Commento al Vangelo del 10 Ottobre 2021 – Padre Giulio Michelini

1766

L’amore per Dio e le ricchezze

La pagina del vangelo di oggi riunisce tre tematiche distinte: il racconto della chiamata del ricco e del suo rifiuto (vv. 17-22), l’invito a guardarsi dal pericolo delle ricchezze (vv. 23-27), e un dialogo con i discepoli sulla ricompensa per la loro rinuncia (vv. 28-31). Le tre scene sono collegate dal tema delle ricchezze.

La vocazione del ricco. Questa pericope è molto importante per svariati settori della teologia, quali ad esempio quella della vita consacrata o la teologia morale: si pensi solo ai ventidue numeri che le dedicava nel 1993 l’enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis Splendor.

- Pubblicità -

La scena si apre con la domanda del ricco che si avvicina a Gesù. Questi gli risponde citandogli i comandamenti. Quando il ricco replica di averli osservati sin dalla giovinezza, allora Gesù tocca il punto più sensibile dell’uomo che gli sta di fronte. Se è vero che la chiamata di ognuno è personale, legata alla storia e alla propria vita, allora si capisce perchè Gesù chieda al ricco di lasciare quanto possiede. Gesù, cioè, prende sul serio i comandamenti che ha appena finito di ricordare, che sono illuminati dalle parole tra le importanti e più amate di tutta la Legge, lo Shemà: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze…» (Dt 6,4-5). A partire da questa premessa, segue l’elenco di tutti i comandi che Israele deve seguire, a dire che ogni Legge può essere vissuta e praticata solo se si ama Dio. Ma cosa significa il comando di amare il Signore?

Amore e ricchezze. Il senso di queste parole secondo l’interpretazione ebraica è molto concreto, e ha proprio a che fare con le ricchezze: «amare il Signore Dio tuo con tutto il cuore: cioè con ambedue le inclinazioni, la buona e la cattiva. Con tutta l’anima: dovesse anche toglierti la vita. Con tutte le tue forze: cioè con tutto ciò che possiedi» (Mishna, Berakot 9,5). Un altro testo, dal Talmud, è ancora più esplicito a riguardo del rapporto tra l’amare Dio e i beni terreni: «Ci può essere un uomo a cui la propria persona è più cara del denaro, e per questo fu detto: con tutta la tua anima. E vi può essere uno a cui il denaro è più caro della sua persona, e allora fu detto: con tutte le tue forze» (Berakot 61,b).

Ecco allora quello che manca al ricco, e che riguarda proprio lui: anzitutto amare Dio veramente, fino in fondo, con tutto quanto possiede, e poi seguire Gesù. Sappiamo come reagisce il ricco. Egli “rattristatosi”, se ne andò “afflitto” (v. 22). Quale possibile significato conferire a queste espressioni? Certamente dicono un rifiuto: non per nulla il ricco è tradizionalmente considerato dalla letteratura esegetica come il tipo del “discepolo mancato”, come colui che rifiuta la sequela di Gesù. Per questo il suo allontanarsi è descritto come un movimento opposto a quello della sequela, che invece viene abbracciata da coloro che, nel vangelo, avevano accolto lo stesso invito di Gesù rivolto al ricco: «Vieni e seguimi» (cf. Mc 2,14). Però, forse c’è anche qualcos’altro.

Un’ultima possibilità. Non dobbiamo infatti pensare che la risposta negativa del ricco, la sua rinuncia, sia una maledizione: piuttosto, nella conclusione del nostro brano, sembra addirittura esservi un’apertura alla speranza, fondata sulla misericordia e onnipotenza di Dio. Infatti, Gesù non sembra condannare il giovane. Nessuna condanna, perché nella finale della nostra pericope si ribadisce che «Dio è anche capace di salvare coloro che avranno resistito ai suoi inviti, perché la grazia della salvezza si apre una strada attraverso le reazioni degli uomini: tristezza, stupore, reticenza, severità, oppure accoglienza spontanea e docile del regno, nell’atteggiamento dei bambini» (J. Radermakers).

Allora, quando Gesù dice che a Dio non è impossibile la salvezza degli altri, possiamo interpretare la reazione del ricco addirittura come un’altra possibilità a lui donata: «Questa tristezza è il segno che la grazia l’ha toccato: la sua ricchezza si oppone attualmente al suo progresso spirituale, ma la misericordia di Dio l’ha reso cosciente di ciò, facendogli capire che non può, con le sue azioni, ottenere in eredità la vita eterna. Ha già cominciato a riceverla, perché la tristezza che l’invade è dono dell’amore del Dio buono che incessantemente lo chiama» (Id.).

Diversa, invece, la sorte di chi lo segue. Non la tristezza, ma la gioia e la pace. Non il possesso di beni terreni, ma il multiplo di quanto lasciato. In particolare, la ricchezza nascosta in quelle realtà, come la relazione con Gesù e le relazioni con i fratelli della Chiesa, che non possono essere monetizzate e che superano ogni possesso in questo mondo.

Fonte