No alla presunzione di sé e al disprezzo per gli altri
Il vaccino contro il fariseismo arrogante è non farsi un’idea troppo alta di sé stessi.
Quella del fariseo e del pubblicano è una delle parabole evangeliche più citate, a proposito e a sproposito. Può accadere così che il pubblicano, “giustificato” per essersi dichiarato peccatore, essendosela cavata con così poco, diventi un incoraggiamento ai cristiani della serie: “tanto dopo mi vado a confessare”. I “pubblicani” erano considerati “peccatori” non perché fossero necessariamente tutti disonesti e sfruttatori – cosa che sicuramente accadeva a tanti – ma perché collaboravano con i romani, pagani e oppressori. Perciò anche se fossero state bravissime persone – come il centurione che aveva fatto costruire la sinagoga di Cafarnao (Lc 7,5) – erano sempre peccatori, non potendo rispettare la Legge di Mosè. L’uomo della parabola, quindi, riconosce umilmente la sua impossibilità a osservare la Legge, senza accampare scuse e senza giudicare l’altro che invece lo disprezza.
Per la comprensione del brano, e per farne tesoro spiritualmente, è necessario essere attenti ai destinatari per i quali Gesù la proclama. C’è un indirizzo preciso: «Alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri». Ciò rendeva la parabola concreta ed efficacissima “in quel tempo”, quando Gesù la pronunciava, e la fa essere altrettanto efficace e concretissima oggi, in quanto ci indica la pista per la comprensione: individuare chi sono – se ci sono – quelli con l’intima presunzione di essere giusti, e coloro che disprezzano gli altri. Senza questa attenzione la parabola potrebbe perdere attualità ed efficacia, rischiando di diventare una predica o catechismo astratto e moralistico.
Esistono oggi alcuni che hanno l’intima presunzione di essere giusti e disprezzano gli altri?
Magari fossero alcuni! Sembra che tutti stiamo diventando così, sia perché la presunzione di essere più degli altri è per chi crede in Dio il peccato originale, o per chi in Dio non crede un istinto, come nutrirsi, difendersi e riprodursi; sia perché l’evoluzione della società, oltre ai tantissimi benefici, ha messo a disposizione di questo “istinto” mezzi straordinari per ingigantirsi. La scolarizzazione generalizzata e obbligatoria ha fatto sì che in vari campi della conoscenza (vedi internet) i figli sappiano più cose dei genitori e dei nonni, indebolendo la differenza tra “maestri e discepoli”, una diversità di ruoli che nei social network scompare, perché “uno vale uno” e tutti sono maestri, scienziati, esperti. I malati dicono al medico quali medicine ordinare; gli alunni trovano sul web ciò che gli insegnanti spiegano; i credenti sanno della Bibbia, della Chiesa e del Vaticano ciò che leggono su Facebook. La conseguenza è che tutti crediamo di sapere tutto, o comunque più degli altri. Così, non avendo niente da imparare dagli altri, non ci si ascolta: si litiga, si urla, ci si offende – vedi i talkshow e le trasmissioni politiche – con un linguaggio violento e volgare, per avere più like (mi piace), più follower (simpatizzanti), più audience. Fuori dai media la situazione è la stessa, tanto che non si sa se la presunzione e il disprezzo per gli altri arrivi dalla tivù alla vita, o viceversa.
La parabola di Gesù è soprattutto per noi cristiani, tra i quali, pur conoscendo le parole di Gesù «ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8-10) non mancano quelli che ne sanno più del Papa; e non scarseggiano nemmeno quelli che “disprezzano gli altri” perché che non la pensano come loro su papa Francesco o sui migranti, pur sapendo che il giudizio non spetta a noi, perché l’unico giudice che conosce il cuore e nel quale “non c’è preferenza di persone” è il Signore.
Quasi quasi viene da pensare che da questa parabola abbiamo preso soltanto l’abitudine a sistemarci nelle ultime panche delle chiese durante le celebrazioni. La strada per essere “giustificati” è un’altra. Ce la indica san Paolo: «Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,3;16 – traduzione del 1974).
Fonte: Paoline