Figli della risurrezione
Con l’avvicinarsi della conclusione dell’anno liturgico, le letture proposte accentuano il messaggio escatologico circa le realtà ultime: la morte, la risurrezione, la certezza della vittoria di Cristo risorto, Signore della storia e dell’universo intero, sulla morte e sul male presente in essi.
Il Secondo libro dei Maccabei
Meno noto e studiato di 1Mc, di cui non costituisce la continuazione, 2Mac è un libro scritto in greco, deuterocanonico, entrato cioè ufficialmente nel canone cattolico solo in un secondo (deuteros) momento. Difatti, vi entrò solo con la IV sessione del Concilio di Trento dell’8 aprile 1546, probabilmente in risposta polemica alla posizione esclusionista tenuta da Lutero nel 1545 nell’introduzione alla sua traduzione di 2Mac.
2Mac non è accettato nel canone ebraico perché scritto in greco e posteriore al tempo di Alessandro Magno, epoca con la quale gli ebrei pensano si concluda il periodo della composizione dei libri divinamente ispirati.
Alcuni episodi comuni con 1Mac sono raccontati con contenuto e dislocazione temporale diversi (invertiti) rispetto a quelli di 1Mac. Il libro di 2Mac contiene brani di generi letterari diversi ma, dopo due lettere iniziali, esso si presenta come un riassunto o epitome dell’opera di un certo Giasone in cinque volumi. Si pensa possa essere stato composto tra il 124 e il 63 a.C. da un ebreo della diaspora, proveniente forse da Alessandria d’Egitto o da Antiochia di Siria.
2Mac è caratterizzato dal genere letterario di storia di una città e del suo tempio (cf. storici locali come Sirico, che scrisse la storia del Chersoneso, o Eudemo, Mirone e Temocrito che scrissero la storia di Rodi). In esso ci sono inoltre dei documenti ufficiali e anche la narrazione di episodi di carattere leggendario, che per lungo tempo hanno nuociuto alla credibilità storica di 2Mac (cf. per es. 2Mac 6,18-31: il martirio di Eleazaro; 2Mac 7: il martirio dei sette fratelli e della loro madre; 2Mac 9,1-1: la descrizione dei mali che colpiscono Antioco IV Epifane; 2Mac 1,37-46: il suicidio di Razis).
L’articolazione letteraria di 2Mac segue la datazione dei seleucidi, successori di Alessandro Magno regnanti ad Antiochia di Siria. La Giudea rimase sottomessa ai seleucidi dal 200 a.C. al 142 a.C.
I PARTE 1,1–2,32. Lettere preliminari e prefazione.
1,1-9 Prima lettera degli ebrei della Giudea agli ebrei d’Egitto; 1,10–2,18 Seconda lettera agli ebrei d’Egitto; 2,19-32 Prefazione.
II PARTE (3,1–15,36).
3,1–4,6 Eventi durante il regno di Seleuco IV Filopatore (187-175 a.C.); 4,7–10,9 Eventi durante il regno di Antioco IV Epifane (175-164 a.C.); 10,10–13,26 Eventi durante il regno di Antioco V Eupatore (164-162 a.C.); 14,1–15,36 Eventi durante il regno di Demetrio I Sotere (161-150 a.C.).
EPILOGO 15,37-39.
Linee teologiche
2Mac è segnato dal rapporto conflittuale del giudaismo con l’ellenismo. Il libro rifiuta le forme dispotiche di quest’ultimo quando vuole distruggere l’identità ebraica del popolo di Israele con le sue istituzioni civili greche, il cambiamento del calendario ecc.
Le linee teologiche principali di 2Mac – notate da Maria Brutti nel suo commentario (Cinisello B. [MI] 2014) – ruotano attorno agli appellativi divini impiegati dall’autore.
Il Dio di 2Mac è indicato come Theos e Kyrios, cioè come “Dio” e “Signore”. Il kyrios è “uno”, opera nella storia e viene riconosciuto dagli uomini come il Signore che tutto vede (ho pantepoptēs kyrios). È un Dio che educa gli uomini che hanno peccato anche col castigo e la sofferenza, ma lascia loro la libertà di operare per la riconciliazione con lui.
Egli rimane sempre il Dio Signore “giusto e misericordioso” (dikaios kai eleēson). Alla punizione per coloro che Dio ama sono tuttavia contrapposti, nelle parole dei martiri, il castigo e la fine dei persecutori. La “clemenza” (epieikeia), prerogativa tipica dei giudici e dei legislatori, caratterizza la giustizia di Dio attraverso il senso della moderazione e della misura.
Soprattutto nei martirologi si sottolinea la certezza incrollabile nel fatto che il Dio degli ebrei è “Signore che vive” (ho zōn kyrios). «Colui che lascia la libertà ai martiri di scegliere la morte per mantenere la fedeltà alla Torà, ma dà loro la speranza della risurrezione, di una vita eterna. Per la prima volta, il destino degli uomini dopo la morte è segnato dalla misericordia divina, dal dono della risurrezione» (M. Brutti).
2Mac non testimonia una teologia sistematica della risurrezione ma propone comunque alcune linee di pensiero che affrontano e svolgono in maniera differenziata il tema della vita oltre la morte. In alcuni casi, infatti, si pensa a una risurrezione come ad un evento destinato ad accadere nel futuro; in altri casi si pensa che le preghiere conducono alla risurrezione dopo breve tempo dalla morte. La risurrezione dei martiri di 2Mac accade in cielo, dove il martire sembra ricevere un nuovo corpo. In altri racconti si intravedono la figura di Onia e di Geremia che pregano per Israele e porgono la spada a Giuda Maccabeo. Ambedue le figure compaiono in forma corporea.
Il Dio Signore è inoltre “alleato dal cielo” (ap’ouranou symmachos), “Signore, santo di ogni santità” (hagie pantos hagiasmou kyrie), Dio “onnipotente, il sovrano” (ho theos pantokratōr, ho despotēs).
La morte della madre e dei setti fratelli
Gli eventi accaduti durante il regno di Antioco IV Epifane (175 a.C. – novembre 164 a.C.) sono raccontati in 2Mac 4,7–10,19 con questa sequenza: 4,7-50: Le lotte per l’accaparramento del sommo sacerdozio da parte di Giasone e di Menelao; 5,1–6,17: Oppressione, sofferenza e persecuzione “religiosa” di Antioco IV a Gerusalemme; 6,18–7,42: I martirologi; 8,1-36: La rivolta di Giuda Maccabeo; 9,1-29: La morte di Antico IV Epifane; 10,1-9: Purificazione e Ridedicazione del tempio.
I martirologi (6,19–7,42) comprendono il racconto del martirio del vecchio Eleazaro (6,18-31) e la morte della madre e dei sette fratelli (7,1-42). Le narrazioni di 2Mac 6–7 sono state probabilmente aggiunte in un secondo momento al resto del libro, a partire da una fonte diversa. I due capitoli si differenziano dal resto del libro per il diverso linguaggio: la mancanza della terminologia politica, l’uso insistito dell’espressione le “Leggi dei padri” e la persona di Antioco IV Epifane il quale, mentre la persecuzione ebbe luogo a Gerusalemme o almeno nella Giudea, risulta essere in Siria (cf. 2Mac 5,21.24; 6,1).
Demone vendicatore!
Nel racconto del martirio della madre e dei sette fratelli si sottolinea la scelta di morire anziché venir meno all’osservanza delle “Leggi dei padri” che vietano la consumazione di carni suine. La narrazione insiste sui particolari crudeli delle torture inflitte a ognuno dei sette fratelli sotto gli occhi della madre e degli altri familiari. Membra dilaniate e mozzate, corpi straziati senza pietà.
Si esalta la morte “nobile” – molto apprezzata nella cultura ellenista – accettata in obbedienza alle leggi dei padri, certi – dice il primo dei fratelli messi a morte – che il Signore Dio «ci vede dall’alto e in verità egli ha compassione di noi» (7,6); egli terminale sue parole citando il cantico di Mosè sulla compassione di Dio per i suoi servi (Dt 32,36).
Utilizzando la lingua dei padri – l’ebraico e non l’aramaico – il secondo fratello martirizzato taccia il persecutore col titolo di “Tu, o demone vendicatore/alastōr” (CEI “Tu, o scellerato”). Il termine ricorre solo in 2Mac e «indica uno spirito o un demone vendicatore o colui che compie azioni meritevoli di vendetta. È un epiteto proprio della tragedia greca. In Eschilo, Supplici 414-415, è riferito a una divinità, «il tremendo demone vendicatore». Si trova anche in Plutarco, riferito a una categoria di demoni vendicatori (cf. L’eclissi degli oracoli 15 = 418BC). Si ritiene perciò opportuno tradurre il termine come “vendicatore” ma con l’aggiunta di “demone” che conferisce una maggior forza di significato al termine» (M. Brutti).
«Poiché noi siamo morti per le sue Leggi – conclude sfinito il secondo dei fratelli – ci “risusciterà alla risurrezione della vita eterna/eis aiōnion anabiōsin zōēs anastēsei”».
Riavrò queste membra
Il terzo fratello proclama “con nobiltà/gennaiōs” e impressionante forza d’animo di aver ricevuto dal Cielo le proprie membra (ex ouranou tauta kektēmai) ma di “non curarsene/trascurarle/guardarle dall’alto/hyperorō” nella speranza certa di ricevere nuovamente le stesse (tauta palin elpizō komisasthai). Si sottolinea in tal modo l’identità tra il corpo mortale e quello che sarà ricostituito dopo la risurrezione. Centro dell’affermazione è però la certezza che la risurrezione avrà la funzione di rivendicazione della giustizia a favore del giusto oppresso e torturato.
In ogni caso, il dato di fede della risurrezione, collegato alla speranza, si arricchisce di contenuti nuovi: la permanenza dell’identità corporale preservata anche dopo la morte.
Per te niente risurrezione
Il quarto fratello conferma l’impossibilità di mettere sullo stesso piano le richieste degli uomini e quelle di Dio, ricche di promesse: è preferibile morire per mano degli uomini, ricevendo (prosdokan) da Dio la speranza di essere di nuovo risuscitati (palin anastēsesthai). Per l’oppressore non ci sarà alcuna risurrezione. Questa è considerata una possibilità solo per i giusti.
La certezza di fede della risurrezione anche del corpo, seppur riservata per ora solo ai giusti, è un grande passo in avanti nella fede di Israele. È impressionante che questa rivelazione venga donata da YHWH al suo popolo in un clima culturale filosofico e religioso che non era favorevole alla nozione di risurrezione e che questa riguardasse anche il corpo (benché le modalità di attuazione fossero misteriose anche agli stessi fedeli a YHWH). Nel pensiero greco la materia era irrisa e disprezzata; il corpo veniva considerato come la prigione dell’anima: sōma-sēma. Paolo sarà irriso su questo tema nel suo pur impressionante e forbito discorso all’Areopago di Atene (cf. At 17,16-33).
Aprirò le vostre tombe e rivivrete
Sostenuta dall’annuncio dei profeti e dalla fede espressa nei salmi, in Israele iniziò a nascere la certezza che Dio non abbandona i suoi nella morte, ma li avrebbe riportati in vita. Ez 37,13-14ss considera la risurrezione come evento nazionale che interessa l’intero corpo del popolo di Dio che torna in vita dopo l’esilio mortale a Babilonia: «“Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”. Oracolo del Signore Dio».
Il libro della Sapienza, scritto nel 30 a.C. ormai alle soglie del NT, riafferma con forza la differenza di sorte finale che spetta ai giusti e ai malvagi, con il destino glorioso riservati ai giusti e la punizione ai malvagi: «I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo. Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalle mani del Signore, perché li proteggerà con la destra, con il braccio farà loro da scudo» (Sap 5,15-16).
Gesù riprenderà le fila di questo discorso di fede.
Moglie e marito in questo mondo
La terza delle quattro controversie/dispute gerosolimitane registrate dall’evangelista Luca (la quinta, sul comandamento grande, era già stata riportata in Lc 10,25-28) verte sulla risurrezione dei morti.
I sadducei che interrogano capziosamente Gesù non vi credono. Essi appartengono all’aristocrazia sacerdotale (!) da cui provengono i sommi sacerdoti e accettano come normativi solo i cinque libri del Pentateuco (la Torah). Non ammettono alcuna “legge orale /Torah she be‘al peh”, confessata invece dai farisei con uno statuto di valore uguale alla legge scritta. Luca informa il lettore sul loro rifiuto della credenza nella risurrezione dei morti (20,27). Il libro degli Atti ricorda inoltre che non credono negli spiriti e negli angeli (At 23,8), mentre i farisei vi credono (e Paolo sfrutterà abilmente questa divisione fra l’uditorio del sinedrio).
I sadducei citano la prescrizione mosaica circa il levirato (Dt 25,5-10; cf. anche Gen 39,8-9): se una donna rimane vedova senza figli, il cognato (in latino levir) deve prenderla in sposa e suscitare dei figli al fratello defunto affinché il suo nome non vada estinto. Il figlio che nascerà sarà infatti considerato figlio del defunto.
I sadducei estremizzano il dato biblico, per porre in difficoltà Gesù o semplicemente per sondarne la ragguardevole opinione. Pongono il caso di sette fratelli morti uno dopo l’altro, tutti senza lasciare figli. Chiedono dunque a Gesù: se eventualmente ci fosse la risurrezione – realtà a cui non credono e che intendono irridere – di chi sarà la donna, dato che tutti e sette gli uomini l’hanno avuta in moglie (è il caso di Sara prima di incontrare Tobia, Tb 3,8).
Giudicati degni di quel mondo
In un primo momento Gesù dà ragione ai sadducei contro i farisei, che tendevano a considerare il mondo dell’aldilà una semplice continuazione materiale del mondo attuale (“questo mondo”).
Per Gesù ci sono due mondi, due eoni.
Nel mondo attuale, “questo mondo/eone (aiōnion toutōn)” segnato dalla morte e dalla finitudine radicale dell’essere umano, è previsto il matrimonio perché si possa far nascere dei figli che prolunghino la discendenza. Questa vince in tal modo l’angoscia della morte che attanaglia – anche inconsciamente – i genitori. I figli vincono momentaneamente la morte, ma i genitori di fatto mettono al mondo figli destinati a morire a loro volta.
Per Gesù esiste un altro mondo/eone nel quale non c’è necessità di sposarsi per avere discendenza e così vincere la morte e l’angoscia che essa crea negli esseri mortali. Gesù propone il dato di fede della risurrezione, dell’esistenza di un modo diverso, definitivo, un mondo dove regna la pienezza della vita divina negli uomini resi totalmente figli di Dio.
Nel “mondo/eone altro” regna non la finitudine radicale, ma la vita divina in pienezza. In quel mondo/eone le persone non continuano la loro vita in una pura prosecuzione della vita vissuta sulla terra, secondo la concezione praticamente materialistica professata dai farisei. Quanti sono considerati (da Dio) degni di accedere al dono di quel mondo/eone e a quello della risurrezione, sono resi “simili agli angeli/isaggeloi”.
Con questa espressione Gesù non intende precisare la qualità della corporeità che gli esseri umani possederanno o l’assenza totale in essi della differenziazione sessuale. Egli vuole sottolineare che le persone non avranno più bisogno dell’istituto matrimoniale, ma possederanno per sé stesse e vedranno possedere anche dagli altri la pienezza della vita di figli di Dio che è propria degli angeli. Essi sono puro splendore e gloria. Sono chiamati “figli di Dio” (cf. Gb 1,6; 2,1).
Simili agli angeli, figli della risurrezione
Ottenuto per dono l’accesso all’altro mondo/eone e alla risurrezione, gli esseri umani diventano figli di Dio in pienezza, “figli della risurrezione”.
Questa espressione è una sottospecie del genitivo ebraico. In esso il secondo termine funge normalmente da aggettivo qualificativo (ad es. figlio dell’ingiustizia = figlio totalmente ingiusto). La sottospecie del genitivo ebraico “figlio di” intende alludere al fatto che la prima realtà menzionata sarà completamente connotata dalla qualità espressa col secondo termine. Gli esseri umani risorti saranno totalmente “intrisi”, connotati dalla risurrezione, saranno risorti nella loro completezza, in tutti gli aspetti della loro identità (corporeità, affettività, relazionalità, capacità volitive ecc.). Le realtà fisiche, spirituali, psicologiche, affettive saranno ritrovate nella loro piena verità, non più delimitate o frenate dalla loro funzionalizzazione alla perpetuazione della specie umana grazie all’istituto del matrimonio, in ordine a vincere l’angoscia della morte.
“In cauda venenum, nella coda il veleno”. Respinta l’irrisione sadducea circa l’istituto giuridico del levirato tramite l’estremizzazione del caso (sette fratelli morti uno dopo l’altro) e illustrata la qualità completamente nuova della vita goduta nel “mondo/eone altro”, Gesù si concentra sul dato stesso della risurrezione negato dagli interlocutori.
Dio dei vivi
Parlando ai sadducei Gesù deve trovare la sua dimostrazione biblica nel campo ristretto dei primi cinque libri della Torah, davvero miseri quanto ai dati più o meno espliciti sul tema.
Come sempre, Gesù dà risposte “alte” alle varie domande che gli vengono poste. Egli parte dalla qualità di YHWH rivelata al roveto ardente (Es 3,2.14).
Il Dio di Israele si rivela come un Dio che c’è in quanto esiste per essere accanto all’uomo, per amarlo e salvarlo: Il suo nome è “Ehyeh ‘ăšer ehyeh”: “Io sono/sarò colui che sono/sarò/vorrò essere a favore di chi sceglierò liberamente e in piena libertà di modalità operative”. (Si noti che YHWH non è il vitello d’oro manipolabile una volta conosciuto completamente il suo nome: YHWH resta parzialmente elusivo nella rivelazione del suo nome…!).
YHWH esiste solo per aiutare, salvare, amare il suo popolo, i suoi fedeli (e tutti gli uomini).
YHWH non ama ad tempus, né per prova, con riserve mentali. YHWH ama con la totalità di se stesso.
YHWH appartiene ai suoi fedeli, è dei suoi fedeli, di chi lo accoglie e gli dà credito.
Il suo amore per il suo popolo e per i patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe (cf. Es 3,3.6.16) è eterno, per sempre. Non solo quando sono vivi.
Li ama ed esiste per loro anche se essi sono morti.
Figli della risurrezione
L’essenza di YHWH, il suo amore, valica con facilità le barriere del tempo e della morte, e si espande per sempre sui suoi figli.
Egli è il Dio dei vivi, non dei morti.
Tutti infatti coloro che lo hanno amato e hanno creduto in lui vivono totalmente relativi a lui (autōi zōsîn lo intendo come dativo di relazione).
Totalmente relativi a lui. Fin da adesso e per sempre, già con un piede nel “mondo altro”.
Questo dicono, per poco che dicano, i primi cinque libri della Torah (secondo Gesù).
A leggerli bene, i testi.
I sadducei, leggendoli male, sono “in un grande errore/poly planasthe” (Mc 12,27).
È l’ultima stoccata di Gesù, “velenosa”, verso i sadducei riportata nella versione parallela della controversa/disputa dal Vangelo di Marco.
In cauda venenum.
Dio è totalmente relativo a noi, vive per noi.
E noi viviamo tutti relativi a lui.
Risorti in radice, nell’attesa della piena fioritura della vita filiale, “angelica”.
Figli della risurrezione.
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News