Commento al Vangelo del 15 febbraio 2015 – Paolo Curtaz

Sesta domenica durante l’anno

Lv 13, 1-2,44-46/ 1Cor 10,31-11,1/ Mc 1,40-45

Purificati

Ci sono delle esperienze o delle situazioni che ci isolano dagli altri, che ci fanno piombare in un non richiesto gruppo speciale, condannato ad essere marginalizzato. Come quando perdiamo una persona cara, come quando il dolore fisico irrompe nella nostra vita, come quando un fallimento affettivo resetta la nostra vita.

Allora ci sentiamo estranei alla vita e la gente ci sfugge.

Di cosa parlare? Con chi? Chi vuole accanto a sé qualcuno che è stato azzannato dal demone della sofferenza?

In quel caso, a volte, ci si avvicina a Dio. Solo a volte: più spesso nel dolore e nella solitudine la fede la si perde, altro che storie.

Il lebbroso di oggi ne sa qualcosa.

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Lebbroso! Lebbroso!

È una malattia della povertà, la lebbra. Devastante, inarrestabile, immonda, che ti consuma facendoti marcire. Anche Israele, come tutte le civiltà del passato, aveva capito bene la gravità della malattia e del contagio e imposto ai lebbrosi di stare alla larga dai centri abitati, di gridare la propria condizione in caso di incontro con un’altra persona.

Una malattia appesantita dal senso di colpa che tutti riversavano sull’ammalato. La lebbra era la più terribile delle punizioni di Dio. Nessuna pietà per i lebbrosi, nessuna pena, solo fastidio e paura nei loro confronti.

Una malattia che isola, un cancro dell’anima.

Il breve racconto di oggi è un gioiello di sfumature.

Il lebbroso ha fiducia in Gesù, si avvicina a lui con confidenza, con cautela, con umiltà. È l’unico caso, nel vangelo di Marco in cui un ammalato si presenta da solo.

E non chiede la guarigione, ma la purificazione.

In lui è più forte il desiderio del riscatto sociale che del tornare sano. Così per noi: ciò che uccide è la solitudine, non il male fisico. Gesù ha compassione, diversamente da tutti gli altri.

Sente il patire del lebbroso. E lo tocca.

Il nostro Dio

I devoti del tempo (e di oggi) dividevano la realtà in due categorie: nella luce e nella purezza c’era Dio e tutti i bravi ragazzi, far cui loro, ovviamente. Dall’altra parte la tenebra, l’impurità e tutti gli altri.

Che Dio tocchi un lebbroso è fuori da ogni immaginazione. Una provocazione infinita.

Eppure è questa la grande novità, la conversione da accogliere, la follia già espressa nel battesimo, quando il Figlio si è messo in fila con i peccatori.

Dio si sporca le mani. E non è mai il buio che entra in una stanza, ma la luce che esce dalla finestra a rischiarare la notte. E così accade: il puro contagia l’impuro e lo guarisce.

Da ogni male, da ogni solitudine, da ogni peccato, da ogni impurità siamo guariti.

Ma.

Fastidio

Il tono cambia improvvisamente.

Gesù sembra essere un’altra persona: si scalda, ammonisce e intima, è evidentemente infastidito. Deve tacere, il lebbroso, star zitto, andarsene, farsi visitare dai sacerdoti per essere riammesso nella comunità, come previsto dalla Legge che Gesù non ignora né snobba.

Ma il lebbroso disubbidisce, esagera, sbraca. Al punto che Gesù non può più entrare in una città.

Dalla compassione alla rabbia, che cosa è successo?

Guru

Gesù chiede al lebbroso guarito il silenzio.

Non vuole passare come un guaritore, come un santone, come un guru.

Come può invitare la gente ad ascoltare la sua Parola e la novità del Regno se la folla lo cerca solo per risolvere i proprio problemi? Come potrà gestire la folla che chiede a Dio guarigione e non certo conversione? Come potrà far capire alle persone il senso profondo della vita se questi pensano già di conoscerlo e chiedono a Dio, eventualmente, di adeguarsi?

Allora come oggi è questo il dilemma che attanaglia Dio: provare compassione, certo, e intervenire, ma senza diventare il Dio fantoccio che portiamo nel cuore, il Dio a nostro servizio.

Testimoni

Leggendo questa pagina, mi è venuto in mente padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un’isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all’inumanità della malattia.

Padre Damiano morì a Molokai, facendo rinascere la dignità dei lebbrosi, dando loro fede, speranza, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo.

Costretto a confessarsi urlando i propri peccati ad un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.

Sulle pagine della stampa internazionale, dopo la sua morte, finirà un osceno articolo di un polemista inglese, che insinuava l’idea che la lebbra padre Damiano l’avesse contratta con rapporti sessuali, facendo diventare un truce personaggio il santo dei lebbrosi.

Letto l’articolo, dal suo letto di malattia (aveva la tubercolosi), il grande scrittore Stevenson, di fede anglicana, (L’isola del tesoro, Dottor Jekill e mister Hyde) inviò una lettera aperta a tutti i quotidiani inglesi dicendo che chi oltraggiava la memoria di padre Damiano “era rimasto immerso ingloriosamente nel suo benessere, seduto nella sua bella camera (…) mentre padre Damiano, coronato di glorie e di orrori, lavorava e marciva in quel porcile, sotto le scogliere di Kalawao”.

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