita in questo mondo, la fede nel ritorno di Cristo e in una vita futura diventa uno stimolo formidabile che non lascia nessuno tranquillo nella sua pigrizia. Il tempo ci è dato per “operare del bene a tutti”, diceva san Paolo (cfr. Galati 6, 10). Altro dunque che “sprecare in cielo i tesori destinati alla terra”!
Se il cielo è per noi “il Signore che viene”, allora dobbiamo essere sempre vigilanti, perché egli viene già ora a noi nell’Eucaristia, viene nel povero, nel bisognoso, nel sofferente. Prima che noi andiamo al cielo, è il cielo che viene verso di noi.
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Questo è un commento del 2018.