Commento al Vangelo del 14 Luglio 2019 – Figlie della Chiesa

I Padri della Chiesa hanno fatto una lettura allegorica di questa parabola: il ferito è Adamo, l’uomo e il Samaritano è Gesù Cristo. Questa lettura allegorica, che è tradizionale nei primi tempi della Chiesa, ha un suo significato bello, perché vuole dire: se tu vuoi capire la parabola, certamente devi confrontarti con il sacerdote, con il levita e con il samaritano, però innanzitutto prova a metterti nei panni del ferito. Perché se ti metti nei panni del ferito, capisci meglio. Se ti metti lì “mezzo morto tra la vita e la morte” e vedi la gente che ti passa accanto capisci subito quale sia l’atteggiamento giusto e corretto. E il mettersi lì è il rendersi conto che la nostra condizione umana è la condizione di chi è profondamente ferito e di cui Dio si è preso cura. Per cui collocandoti lì impari ad amare come Dio ti ha amato, a prenderti cura degli altri così come Cristo si è preso cura di te.

“Obbedirai alla voce del Signore, ti convertirai al Signore tuo Dio con tutto il cuore e tutta l’anima”: questa accorata esortazione di Mosè agli Israeliti nelle steppe di Moab della prima lettura sarebbe sufficiente da sé ad esprimere ciò che è avvenuto nel cuore del samaritano; egli non solo conosce la Legge, come il sacerdote del tempio, ma ne ha colto veramente il centro e mostra di osservarla fino in fondo. Già Mosè dice che il comandamento di Dio non è parola lontana o estranea; ma in Gesù esso addirittura si fa storia; nella parabola del buon samaritano Gesù narra se stesso, narra quella storia che si fa visibile in lui nella sua carità per l’uomo.

v.25: Il dottore della legge è un esperto di Torà e di questioni teologiche. Gesù però mostra apprezzamento nei suoi confronti, e questo è importante. Vuole mettere alla prova Gesù, perché ha i suoi dubbi, le sue ritrosie; pone a Gesù la domanda che si chiede ogni uomo religioso: cosa fare per ereditare la vita eterna, quale comportamento da tenere per avere in regalo da Dio la comunione definitiva con Lui. Il suo problema è ereditare la vita, entrare nella vita. Ereditare è il verbo che normalmente viene usato per parlare del rapporto con la terra promessa, la terra nella quale si entra. Come entrare nella terra è un tema biblico di fondamentale importanza. Il dottore della legge chiede: come posso io entrare nella vita, come si entra nel Regno? Come posso io mettermi in cammino su questa strada che è quella che tu stai percorrendo? Ma io, come entro? Come eredito la vita?

v.26: Gesù stimola il dottore della legge a riandare alle conoscenze che gli appartengono e lo contraddistinguono; lo rimanda alla legge. Essa contiene gli elementi sufficienti per poter sciogliere ogni dubbio. Lo scriba risponde dunque: amore di Dio e amore del prossimo. La saldatura dei due passi biblici (Dt 6,5 e Lv 19,18) è solida: ora formano un solo comandamento, la cui osservanza assicura la vita eterna. Il problema, qui, non è tanto nell’enunciato, che è noto, non si discute, è chiaro: lo sanno i maestri e lo sanno i discepoli. Il problema non riguarda l’enunciato, che è conosciuto, appunto, ma lo starci dentro.

v.29: In greco è usata una parola che vuol dire vicino; vicino può essere un avverbio; con davanti un articolo diventa un sostantivo: il vicino, il prossimo. Se non ha l’articolo può diventare preposizione, per esempio: vicino ad uno, vicino a. Il dottore della legge dice: “chi è vicino a me”? Qual è il senso di questa domanda? È come se dicesse: “È vero che bisogna amare Dio e il prossimo; io sono disposto a tutto; ho capito, lo so, lo insegno da tanto tempo, questo è il mio mestiere, la mia professione, la mia specialità: amare Dio e amare il prossimo. Ma, a me chi è vicino? A me chi pensa? Di me chi si prende cura? Chi mi sta dietro”? È questo il problema; la parabola, infatti, va proprio in questa direzione: chi si è avvicinato? Chi è vicino a me?

v.30: La parabola parte da un uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico; Gesù, intanto, sta andando verso Gerusalemme. Questo uomo sta andando nella direzione opposta; è un uomo che ha sbagliato strada. Gesù sta andando verso Gerusalemme e l’uomo sta andando verso Gerico, in direzione opposta. Questo uomo è il dottore della legge – guarda, questo sei tu –; Gesù sta parlando di lui, sta rispondendo a lui. – Vedi, tu ti trovi in questa condizione, sei quel tale che ha sbagliato strada, ma non è per forza colpa tua: ci sono i briganti in giro per il mondo, e poi comunque è così, poi scivoli, poi ti ammali, ti trovi imbrigliato in situazioni insopportabili e non ti puoi più sollevare.

v.31: Il sacerdote, uomo del culto, è anche custode della Legge, e il levita è un aiutante nel culto. I due evitano il ferito; forse addirittura per obbedienza alla Legge: se infatti il ferito fosse già morto, toccarlo significherebbe cadere in una forma di impurità che la Legge ebraica vietava. Non giudichiamo troppo severamente il sacerdote, perché lui è un sacerdote e deve mantenere uno stato di purità, ha i suoi doveri, le sue responsabilità.

v.33: Qui è la svolta della parabola. Il Samaritano era in viaggio: questo è il viaggio nel senso forte del termine. Il salmo 84 dice: “..il santo viaggio. Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio”. È il viaggio della salita a Gerusalemme. E qui c’è un samaritano, unico, che va controcorrente, che sale. Il Samaritano rappresenta Gesù, è lui il viandante che sale a Gerusalemme. Il Samaritano gli si fece vicino. ‘Chi viene vicino a me?’ Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, olio, vino (i Padri della Chiesa dicono che sono i sacramenti) e poi lo carica sopra il giumento, lo porta ad una locanda, si prende cura di lui, poi il giorno seguente estrae i due denari e paga e dice all’albergatore “abbi cura di lui perché io devo andare a Gerusalemme, ho un affare e poi torno”. È l’itinerario che Gesù sta percorrendo: sale a Gerusalemme, ha da fare qualcosa a Gerusalemme: è la Pasqua del Signore; sale, muore, risorge, ascende al cielo, poi ritorna, ed intanto ha pagato il prezzo.

v.33: Un samaritano, uno di fede imperfetta, se non addirittura un nemico. Questi “avendolo visto, si commosse”. In greco, il verbo “si commosse” è il medesimo con cui si indica la commozione profonda di Gesù a Nain o quella del padre del figlio prodigo nel vedere il figlio tornare a casa. Ecco l’essenziale: chi soccorre il povero si è identificato con l’atteggiamento di Gesù e di Dio, ha capito chi è Dio.

v.34: Sono i gesti di compassione e di vicinanza del samaritano. Il provare profonda emozione, il chinarsi, il portare in braccio, il curare e fasciare le ferite ricordano alcuni indimenticabili passi di Osea sull’amore di Dio verso Israele. L’amore di Dio è il centro della legge, ma amarlo vuol dire lasciarsi plasmare da lui fino a far diventare la propria vita una trasparente immagine del chinarsi misericordioso di Dio sulle sue creature.

v.36: Gesù spinge il dottore della legge a partire da un preciso punto di osservazione: a partire dalla situazione dello sventurato. Il dottore della legge viene invitato a prendere posizione a sua volta, ma non dalla parte di chi può fare del bene, bensì di chi è nella sventura. Solo dopo potrà operare da prossimo. Solo così ci si introduce seriamente nel concetto di prossimità. Non si può definire il prossimo a partire da se stessi.

Appendice

Accade dunque che sulla stessa strada discendessero prima un sacerdote, poi un levita, che magari avevano fatto del bene ad altre persone, ma non lo fecero a costui che era disceso da Gerusalemme a Gerico. Il sacerdote, che secondo me raffigura la Legge, lo vede; e ugualmente lo vede il levita, il quale, io credo, rappresenta i profeti. Tutti e due lo vedono, ma passano oltre e lo abbandonano là. Ma la provvidenza riservava quest’uomo mezzo morto alle cure di colui che rea più forte della legge e dei profeti, cioè del Samaritano, il cui nome significa ‘Guardiano’. Questi è colui che non sonnecchia né dorme vegliando su Israele (Sal 121.4). È per soccorrere l’uomo mezzo morto che questo samaritano si è messo in cammino; egli non discende da Gerusalemme a Gerico, come il sacerdote e il levita, o piuttosto, se discende, discende per salvare il moribondo e vegliare su di lui. A lui i Giudei hanno detto: Tu sei un samaritano e un posseduto dal demonio (Gv 8.48); e Gesù, mentre ha negato di essere posseduto dal demonio, non ha voluto negare di essere samaritano, in quanto sapeva di essere buon ‘guardiano (Origene, Comm. a Luca 34.5).

Dunque questo samaritano discende- e chi è che discende dal cielo se non colui che è salito al cielo, il Figlio dell’Uomo che è nel cielo (Gv 3.13)?- e vedendo quell’uomo mezzo morto che nessuno sino allora aveva potuto guarire… si avvicinò a lui; cioè, accettando di soffrire come noi, si è fatto nostro prossimo, ed esercitando la sua misericordia, ci si è fatto vicino. (…) Poiché dunque nessuno ci è più prossimo di colui che ha guarito le nostre ferite, amiamolo come Signore, e amiamolo anche come prossimo: niente infatti è così prossimo come il capo alle membra. Amiamo anche colui che è imitatore di Cristo: amiamo colui che soffre per la povertà altrui, a motivo dell’unità del corpo. Non è la parentela che ci fa l’un l’altro prossimi, ma la misericordia, poiché la misericordia è conforme alla natura: non c’è niente infatti di più conforme alla natura che aiutare chi con noi partecipa della stessa natura (Ambrogio, Comm. a Luca 7.74, 84).

Stranamente, la domanda iniziale: ’Chi è il mio prossimo? ’ È stata capovolta; e alla fine la domanda diventa: ’Chi è diventato prossimo del ferito? Chi si è comportato come un prossimo per il ferito? ’ Ed è significativo questo spostamento; perché vuol dire: il problema non è che tu divida la gente in vicina e lontana, in un prossimo che tu devi amare ed aiutare e tutta una serie di gente lontana che tu puoi anche non amare e non aiutare. Invece l’essenziale, se vuoi fare la volontà di Dio, è che devi diventare prossimo di chiunque ti capita davanti come un bisognoso. “Per caso” scendeva verso Gerico: cioè ti è capitato davanti; se quella è una persona bisognosa, il Signore ti chiede di fare un cammino verso di lei, e se tu sei di un’altra razza, perché sei un samaritano e quindi c’è tra te e quella persona un muro robusto da abbattere, il Signore ti chiede di diventare prossimo. Per il Vangelo non è tanto richiesto l’amore all’umanità, che è una cosa bella, importante, ma l’umanità non si incontra per la strada; mentre si incontrano gli uomini; e questi sono povera gente come me, con dei limiti, dei peccati, delle insufficienze: e sono questi che bisogna imparare ad amare. Secondo il vangelo l’amore non è semplicemente un sentimento di simpatia: non si ama la nobiltà dell’uomo, ma l’uomo così com’è, anche con le sue malvagità e debolezze. Il che non vuol dire che vadano bene le malvagità e le debolezze, ma che se uno è debole e malvagio, non per questo lo devo escludere dall’amore, al contrario. Amare è un prendere l’uomo così com’è; non è semplicemente un’inclinazione istintiva, una simpatia; amare è accettare la presenza dell’altro e vivere il rapporto con l’altro in modo oblativo, di dono; è sottomettere, quindi, la propria vita all’esistenza dell’altro (L. Monari, Vi annuncio una grande gioia pp. 73-4).

Oggi la liturgia ci propone la parabola detta del “buon samaritano”, tratta dal Vangelo di Luca (10,25-37). Essa, nel suo racconto semplice e stimolante, indica uno stile di vita, il cui baricentro non siamo noi stessi, ma gli altri, con le loro difficoltà, che incontriamo sul nostro cammino e che ci interpellano. Gli altri ci interpellano. E quando gli altri non ci interpellano, qualcosa lì non funziona; qualcosa in quel cuore non è cristiano. Gesù usa questa parabola nel dialogo con un dottore della legge, a proposito del duplice comandamento che permette di entrare nella vita eterna: amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come sé stessi (vv. 25-28). “Sì – replica quel dottore della legge – ma, dimmi, chi è il mio prossimo?” (v. 29). Anche noi possiamo porci questa domanda: chi è il mio prossimo? Chi devo amare come me stesso? I miei parenti? I miei amici? I miei connazionali? Quelli della mia stessa religione?… Chi è il mio prossimo?

E Gesù risponde con questa parabola. Un uomo, lungo la strada da Gerusalemme a Gerico, è stato assalito dai briganti, malmenato e abbandonato. Per quella strada passano prima un sacerdote e poi un levita, i quali, pur vedendo l’uomo ferito, non si fermano e tirano dritto (vv. 31-32). Passa poi un samaritano, cioè un abitante della Samaria, e come tale disprezzato dai giudei perché non osservante della vera religione; e invece lui, proprio lui, quando vide quel povero sventurato, «ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite […], lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (vv. 33-34); e il giorno dopo lo affidò alle cure dell’albergatore, pagò per lui e disse che avrebbe pagato anche tutto il resto (cfr v. 35).

A questo punto Gesù si rivolge al dottore della legge e gli chiede: «Chi di questi tre – il sacerdote, il levita, il samaritano – ti sembra sia stato il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». E quello naturalmente – perché era intelligente – risponde: «Chi ha avuto compassione di lui» (vv. 36-37). In questo modo Gesù ha ribaltato completamente la prospettiva iniziale del dottore della legge – e anche la nostra! –: non devo catalogare gli altri per decidere chi è il mio prossimo e chi non lo è. Dipende da me essere o non essere prossimo – la decisione è mia -, dipende da me essere o non essere prossimo della persona che incontro e che ha bisogno di aiuto, anche se estranea o magari ostile. E Gesù conclude: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Bella lezione! E lo ripete a ciascuno di noi: «Va’ e anche tu fa’ così», fatti prossimo del fratello e della sorella che vedi in difficoltà. “Va’ e anche tu fa’ così”. Fare opere buone, non solo dire parole che vanno al vento. Mi viene in mente quella canzone: “Parole, parole, parole”. No. Fare, fare. E mediante le opere buone che compiamo con amore e con gioia verso il prossimo, la nostra fede germoglia e porta frutto. Domandiamoci – ognuno di noi risponda nel proprio cuore – domandiamoci: la nostra fede è feconda? La nostra fede produce opere buone? Oppure è piuttosto sterile, e quindi più morta che viva? Mi faccio prossimo o semplicemente passo accanto? Sono di quelli che selezionano la gente secondo il proprio piacere? Queste domande è bene farcele e farcele spesso, perché alla fine saremo giudicati sulle opere di misericordia. Il Signore potrà dirci: Ma tu, ti ricordi quella volta sulla strada da Gerusalemme a Gerico? Quell’uomo mezzo morto ero io. Ti ricordi? Quel bambino affamato ero io. Ti ricordi? Quel migrante che tanti vogliono cacciare via ero io. Quei nonni soli, abbandonati nelle case di riposo, ero io. Quell’ammalato solo in ospedale, che nessuno va a trovare, ero io.

Ci aiuti la Vergine Maria a camminare sulla via dell’amore, amore generoso verso gli altri, la via del buon samaritano. Ci aiuti a vivere il comandamento principale che Cristo ci ha lasciato. E’ questa la strada per entrare nella vita eterna. (Papa Francesco, Angelus 10 luglio 2016)

Fonte: Figlie della Chiesa

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