Con la Domenica delle Palme si apre per la Chiesa la Settimana Santa. Sono giorni in cui la sposa accompagna lo Sposo nel suo rapimento doloroso dal mondo degli uomini, desiderosa di assimilare in profondità i movimenti del suo cuore. Movimenti di solidarietà redentrice, di amore costoso, di innocenza “sporcata” dagli sbagli feroci dei propri correligionari e degli uomini di tutti i tempi. Il re va a morire. Sale sul suo trono di gloria insanguinato, ma striato di risurrezione.
Il cuore dell’uomo è un abisso e nessuno può conoscerlo e men che meno guarirlo. La Chiesa ripercorre il film delle proprie infedeltà, dei cambiamenti improvvisi di campo per convenienza e ricerca di prestigio o di favori da parte dei potenti della terra. La Chiesa accompagna lo Sposo, riconosce le proprie colpe, ringrazia e loda la fedeltà del suo Signore. Chiede con umiltà di essere resa partecipe di quell’amore splendido che salva perché assume il peso degli altri e lo mette a contatto con il Riscattatore dei propri fratelli. La Chiesa chiede perdono, invoca conversione, si affida alla solidità indefettibile dell’amore di colui che non verrà mai meno al patto. Che lo lega agli uomini suoi fratelli.
Profeta discepolo
Quello che ancora per la maggior parte degli interpreti e dei fedeli cristiani è considerato il Terzo canto del Servo di YHWH (Is 50,4-9) si sta rivelando agli studiosi sempre più come il ritratto del profeta Isaia stesso. Questa era l’interpretazione della tradizione ebraica, così come riferisce Girolamo, e di quella cristiana (Girolamo, Tommaso d’Aquino). Non si parla di un profeta servo, ma ci si troverebbe di fronte al ritratto spirituale profondo del profeta Isaia stesso.
Egli si considera un discepolo, uno di coloro che hanno ricevuto e devono trasmettere la rivelazione profetica di Isaia (cf. Is 8,16). È uno dei “discepoli/limmudîm” che hanno ascoltato la voce di YHWH tramite il profeta e che ora si ritrovano con una lingua educata a trasmettere l’insegnano ricevuto, con un carisma di linguaggio adatto al loro compito.
Il discepolo che tramette la traduzione deuteroisaiana (Is 34–66) si ritrova nel cuore un messaggio di consolazione che viene a medicare e a guarire i duri proclami di denuncia e di condanna conservati nella prima parte del libro, che attesta la predicazione del Primo Isaia, il profeta storico dell’VIII secolo.
Per il Secondo Isaia (Is 34–66) è necessario e costante il rapporto tra le “cose prime” (Is 1–33) e le “cose ultime” (Is 34–66), tra l’annuncio del castigo e quello della consolazione. La gente è “stanca/affaticata” dalla pesantezza della vita precaria, dalle ingiustizie e dalle prevaricazioni sociali, dagli sbagli della politica, dai peccati contro YHWH e contro le persone. Ha bisogno di essere “sorretta” con una parola vera, che viene da fuori, da lontano, dall’“alto”. Una parola che viene da YHWH, colui che vuole il vero bene del suo popolo.
Il profeta-discepolo sente che ogni mattina il suo signore gli “risveglia/yā‘îr” una parola che rigenera alla vita e alla speranza. La risveglia coinvolgendo la riattivazione dell’organo dell’udito, l’orecchio, perché sia pronto a recepire con ascolto attento (lišmōa‘) la “risurrezione” quotidiana che lo aspetta e che attende di essere annunciata a tutto il popolo.
Il suo Signore gli fora l’orecchio come il padrone di casa faceva con lo schiavo che era giunto alla fine del suo servizio e che tuttavia voleva rimanere nella scasa per sempre (cf. Es 21,1-6). Il padrone gli forava il padiglione dell’orecchio con un colpo di lesena vibrato contro lo stipite della porta di casa. Allo stesso modo il Signore ha risvegliato l’orecchio del profeta, l’“ha aperto/pātaḥ” all’ascolto profondo, nitido, distinto. Il profeta non si è tirato indietro ma, con grande disponibilità, si offerto, è rimasto fermo nella sua decisione di servire (per sempre) YHWH e il popolo. Non si è “ribellato/mārāh” come Israele nel deserto (cf. Nm 20,24, Ez 20,8), ma ha coltivato obbedienza e disponibilità all’ascolto e all’annuncio.
Torturato
È costata cara al profeta la sua disponibilità a servire YHWH e il suo popolo. Il suo servizio ha incontrato il rifiuto, l’arresto, la tortura della flagellazione, la depilazione violenta del volto, l’irrisione sarcastica, il disprezzo e il dileggio oltraggioso e disumanizzante degli sputi e degli scherni. Il profeta ha prestato volontariamente tutta la sua carne al tormento degli uomini e questo sarà la chiave per il cambiamento del cuore dei suoi stessi avversari e torturatori, la bassa manovalanza insieme ai mandanti eccellenti trincerati dietro i loro palazzi e i loro sontuosi paludamenti.
La solidità del profeta nella sua testimonianza anche sotto tortura manifesta nella fermezza del suo proposito e dell’atteggiamento («come selce il mio volto») la forza che gli è data dal suo Signore YHWH. Sarà quella che farà da fondamento solido alla decisione di Gesù di dirigersi definitivamente verso Gerusalemme dopo il ministero svolto per vari mesi in Galilea (cf. Lc 9,51).
Il profeta sa che non “sarà confuso/niklāmetî”, perché la vergogna del tradimento o della riconosciuta colpevolezza non imporporerà mai il suo volto. Saranno tanti altri, una folla intera, a vergognarsi e a battersi il petto, tornando a casa dopo aver visto lo “spettacolo teatrale/theoria” dell’uccisione ignominiosa del profeta (cf. Lc 23,48).
Assistito in tribunale
Leggiamo ancora qualche versetto non proclamato nella liturgia (50,8-9), per seguire le peripezie giudiziarie del profeta, discepolo di YHWH perseguitato dagli uomini.
Dopo la tortura preventiva, tesa a umiliare e a spezzare la resistenza dell’imputato e a fornire materiale esemplare di deterrenza per coloro che volessero seguirne le orme, è arrivato il momento di andare in tribunale.
La solidità del cuore del profeta non è frutto di autoconvincimento o di sprezzo stoico del pericolo e del dolore. Nessun senso di superiorità sprezzante neanche nei confronti degli avversari stessi. In tribunale gli è vicino colui che lo “giustificherà/maṣdîqî”. Egli sarà capace cioè di dimostrare l’innocenza del profeta imputato e sarà lui stesso a dichiarare addirittura pubblicamente la sua non colpevolezza, sostituendosi in tal modo ai giudici umani.
Il suo avvocato difensore, il suo Paraclito, gli porrà la mano destra sulla spalla, fornendogli assistenza, coraggio, argomenti decisivi nella difesa. Ben superiore agli avvocati e ai giudici umani, il profeta sente che il suo avvocato è anche il giudice supremo, abilitato addirittura a proclamare la sentenza definitiva di innocenza. “Chi oserà intentare la causa giudiziaria/mi-rîb ’ittî”? Chi avrà l’ardire di citarmi in tribunale e comparire in assise (“stare in piedi insieme/na‘amdāh yāḥad”)? “Chi se la sentirà di presentarsi come parte lesa in giudizio contro di me/chi sarà il padrone del mio diritto/mî-ba‘al mišpāṭî”? Si faccia avanti, si presenti pubblicamente a faccia scoperta e non si nasconda più!
YHWH Dio “mi viene in aiuto/ya‘ăzor-lî” con il suo sostegno e il suo consiglio. Il profeta ne è convinto. “Chi riuscirà a dichiararmi colpevole/mî-hû’ yaršî‘ēnî”? Le presunte parti lese si presenteranno con le loro persone “tarlate” dal male, dalle accuse ingiuste. Persone “mangiate/yō’kelēm” dalla tignola della malizia delle loro idee e dei loro propositi. Divorate dalla loro opposizione per partito preso alla novità delle mie parole, smangiate dal fastidio che procuro con la mia stessa presenza che le destabilizza e le “denuda” davanti a tutti (cf. Sap 2,1-24, specialmente vv. 10-20).
La roccia del cuore
Il profeta disturba l’establishment con la sua parola fresca e vergine dell’aurora, “altra e diversa” perché arriva da un “altro mondo” rispetto a quello avvelenato dalle politiche umane spalleggiate dalle convenienze e dalle vigliaccherie delle autorità religiose conniventi.
Il percorso del profeta-discepolo è tortuoso, avversato e perseguitato con ferocia programmata, disumanizzante, “atea”.
La roccia del suo cuore però resta salda. «La roccia del mio cuore è Dio» (Sal 73,6; cf. 2Sam 22,2 e Sal 18,3; Sal 31,4; 62,3; 92,16; 95,1), una roccia eterna (Is 26,4; cf. Ab 1,12 «Tu l’hai reso forte, o Roccia, per punire»).
Deve esser compiuto in me ciò che è stato scritto
Nella Domenica delle Palme dell’anno liturgico C si proclama la lettura della Passione di Gesù secondo il Vangelo di luca (Lc 22,14–23,56).
Luca è il solo evangelista che riporta una parola esplicita di Gesù che interpreti in senso complessivo il dono costoso della propria vita al termine dei pochi anni di annuncio esplicito della buona notizia del Vangelo del regno di Dio che sta già contagiando di vita divina il mondo triste degli uomini.
Seduto a tavola per l’Ultima Cena (o in ogni caso – se fosse un martedì sera – una cena solenne di addio in un contesto pasquale ben chiaro), Gesù dà un’interpretazione personale, autorevole e decisiva, per comprendere l’insieme degli eventi che stanno per compiersi dolorosamente contro la sua persona.
Dice Lc 22,37 (letteralmente): «Perciò io vi dico: questo che è stato scritto deve essere compiuto in me, lo (scritto cioè) E “con gli empi/iniqui/senza legge/illegali/meta anomōn” fu annoverato. E infatti “ciò che mi riguarda fine ha/to peri emou telos echei”».
Nell’intimità dell’Ultima Cena, pronunciando le parole del suo testamento di vita, Gesù non fa mancare ai suoi una parola “divina” che li guidi nell’interpretare il telo buio che sta per calare sui suoi giorni passati sotto il sole, sul suo annuncio della buona notizia, sulla sua dolce compagnia con gli uomini. Per fare questo, Gesù non trova di meglio che ricorrere alle parole di Is 53,12b per interpretare alla luce della sacra Scrittura di Israele la propria persona e il suo esito “tragico”, almeno agli occhi degli uomini.
“È necessario/dei”, fa parte del pano della salvezza, che tutto ciò che è stato scritto deve essere portato a compimento/perfezione/telesthēnai (dal Padre! passivum divinum), attraverso la malvagità e l’opposizione omicida vissuta nei confronti del suo Figlio, Gesù. Il piano della salvezza è più grande dei piccoli progetti omicidi e vigliacchi degli uomini, anche di quelli “religiosi”.
La “necessità” salvifica espressa da Luca con il verbo impersonale “è necessario/occorre/dei” struttura tutto il suo vangelo e forma la spina dorsale del progetto di vita di Gesù espresso nel vangelo lucano, anche nelle parabole (cf. dei in Lc 2,49; 4,43; 9,22; 11,42; 12,12; 13,14.16.33; 15,32; 17,25; 18,1; 19,5; 21,9; 22,37.37; 24,7.26.44). Una scia impressionante di stelle che illuminano una strada altrimenti buia…
Annoverato tra gli empi
Il misterioso Servo di YHWH compare in Is 52,13–53,12, il famoso “Quarto Canto del Servo”, all’interno di un dialogo tra YHWH (52,13-14; 53,11-12), il popolo (53,2-10) e il servo stesso (53,1). Il popolo cambia idea, si avvia a conversione circa il giudizio espresso superficialmente sulla vita del servo. Apparentemente punito da YHWH per i suoi peccati, il popolo sta avvertendo che egli è innocente e sta donando la vita per loro, in rappresentanza di loro, per tutto il popolo errante come pecore disperse e solinghe.
L’innocenza, il dolore patito nel silenzio dignitoso e religioso a favore degli altri, la solidarietà a fondo perduto del servo stanno riportando all’alleanza con YHWH – stanno “giustificando” – i fratelli che lo hanno giudicato e consegnato senza processo ai torturatori e al boia.
YHWH proclama a tutti che il Servo ha spogliato se stesso fino alla morte, è stato annoverato tra gli empi, mentre egli portava i peccati di molti e intercedeva per i peccatori. Per questo YHWH gli darà in premio le moltitudini, dei potenti farà bottino. Con la sua sorte gloriosa, quando vedrà la luce, farà infatti bottino di tutte le persone che avevano sbagliato giudizio e comportamento nei suoi confronti ed erano lontane da YHWH. Le porterà tutte con sé nella sua sorte gloriosa. Farà loro avere la vita ricca di Dio ricevuta in premio per la propria fedeltà al suo ministero profetico, osteggiato, mal compreso e avversato fino al suo tragico esito.
Per noi
Gesù interpreta la sua vita e la sua fine dolorosa (in cui intravede però anche la vittoria) alla luce di Is 52,13–53,12). Questo brano della Scrittura sarà stato senz’altro anche parte della lezione di esegesi impartita ai due discepoli sulla strada che portava a Emmaus (Lc 24,13-35, specialmente vv. 25-27) e ai discepoli riuniti nel Cenacolo (Lc 24,44-49).
L’evangelista Luca ha sentito con forza la valenza soteriologica, salvifica, della morte (e risurrezione) di Gesù. Non l’ha espressa però con il linguaggio sacrificale o con quello del “riscatto” presente in Marco (Mc 10,45), ma con il linguaggio della solidarietà redentrice con i senza legge, i peccatori, gli “illegali”, i lontani da Dio, i “morti che camminano”, con i quali Gesù ha voluto essere compagno lungo tutta la sua vita pubblica. Si pensi al lebbroso purificato (Lc 5,12-16), alla donna “peccatrice pubblica” incontrata e perdonata nella casa di Simone il fariseo (7,36-50), all’indemoniato geraseno (8,26-39), l’emorroissa e la figlia di Giàiro (8,40-56), gli “eretici” e odiati samaritani difesi anche se non accoglienti (9,51-57), le splendide parabole di Lc 15 raccontate per difendere e illustrare la sua prassi (e quella del Padre) nei confronti dei peccatori (cf. i vv. 1-3). In cambio di tutto ciò, dai religiosi potenti Gesù ricevette per lo più giudizi sprezzanti e condanne inappellabili.
La lettura della Passione di Gesù riferita dall’evangelista Luca è pienamente in linea con l’atteggiamento di amore compassionevole e misericordioso vissuto da Gesù in tutta la sua vita. Nei giorni passati in compagnia degli uomini, Gesù è sempre stato mosso da un amore che muove le viscere per com-passione verso gli uomini smarriti come pecore disperse sui monti. La solidarietà con il cammino difficile degli uomini, intriso di fragilità, difficoltà della vita, violenze e ingiustizie, peccati e sbagli personali, è stata la cifra che ha contraddistinto il cuore di Gesù. Un amore solidale che, quale plenipotenziario di Dio e ambasciatore del Regno che già morde la storia, Gesù ha manifestato soprattutto, in maniera “scandalosa”, nell’accoglienza dei peccatori e nel perdono assicurato loro a nome proprio (in nome del Padre).
Perdona!
Il percorso finale della storia di Gesù raccontata dall’evangelista Luca segue pressappoco quella degli altri evangelisti. Alcune omissioni e “tesori propri/Sondergut” lucani rivelano però il taglio proprio dell’evangelista Luca, lo scriba mansuetudinis Christi. Egli rispetterà sempre la dignità di Gesù, omettendo le ingiuriose torture e dileggi inflitti a lui dalle guardie prima della crocifissione (cf. invece Mt 27,27-31//Mc 15,16-20), mentre non mancherà di ricordare le sue parole di perdono per il popolo (cf. Lc 23,34) e la promessa di “paradiso” offerta a uno dei due “malfattori/kakourgous” (cf. Lc 23,32.33.39) crocifissi con lui (Lc 23,39-43). Più aspro, ma vero, il termine “ladroni/terroristi/lēistai” usato da Mt 27,38//Mc15,27.
Lo scopo della passione redentrice di Gesù è per l’evangelista Luca la “compagnia”, l’assunzione solidale e “senza vergogna” (da innocente!) della vita e del destino dei senza-legge (anomoi < a- nomos) da parte di Gesù. Non è la complicità nel male (in cui non c’è solidarietà e comunione, ma solo divisione), ma l’assunzione solidale del peso delle conseguenze del male in vista di ottenere loro il perdono da parte del Padre per la loro condotta insipiente e “ignorante” del vero bene («Padre, perdona loro, non sanno infatti che cosa fanno», Lc 23,34).
Secondo la sola testimonianza lucana, Gesù sulla croce invoca il perdono del Padre sugli uomini che lo stanno uccidendo, dopo averlo respinto e osteggiato per tutta la vita (cf. Lc 23,34). Desidera donare loro una seconda possibilità, la possibilità di ricredersi, di cambiare opinione e cuore. “Non identificare il peccato che stanno compiendo ora – dice Gesù al Padre e a noi tutti – con l’insieme della loro persona e della loro vita”. Le persone sono sempre più grandi degli errori, anche tragici, commessi più o meno consapevolmente. La Passione di Gesù ha come scopo una grande intercessione di perdono per tutta l’umanità. Gesù chiede al Padre il dono del per-dono. Il dono della vita sulla morte, della misericordia sulla giustizia inappellabile contro i colpevoli passati in giudicato.
Abbiamo bisogno del perdono e della misericordia per vivere. Non si può stare sulla terra senza la misericordia offerta dalle persone sulla tua vita, l’apertura di credito preventiva nei tuoi confronti, perché tu possa vivere, sbagliare, rimetterti in carreggiata.
Paradiso
Gesù non invoca solamente dal Padre il perdono degli uomini, ma lo offre generosamente al “malfattore/kakourgos” onesto che riconosce di aver agito colpevolmente rispetto alle leggi umane (e divine), pur forse con intenti di liberazione dall’oppressione straniera romana (cf. Lc 23,39-43). Solo l’evangelista Luca ricorda questo fatto particolare durante l’agonia di Gesù in croce (Lc 23,39-43).
Il malfattore “buono” riconosce di star ricevendo “giustamente/dikaiōs” una pena congrua, “correlativa/axia” alle colpe commesse. Costata che Gesù, invece, non ha fatto nulla di “fuori posto/atopon”.
Una costatazione umana corretta, onesta, minimale ma veritiera. Forse attendendo l’esecuzione capitale in carcere, il “malfattore” avrà sentito parlare dell’uomo Gesù e delle sue “pretese” messianiche unite ad una grande bontà verso malati, poveri e peccatori. Gesù era venuto a evangelizzare i poveri. Ora un “povero”, onesto e corretto, evangelizza, rilancia la buona notizia, la buona notizia che Gesù ha un regno. Si appella alla sua misericordia, al suo “ricordo”. È l’affidamento dei poveri, che si affidano al buon cuore di una persona importante che hanno avuto la fortuna di incontrare. Non hanno pezze di appoggio da presentare o meriti particolari da avanzare.
Il “malfattore” non chiede nulla di preciso esplicitamente, ma solo un “ricordo” benevolo nei suoi confronti da parte di uno che intuisce essere una persona “importante”, capace sicuramente di bucare il velo nero della morte ed entrare nel regno d’amore e di compassione misericordiosa che ha sempre proclamato in vita. Professione di fede e richiesta “minimale”, fatta con un soffio di voce.
Gesù esaudisce la supplica del “malfattore buono”. Gli promette solennemente (amēn soi legō): «Oggi con me sarai nel paradiso/sēmeron met’emou esēi en tōi paradeisōi». Subito, nell’“oggi/sēmeron” della salvezza portata da Gesù che punteggia tutto il Vangelo di Luca (2,11; 4,21; 5,26; 12,28; 13,32.33; 19,5.9; 22,34.61; 24,43), il “malfattore” sarà con Gesù, in sua compagnia. Condividerà la sua vita, la gioia della sua presenza, la comunione con la sua persona di Figlio di Dio. Per questo solo fatto gusterà la vita del paradiso.
Sarà questo il paradiso sognato dai poveri, la vita del giardino particolare del Grande Re, il giardino non dei grandi imperatori mesopotamici, ma dell’uomo uscito dalle mani di Dio (cf. paradeisos in GenLXX 2,8.9.1015.16). Ora “l’ultimo paradiso” profuma dell’aroma dell’umanità e del mondo intero riconciliati con la vita di Dio. Umanità nuova, che vive la vita dei figli di Dio amati, accolti, perdonati, fatti risorgere.
Il “malfattore buono” è il primo frutto della “redenzione” portata da Gesù. La redenzione costituita dalla “compagnia” misericordiosa con i senza legge che costituiva lo scopo ultimo della volontà che guidava Gesù nei suoi giorni (cf. Lc 22,37).
Ti affido il mio spirito
Tra le “sette parole di Gesù in croce”, un’altra parola riportata solo da Luca ricorda il soffio dell’ultimo istante della sua vita: «Padre, nelle tue mani consegno/affondo il mio spirito/Pater, eis cheiras sou paratithemai ti pneuma mou».
Gesù muore pregando, come fa anche secondo il resoconto degli altri evangelisti. Prega con una supplica meno drammatica di quella ricordata da Matteo e da Marco, pur intrisa di fiducia del salmista nell’esito di salvezza: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (cf. Mt 27,46; Mc 15,34; cf. Sal 22,2). Anche nel Vangelo di Luca la preghiera sulle labbra di Gesù è quella di un salmista, riportata dal Sal 31,5.
Si tratta della preghiera di un uomo in difficoltà, messo alla prova, osteggiato e rifiutato dagli uomini, perseguitato e ostracizzato dalla società, ma pieno di fiducia in Dio che ringrazia (anticipatamente?) per aver fatto mettere i suoi piedi in un luogo spazioso di salvezza (31,9), senza consegnarlo definitivamente in mano dei suoi nemici.
La preghiera del povero perseguitato, ma che fiducioso già ringrazia YHWH della salvezza gustata, sale alle labbra di Gesù. Lo continuerà a fare ogni giorno nella preghera serale del tempo dei rabbini, e in quella della Liturgia di Compieta della Chiesa cristiana, preghiera ufficiale della Chiesa innalzata soprattutto da parte dei consacrati al Signore.
Gesù riconsegna con fiducia immensa lo spirito vitale ricevuto in dono per poter condividere la vita degli uomini suoi fratelli. Affida al Donatore il grande dono ricevuto come uomo, il soffio vitale che sale dal cuore e, attraverso la gola, permette il respiro e la lode a Dio.
Condivisione misericordiosa con i senza legge, perdono ai peccatori, consegna fiduciosa della vita al Padre.
Tre momenti che scandiscono la passione tragica ma dignitosa di Gesù secondo l’evangelista Luca.
Una passione generata dalla volontà di compiere il disegno d’amore del Padre di una condivisione di destino tra i propri figli, a partire dal più basso dei livelli, quello occupato dai senza legge, da quelli che sono ai bordi della parola di vita proclamata da Mosè.
Una redenzione espressa dall’evangelista Luca non con categorie sacrificali, ma esistenziali.
Condivisione limpida e “innocente” dei propri giorni con coloro che non vivono la vita offerta da YHWH/Il Padre.
Ai bordi della vita offrire per-dono, offrire il fresco del “paradiso”, del giardino incantato della vita di figli di Dio. Una vita regale.
Ai bordi maledetti dagli uomini, le croci del mondo, vivere l’affidamento fiducioso, pieno di lode.
Condivisione, perdono, affidamento.
Il miracolo della Passione del Figlio del Re.
Annoverato fra gli empi.
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News