Gesù rivolge ai discepoli il suo discorso programmatico in un luogo pianeggiante (cf. Lc 6,20-49): pronuncia lì “anche una parabola” (v. 39) con la quale precisa per i suoi seguaci le modalità secondo cui si devono comportare l’uno con l’altro.
Senza dubbio, i discepoli hanno ricevuto un appello e un’istruzione dal Maestro, sono stati gratuitamente associati da Gesù al progetto di suo Padre per l’umanità: non per questo però possono ergersi a guide per gli altri. Un tale atteggiamento da parte loro significherebbe usurpare un potere che non spetta loro. Perché in realtà non ci vedono, afferma “colui che ha gli occhi fiammeggianti” (Ap 2,18): come potrebbero pretendere di guidare altri? Certo, “è stato dato loro il mistero del regno di Dio”, tuttavia rimangono di quelli che “guardano, sì, ma non vedono” (cf. Mc 4,11-12)… Infatti, come è facile, con la bibbia in mano, pretendere di sapere, e cercare di istruire altri: ma non si fa altro allora che dimostrarsi guide cieche! Il discepolo non può avanzare nessuna pretesa: se impara dalla parola del Signore, questa istruzione vale per lui, perché la metta in pratica nella sua persona, ma non gli viene elargita perché si metta ad ammaestrare altri. Infatti, tutti sono discepoli dell’unico Maestro.
Perché Gesù descrive i suoi discepoli come ciechi? Cos’è che non vedono, nonostante la loro conoscenza e magari la loro frequentazione assidua delle sue parole? Avevano visto e riconosciuto in Gesù il Messia (cf. Gv 1,41); all’appello “Venite e vedete”, “andarono e videro dove egli dimorava” (Gv 1,39). Gesù stesso dichiarerà loro: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete” (Lc 10,23). Come mai allora si rimane ciechi nella sequela?
Il seguito del testo lo spiega: la cecità sta nel giudicare gli altri e nel non volersi interrogare su se stessi. È la trave nel proprio occhio che provoca il nostro non vedere. È l’incapacità di pentirsi, il non prendere in considerazione la propria colpa, che ci impedisce di scorgere oggettivamente la realtà, e dunque di condurre altri. Il giudizio benevolo che portiamo su noi stessi ci acceca, e si traduce in durezza di giudizio sugli altri (che pretendiamo così di guidare). L’autogiustificazione – che è incapacità di riconoscere in Gesù colui che perdona con il suo sguardo di amore e con la sua parola di misericordia – rende le persone disumane: ritenendosi giuste, portano un falso giudizio sugli altri. Anche ai discepoli si addicono le parole del Gesù giovanneo: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41)…
Sì, i discepoli devono imparare che hanno da cambiare innanzitutto loro stessi per vederci chiaro e pensare di guidare altri al cambiamento. Nel loro servizio, nel loro ministero nei confronti degli altri, l’ostacolo più grande non è dunque costituito da questi ultimi, ma risiede in loro stessi. E questo, finché non si sarà prodotto in loro il cambiamento decisivo dello sguardo sulla loro stessa persona.
Essere “ben preparato” (v. 40) significa diventare come il Maestro, rinunciare come lui a ergersi a giudice degli altri: “Io non giudico nessuno” (Gv 8,15).
Fratel Matthias della comunità monastica di Bose
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
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