È la domenica che apre la Settimana Santa, di passione e resurrezione, coagulo di tutto il vivere dell’uomo, come all’origine del tutto ci fu un’altra settimana, misurata sui giorni di Dio che fece tutto dal niente. Questa Settimana è misurata sulle mosse di Gesù a Gerusalemme, ombelico del mondo e terra scavata dai grandi monoteismi che scorrono nelle vene dell’umanità. Per presagio e scelta del Papa santo della Polonia, sono trent’anni che questo giorno appartiene ai giovani del mondo incontro a Cristo che entra nelle città e nei paesi a distribuire il pane della pace. Che domenica, dunque, è questa?
Per capire bisogna rifarsi ai segni piccoli, all’asino preso in prestito e cavalcato dal “re della figlia di Sion” (Gerusalemme). La profezia di Zaccaria lo mostra capace di spezzare l’arco di guerra e annunciare la pace alle genti. Il re venturo è povero tra i poveri, i credenti umili della prima Beatitudine. A questo re acclamiamo oggi, chiedendogli di prenderci con sé sulla sua via.
Un re di pace mediante il segno della Croce, che è l’arco di guerra spezzato, vero arcobaleno di Dio, segno di riconciliazione, di perdono, dell’amore più forte della morte. Ogni volta che ci facciamo il segno della Croce dobbiamo ricordarci che il male si vince con il bene.
Questo regno è universale, l’intero universo, la terra tutta. Da mare a mare, fino ai confini ultimi, superando ogni limite e cultura, portando tutto all’unità. Misere capanne, povere campagne, splendide cattedrali, ovunque Egli viene e unisce tra loro i suoi fratelli, insieme in un unico corpo. Cristo si fa pane e si dona noi e così costruisce il suo regno.
Il viaggio di Gesù verso Gerusalemme sta per giungere al termine. Dopo Gerico, le ultime due tappe sono Betfage e Betania. Qui si svolge un’azione dal significato simbolico, profetico. Gesù manda due discepoli a prendere un puledro di asina, per entrare in Gerusalemme a dorso di esso. Il simbolo è quello della regalità mite e pacifica di Gesù; ma una regalità contestata e rifiutata.
Cosa c’è d’importante in questo montare un puledro d’asina? C’è l’antica profezia: “Dite alla figlia di Sion: ecco il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina”. Nei tempi antichi d’Israele era cavalcatura dei principi, dei re. Il cavallo invece rappresenta l’animale per la guerra, espressione di forza e non di mitezza. Il re che entra in Gerusalemme non la conquista con le armi, ma col servizio e il dono di sé; la sua umiltà conquisterà i popoli.
Un re che non ha neppure un asino; lo deve chiedere in prestito. È un re che si fa povero per arricchire noi. Lui si fa mendicante al punto che i discepoli dicono al padrone del puledro: “Il Signore ne ha bisogno!”. È davvero il servo umiliato che si prepara a soffrire. La sua salita sul trono regale della croce è ormai vicina; lì sarà il principe della pace.
La gioia dei discepoli – come quella di Zaccheo che l’aveva da poco preceduta – nasce dall’intuizione del gesto di Gesù e contrasta con la reazione dei farisei che contestano la pretesa regalità, come quelli che prima lo avevano criticato per essere andato a casa di Zaccheo.
Nella notte del Getsemani, Gesù attraversa tutte le notti dell’uomo; attraversa la notte della morte assurda fino all’esperienza dell’abbandono di Dio. Per questo siamo salvi, perché Lui è passato attraverso queste notti. E in queste nostre notti troviamo Lui che è lì per portarvi la luce di Dio.
“Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore”; è il canto della nostra processione, del nostro pellegrinaggio per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. Lui sale a Gerusalemme per la Pasqua, ma è un cammino che tocca anche a noi, anche se sembra superare le nostre forze.
Papa Benedetto, nella domenica delle Palme di qualche anno fa, ci ricordò che “i Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà”.
Mons. Angelo Sceppacerca
Fonte – Diocesi Triveneto