Nella I domenica di Quaresima, tempo favorevole della nostra salvezza (Orazione sulle offerte) e segno sacramentale della nostra conversione (Colletta), è celebrata l’Eucaristia nel mistero della vita cristiana come veramente appartenente a Dio, eppure tentata ed esposta al male. Nella scelta radicale tra la vita e la morte, che anima la nostra lotta, la liturgia ci innesta nello stesso combattimento di Cristo prima dell’inizio del suo ministero pubblico, offrendoci la sua vittoria come anticipo della definitiva sottomissione della morte e del peccato ai suoi piedi, e come caparra della nostra vittoria in lui. La seconda lettura dell’Ufficio lo sottolinea in maniera magistrale: «Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione, da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria»1.
La progressiva penetrazione del mistero di Cristo, oggi nel lato della lotta contro la tentazione e il peccato, ci predispone a una più piena partecipazione sacramentale alla sua Pasqua, come porta, nel tempo e sulla terra, verso la Pasqua eterna (Prefazio).
La memoria grata degli eventi salvifici di liberazione del popolo di Israele dall’Egitto, e dell’alleanza in forza della quale, con il salmista, sappiamo che legarsi al Signore è garanzia di salvezza nella morte, ci conduce alla proclamazione di fede nell’unica signoria del Cristo, Figlio di Dio.
Tale giorno è indicato come il più adatto per lo svolgimento del rito di elezione dei catecumeni, che, secondo le possibilità, è importante sia presieduto dal pastore della diocesi (cf RICA 51; 133-139).
Commento
Le letture della prima domenica di Quaresima sembra che vogliano introdurci a questo tempo di grazia, “segno sacramentale della nostra conversione” (Orazione colletta), armati della virtù della fede. Infatti, tanto la prima lettura come la seconda, ci presentano due professioni di fede: il libro del Deuteronomio, la professione di fede dell’antico istraelita, mentre Paolo ai Romani la professione di fede del cristiano.
Nella prima lettura Mosè annuncia al popolo di Israele, alle soglie del suo ingresso nella terra promessa, che, una volta stabilitosi in essa, dovrà presentarsi dinanzi al Signore con le primizie dei suoi raccolti, in segno di ringraziamento per i frutti della terra che Dio ha donato al suo popolo. Nel fare questo, deve però pronunciare una professione di fede negli atti di salvezza storici che il Signore ha operato in favore di Israele. Questo ricordo grato dei benefici compiuti da Dio è centrato sul tema dell’ascolto del Signore alle invocazioni di aiuto del suo popolo oppresso: “Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione” (Dt 26,7). Il Dio, in cui Israele ha fede, è il Dio che ascolta il suo grido e viene in suo aiuto, donandogli salvezza.
Anche Paolo, nella seconda lettura, ci parla di una professione di fede: anche in questo caso si tratta, per il cristiano, di fare memoria di un atto di salvezza storico, compiuto da Dio in favore di un uomo, la risurrezione di Gesù da morte e la sua intronizzazione come “Signore” alla destra del Padre suo celeste. “Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9). Come la liberazione dell’antico Israele dalla schiavitù egiziana, così la liberazione di Gesù dalle angosce della morte, sono atti di Dio che non si esauriscono nel tempo storico in cui sono avvenuti, ma hanno un effetto soteriologico su chi ne fa memoria nel suo presente. La salvezza si ottiene attraverso la professione di fede in quel Dio che ha operato in passato la redenzione di un popolo, quale figura del riscatto che ogni uomo avrebbe potuto conseguire, credendo nell’atto di liberazione definitivo realizzato da Dio in Gesù di Nazareth, morto e risorto.
Forti di questa fede, armati e corazzati di questa fede, possiamo allora affrontare “la buona battaglia della fede” (1Tm 6,12), possiamo vivere, guidati anche noi dallo Spirito, come Gesù (cf Lc 4,1) il nostro combattimento contro le tentazioni. Il brano del Vangelo ci mostra come la nostra vita sia una lotta, uno scontro continuo, a causa di colui che insidia in noi il piano di salvezza di Dio, l’Avversario, il Tentatore, il diavolo, colui che ci vuole separare dalla fonte della nostra salvezza e felicità.
La Quaresima, quale tempo di deserto, di ascesi e di preghiera, di rinuncia e di intimità con Dio, è l’occasione che lo Spirito ci offre per testare la nostra fede: nel deserto, cioè in una vita essenzializzata, purificata da ciò che è superfluo, siamo messi di fronte alle nostre debolezze e paure, siamo posti di fronte a un bivio e ad un’alternativa. C’è proposta una parola, di fronte alla quale dobbiamo prendere posizione: vogliamo credere alla voce del diavolo o a quella di Dio? A chi vogliamo dare fiducia?
Gesù è tentato in quella che è la sua natura più profonda, la sua identità, appena proclamata dal Padre al momento del suo battesimo nel Giordano: “«Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” (Lc 3,22). Il diavolo sembra appellarsi a questa parola divina per mettere Gesù alla prova, perché due volte gli ripete: “«Se tu sei Figlio di Dio…»” (Lc 4,3.9). Il diavolo vuole insinuare il dubbio che questa identità non sia vera, nel caso in cui il Padre non esaudisse ogni richiesta del Figlio. Così, lascia intuire l’evangelista Luca, il diavolo tornerà “al momento fissato” (Lc 4,13), cioè al momento della Passione, per reiterare la tentazione, per ripetere la sfida: “Se tu sei il Cristo, l’eletto, il re dei Giudei, salva te stesso…” (cf Lc 23,35-39).
Anche noi siamo figli di Dio, ce lo assicura la nostra fede: il Padre celeste, in virtù del nostro battesimo, ogni volta che ci vede, riconosce in noi i lineamenti del Figlio Suo. Noi siamo divenuti figli nel Figlio, perché abbiamo creduto che il Padre ha ordinato tutta la storia a un fine di salvezza e ci ha chiamati a prendere parte a questa liberazione, attuata definitivamente in Gesù Cristo. Dobbiamo allora anche noi, come Gesù, ribattere al tentatore, che la nostra filiazione divina non significa che il Padre debba sottoscrivere ogni nostro desiderio, che tutto debba andare secondo i nostri gusti, ma al contrario, che vogliamo accogliere in noi la salvezza del Padre, ponendoci in atteggiamento di sincera obbedienza, di filiale ascolto della Sua volontà. Siamo certi della vittoria che Dio ha già conseguito in nostro favore, risuscitando Gesù dalla morte e sciogliendolo da ogni angoscia. Chiediamo al Padre la sola grazia di poter vivere questa fede che ci ha donato, qualunque sia la tempesta che dovremo affrontare, qualunque siano le suggestioni contrarie che il diavolo potrà sussurrare al nostro orecchio. Possa davvero questa Quaresima essere anche il segno sacramentale della nostra fede, oltre che della nostra conversione.