Solo il tuo Dio adorerai
L’importante libro del Deuteronomio con la sua ricca teologia accompagna l’inizio del cammino quaresimale della Chiesa, assieme al Vangelo di Luca, che in questa domenica vede proclamato il brano riguardante “le tentazioni di Gesù nel deserto”. Esse rappresentano il vero e proprio inizio della vita pubblica di Gesù, dopo che l’evangelista ha ricordato il suo battesimo (3,21-22) e la sua genealogia ascendente fino ad Adamo (3,23-38).
Riconoscere Dio come fondamento della grazia sorgiva della vita personale e comunitaria, dare solo a lui la lode e il riconoscimento per la propria vita e la propria salvezza è il primo gradino della vita spirituale del singolo credente e della Chiesa per iniziare “dal basso” il cammino della Quaresima, partecipando alla “sofferenza” del suo Signore Gesù Cristo per avere poi la gioia e la grazia di partecipare anche alla gloria della sua risurrezione (cf. Fil 3,10).
Deuteronomio, la “seconda Legge”
Il libro del Deuteronomio sigilla i cinque rotoli della Torah/Pentateuco, dando conclusione alla grande narrazione che parte dalla creazione e giunge fino alla soglia dell’entrata di Israele nella terra della promessa.
La titolatura ebraica del libro – Debārîm – riprende come sempre la prima parola del libro, mentre il titolo del libro nella traduzione della LXX – Deuteronomion – indica la sua natura di “seconda Legge”, essere cioè la riproposizione della Torah alla luce della teologia deuteronomistica influenzata dalla predicazione profetica. Con varie redazioni, trovò la sua sistemazione ultima nel postesilio e fin dentro il periodo persiano (538-323 a.C.).
Il Deuteronomio ha come caratteristica alcuni grandi discorsi tenuti da Mosè sulla soglia della terra della promessa, nelle steppe di Moab. L’interpretazione classica ne isola quattro, ma vari biblisti ne scorgono solo due. A integrazione di quella facilmente reperibile nella Bibbia di Gerusalemme, riportiamo gli schemi proposti da due studiosi.
L’esegeta G. Papola propone la seguente articolazione del libro: 1,1–4,43 primo discorso di Mosè: sezione narrativa (ricordo del passato); 4,44–28,68 secondo discorso di Mosè: l’alleanza dell’Oreb; 28,69–30,20 terzo discorso di Mosè: l’alleanza di Moab; 31,1–34,2 sezione narrativa; 33,1-29 la benedizione di Mosè (apertura al futuro).
Nel suo commentario, S. Paganini propone invece l’articolazione del libro del Deuteronomio attorno a due lunghi discorsi di Mosè:
1,1-5 La messa in scena;
1,6–4,43 Primo discorso di Mosè: 1,6–3,39 La retrospettiva storica; 4,1-43 Conclusione del primo discorso con l’esortazione finale;
4,44–26,19 Secondo discorso di Mosè: 4,44–5,33 La teofania e l’alleanza all’Oreb; 6,1-25 Esortazione all’osservanza della Legge; 7,1–10,11 La vita nella terra promessa; 10,12–11,32 Obbedienza e disobbedienza come fonti di benedizioni; 12,1–14,21 La legge della centralizzazione e di purità; 14,22–16,17 Obblighi periodici e feste; 16,18–18,22 Strutture statali in un sistema teocratico; 19,1–21,14 Legislazione sulla pena capitale e sulla guerra; 21,15–23,1 Legislazione sul rispetto delle relazioni e della vita; 23,2–25,16 Leggi di purità e leggi sociali all’interno del popolo di YHWH; 25,17–26,19 Due confessioni liturgiche e l’alleanza;
27,1–34,12 La conclusione del Deuteronomio e del Pentateuco: 27,1–28,69 La celebrazione dell’alleanza: benedizioni e maledizioni; 29,1–30,20 Le ultime disposizioni: l’alleanza in Moab; 31,1–32,47 Il congedo di Mosè: indicazioni per il futuro e il cantico; 32,48–34,4 Benedizioni e visione di Mosè; 34,5-12 La morte di Mosè e la fine del Pentateuco.
Le primizie dei doni al Donatore
Alla fine del secondo lungo discorso di Mosè (Dt 4,44–26,19), si trova il ricordo di un oracolo contro Amalek, che riporta indietro la storia ricollegandola al primo episodio accaduto dopo l’uscita dalla schiavitù d’Egitto e agli inizi del cammino del popolo ricordato all’inizio del discorso in Dt 5,1ss.
Subito dopo vengono riportate due confessioni liturgiche scritte in prima persona singolare. Esse contengono il discorso diretto che l’israelita è chiamato a pronunciare nel tempio in occasione della presentazione a YHWH delle primizie della terra della promessa. La prima si configura come un “piccolo credo storico” (26,1-11) e la seconda come la preghiera vera e propria in occasione dell’offerta delle primizie (26,12-15).
Una volta entrato in possesso della terra donatagli da YHWH, e che continuamente gli dona nel presente (nōtēn, participio), all’israelita è comandato un atto liturgico che è più di un viaggio, è quasi una ripetizione dell’uscita dall’Egitto e dell’entrata nella terra della promessa. Un atto che gli fa rivivere l’esodo e la grazia liberatrice di YHWH goduta là in quel tempo, facendo emergere dal semplice israelita un membro consapevole del popolo dell’elezione.
Egli riporrà in una cesta le primizie (rē’šît) e la porterà nel luogo che, durante il regno di Ezechia, è stato deputato a luogo centralizzato del culto, il tempio di Gerusalemme. Lì è il luogo (māqôm, termine che nel giudaismo rabbinico diventerà uno dei nomi di YHWH) scelto da YHWH per far abitare (yāšab) il suo nome (šēm, altro termine che nel rabbinismo verrà a indicare il nome di YHWH). In un ambiente liturgico, l’israelita darà la cesta al sacerdote, che la deporrà davanti all’altare di YHWH, «tuo Dio» (v. 4). I frutti sono portati alla sorgente della fecondità, della vita, della terra donata: il Donatore.
L’offerta è memoria del Donatore, della dipendenza felice dal Dio personale e comunitario, che è fonte di ciò che si può godere sulla terra, ancorché frutto del proprio lavoro.
Radici ingloriose: un arameo errante, straniero residente
Davanti all’altare che rappresenta YHWH, l’israelita «risponde e dice» (v. 5), proclama cioè la propria fede in YHWH intervenuto nel corso della storia, dal tempo di Giacobbe al godimento dei frutti nella terra che «stilla latte e miele».
Gli inizi della storia degli israeliti sono visti in Giacobbe, nato da Isacco e da Rebecca. Con un lungo viaggio il fidato servo di Abramo era andato in Aram Naharàim, alla città di Nacor, per cercarvi la sposa del padroncino Isacco (cf. Gen 24,10). L’“Aram dei due fiumi” corrisponde all’Alta Mesopotamia, dove si trovava Carran, residenza dei parenti di Abramo.
Giacobbe è visto come un pastore errante, smarrito (< ’ābad), un membro del popolo che si trova ancora fuori della terra, promessa (cf. Gen 28,4.15; 35,12) ma ancora non in suo possesso e, infine, come un esule/straniero in terra d’Egitto.
L’israelita riconosce le umili origini del proprio popolo: un arameo disperso e smarrito, senza radici e senza aspettative sicure, senza casa e senza sicurezze, costretto a vagare in cerca di terre che diano da vivere a lui e ai suoi animali, ma che si trova a dover scendere (< yārad) in terra d’Egitto per abitarvi come straniero residente (< verbo gûr, da cui il denominativo gēr).
YHWH libera nella storia dominata
Niente di glorioso nelle radici del popolo a cui appartiene l’israelita orante nel tempio. Radici umili e umiliate, schiavizzate. Una radice che da poche persone divenne sì popolo (gôy) grande, forte e numeroso per fecondità umana, ma pur sempre oppresso sotto una servitù pesante (‘ăbôdāh qāšāh) e malvagia imposta dal faraone.
L’orante si identifica con i suoi padri sottoposti a schiavitù in Egitto. “Gridammo/wanniz‘aq” (v. 7) la nostra querela giuridica a YHWH e il Dio dei nostri padri ascoltò (wayyišma‘ < šāma‘) il nostro grido/voce/tuono (qōlēnû), vide (wayyar < rā’āh) la nostra umiliazione, la nostra pena, la nostra oppressione, e ci fece uscire (wayyôṣi’ēnû < yāṣā’) con mano potente e prodigi vari, ci fece entrare (waybi’ēnû < bô’) in questo luogo (māqôm) e ci diede in dono (wayyittēn < nātan) questa terra (hā’āreṣ) che stilla di latte e di miele”.
YHWH libera nella storia perché è più potente di ogni faraone schiavista. Egli non può sopportare la vita di un popolo oppresso dalla schiavitù. Come non lo vuole per Israele sua primizia e proprietà particolare (segullāh, ‘am segullāh, cf. Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18), così non lo vuole per nessun altro popolo. Sua è tutta la terra e tutte le genti sono iscritte nella tavola dei popoli generati dai progenitori (cf. Gen 10).
YHWH nutre nella terra donata
Dal momento che YHWH è capace di liberare il suo popolo nella storia, egli deve essere stato anche autore della creazione, unico Dio e signore di tutta la terra (cf. Is 43,8-13; 44,6-8.24-28; 4520-25) e causa ultima della fecondità della terra.
L’orante si sente parte viva di una comunità intergenerazionale che sfida la storia e riconosce che YHWH ha mantenuto la sua promessa e, nella terra della libertà, non fa mancare l’abbondanza dei suoi frutti. Non che ad ogni passo stilli latte e miele… Comunque, è una terra che non fa mancare i suoi frutti e, alla vista trasognata e credente dell’orante, essa diventa la migliore delle terre possibili.
Anche in Egitto c’era pane in abbondanza e pentole piene di carne (cf. Es 16,3) e ogni ben di Dio: «Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto, gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio» si lamentava il popolo nel deserto (Nm 11,5).
Ogni ben di Dio, condito però con l’aceto della schiavitù. Pericolosa la natura senza la storia, l’eterno ritorno delle stagioni senza l’alba della libertà…
L’orante celebra nella professione di fede “storica” la memoria del fatto che YHWH “ci ha fatti venire/entrare/waybi’ēnû (< bô’)” (v. 9) – lui e i suoi padri con i quali fa corpo unico – nel luogo dove ora sorge il tempio, nella terra ricevuta in dono, dove stilla latte e miele. A sua volta l’orante è ora qui nel tempio dove “ha fatto entrare/fatto venire/hēbē’tî (< bô’)” il dono della sua riconoscenza. È qui per ricambiare YHWH con la stessa moneta, riconoscendo l’appartenenza a YHWH, Dio della libertà nella storia, anche delle primizie (rē’šît) prodotte dalla terra donata. Sono prodotti di una terra donata e non posseduta, in cui egli abita come straniero residente affittuario.
Primizie coltivate da un popolo libero e non umiliato nella schiavitù.
Ti prostrerai dinanzi a YHWH tuo Dio
Il libro del Deuteronomio conclude le istruzioni per la celebrazione liturgica della presentazione al tempio delle primizie con il comando di “prostrarsi dinanzi/wehištaḥăwîtā lipnê”/gr. LXX: proskyneseis… enanti a YHWH, il Signore di Israele e di ogni membro del popolo.
L’israelita deve prostrarsi dinanzi al re, al re dei re, più potente di ogni faraone, re di tutta la terra, a cui appartengono tutti e popoli e ogni cosa, re liberatore e grande nell’amore fedele (ḥesed).
L’orante dovrà prostrarsi non davanti a un dio cieco e narcisistico, chiuso nel delirio della sua onnipotenza slegata dallo ḥesed che scalda il cuore del “riscattatore/gô’ēl”.
L’israelita dovrà prostrarsi al Dio della vita, della libertà, della comunione presente nel suo popolo.
Gioia per familiari, leviti e forestieri
Le primizie ridonate simbolicamente a YHWH saranno compartecipate dai propri familiari del clan (bêtekā), dai leviti (lēwî) – i servitori di YHWH nel tempio appartenenti al basso clero, dipendenti per il loro sostentamento dalla carità dei correligionari –, e dai forestieri residenti (gēr).
Gli stranieri residenti erano sì protetti da leggi generose in Israele, ma pur sempre esposti alla labilità del salario e all’incertezza della reazione che potevano trovare nella gente comune. La dimenticanza della storia è una donna sempre incinta di gente ignorante, altezzosa, ignobile e gretta di cuore.
La gente di Israele può infatti dimenticare di dover amare il forestiero residente perché «Dio ama il forestiero» (Dt 10,18, perché «il Signore protegge il forestiero» (Sal 146,9a) e, infine, perché anche gli israeliti vissero da stranieri in Egitto (cf. Dt 5,15; 23,8).
Gente immemore può dimenticare che la terra di Israele è terra di Dio (Lv 25,23 «La terra è mia!», dice YHWH) e Israele vive da forestiero affittuario nella terra ricevuta in dono (cf. Nm 27,12; Gs 24,1; Sal 135,12; 136,21-22; Sir 46,8).
Ger 35,7 ammonisce: «Non costruirete case, non seminerete sementi, non pianterete vigne e non ne possederete, ma abiterete nelle tende tutti i vostri giorni, perché possiate vivere a lungo sulla terra dove vivete come forestieri».
La terra non è santa, ma la terra è del Santo. Israele può anche perdere la terra, dono condizionato a una condotta morale impeccabile da perseguire con radicalità e ben superiore a quella delle genti coeve e circostanti (cf. Dt 16,20: «La giustizia [ṣedeq] e solo la giustizia seguirai [tirdōp, “incalzare/andare a caccia/seguire le tracce/cercare”], per poter vivere e possedere la terra che il Signore, tuo Dio, sta per darti»).
Tema teologico scottante quello della terra. Tema che si bada bene di non toccare mai nei vari dialoghi interreligiosi e nei documenti ufficiali…
All’orante è infine comandato di “gioire/weśāmaḥtā” (v. 11). «La gioia per tutto il bene/i beni (bekol-haṭṭôb) che YHWH tuo Dio ti ha dato» (nātan) è espressa in un banchetto conviviale; essa è espressione di persone e popoli liberi, liberi nella comunione anche con i più fragili dei suoi membri (leviti) e dei suoi ospiti più o meno inseriti nella società, ma pur sempre bisognosi di protezione (i gērîm).
Il banchetto della gioia.
Gioia di gente libera, gente con forse non troppi beni, ma condivisi.
Gioia di un popolo che adora il Dio della libertà, della vita, della comunione.
Gioia di un popolo appartenente al Dio della gioia.
«La gioia del Signore è la vostra forza» (Ne 8,10).
Anzi, «Il Signore esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).
Questo Dio mi piace.
Vale la pena di adorarlo, e solo lui…
Nel deserto
Dopo aver ricevuto il battesimo, di cui però non aveva strettamente bisogno, pieno di Spirito Santo battesimale (Lc 4,1a) Gesù è condotto per un cammino lungo (ēgeto, imperfetto < agō), con destinazione il deserto (4,2b): luogo di silenzio, di preghiera, di pura sopravvivenza, luogo di precarietà, di essenzialità e di prova. Dopo il cammino, Gesù è nel deserto (en + dat., stato in luogo dopo il moto a luogo che lo ha preceduto, tipica espressione grammaticale di Luca).
Gesù è all’inizio della sua vita pubblica. Come viverla? Quale Dio annunciare? Quale tipo di Messia impersonificare, tra quelli attesi dalla gente? Come agire per riunire e riportare il popolo di Israele al suo Dio?
Gesù è pieno (plērēs) di Spirito Santo e nello Spirito è condotto nel deserto. Non vi è spinto da una forza esterna (in questo caso ci sarebbe la preposizione hypo + gen.) ma avvolto, impregnato, accompagnato dallo Spirito. Con altri studiosi, intendo en + dat. come l’espressione greca equivalente alla preposizione ebraica be; un ev sociativus, di accompagnamento.
È il Padre che lo conduce nel deserto (passivum divinum), e lo Spirito Santo lo accompagna.
Gesù ha bisogno di silenzio, di preghiera, della parola del Padre, di essenzialità. È il momento decisivo del discernimento.
Nel deserto Gesù rimane per il periodo simbolico di quaranta giorni, come quaranta furono i giorni o gli anni che segnarono le esperienze dei profeti e del popolo di Israele, necessari a fare dei veri discepoli, attenti alle movenze di Dio, alle sue parole, alle sue esigenze d’amore.
Israele cammina per quarant’anni nel deserto, mangia la manna (Es 16,35; Gs 5,6), guidato da YHWH (Am 2,10), ma disgustandolo (Sal 95,10). Mosè rimane sul Sinai quaranta giorni e quaranta notti (Es 24,18); le spie perlustrano per quaranta giorni la terra dell’abbondanza (Nm 13,25); Aronne muore proprio al termine del viaggio di quarant’anni del popolo nel deserto (Nm 33,38); Elia cammina per quaranta giorni verso l’Oreb/Sinai alla ricerca delle sue radici spirituali e profetiche (1Re 19,8).
Il deserto è il luogo di possibile rifugio (Gdc 20,42; 1Sam 23,14-26; 1Mc 2,29; 9,33; Ger 9,1), luogo del primo amore dei giovani fidanzati (Ger 2,2) e luogo di ricreazione dell’amore coniugale violato (Os 2,16). Il deserto è però anche un luogo molto pericoloso, anidro e abitato da scorpioni mortali: «… deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua…» (Dt 8,15).
Tentato e provato
Gesù sta nel deserto, ben equipaggiato dello Spirito Santo, pronto ad affrontare anche la tentazione e la prova. Ammoniva il Siracide: «Figlio, se ti presenti per servire (douleuein) il Signore, prepàrati alla tentazione (hetoimason tēn psychēn sou eis peirasmon). Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova (epagōgēs)» (Sir 2,1-2). Gesù ne è consapevole.
E, infatti, egli viene tentato in continuità (peirazomenos, part. presente) dal “Diabolos/Divisore”. Il “Divisore” (< dia-ballō, getto in mezzo) lo tenta direttamente al male, a separarsi cioè dalla voce e dalla volontà del Padre, dalla modalità corretta con cui vivere la propria messianicità e far venire nel mondo gli anticipi del regno di Dio.
Gesù era unito totalmente al Padre come “il” Figlio di Dio, l’amatissimo/Unico, sede della compiacenza del Padre e riconosciuto subito dopo il battesimo (cf. Lc 3,22). Ma tutta questa grande realtà intima, vita nascosta nella Trinità, doveva venire alla luce, essere provata a livello della sua umanità. In tal modo egli poteva essere messo alla prova in tutto, eccetto il peccato, luogo non della solidarietà redentrice nella vita ma della complicità nel male divisivo e mortifero.
Gesù è condotto dal Padre nel deserto, vi rimane accompagnato dallo Spirito, per essere tentato al male dal Divisore e, nello stesso tempo, per essere messo alla prova/verifica nel bene del suo cuore, nella sua fedeltà al Padre anche nella sua umanità. Nel deserto Gesù è sottoposto alla verifica di ciò che lo muove nel cuore. Ciò che ha nel cuore deve salire alle labbra e inverarsi nella vita.
Come con Gesù, YHWH aveva già operato in tal modo nei tempi antichi con Israele, il popolo di cui Gesù è la “gloria” (cf. Lc 2,32b): «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto – ammonisce Mosè nel suo secondo grande discorso riportato nel libro del Deuteronomio –, per umiliarti (lema‘an ‘annōtekā/meglio: renderti umile, piegato) e metterti alla prova (lenassōtekā), per sapere (lada‘at) quello che avevi nel cuore (bilbābekā), se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato (way‘annekā), ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,2-3).
Il Vangelo di Luca presenta tre tentazioni diaboliche/divisive tese direttamente al male, proposte dal Diabolos/Divisore contro Gesù. Egli però le sopporta, le affronta a viso aperto, le vince e le supera. In tal modo egli, al tempo stesso, le trasforma in prove: egli vince le tentazioni mettendo in tal modo alla prova e testificando anche esternamente la sua volontà di bene unita a quella del Padre, nella compagnia dello Spirito Santo.
Le tre tentazioni/prove sono riassuntive di tutto quello che Gesù dovrà sopportare nella vita pubblica che potrebbe allontanarlo dal suo cammino verso Gerusalemme, verso il compimento della volontà del Padre.
Alla fine delle tre tentazioni, sconfitto, il Diabolos/Divisore si allontanerà da Gesù “fino al tempo (opportuno/decisivo/escatologico)/achri kairou” (4,13). Il Diabolos/Divisore verrà al momento dell’arresto di Gesù sul Monte degli Ulivi, al tempo delle tenebre, della potenza violenta e ingiusta instillata da Esso negli avversari: «Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete mai messo le mani su di me – contesta Gesù a chi lo arresta –; ma questa è l’ora vostra (hautē estin hymōn hē hōra) e il potere delle tenebre (kai hē exousia tou skotous)» (22,53).
Il Diabolos/Divisore possiede un’intelligenza spirituale lucidissima, ma non obbedienziale e discepolare. Nella terza tentazione egli cita ben due versetti biblici sull’assistenza che YHWH ha promesso ai suoi fedeli (Sal 91,11-12; Dt 6,16). Il Divisore stravolge però il senso del testo per volgerlo al proprio interesse. Non vuol instillare la fiducia in YHWH quanto provocare l’intervento divino in occasione di una manifestazione di messianismo esibizionistico.
Pane da sassi, potere “divisivo”, voli pindarici
Messianismo miracolistico e populistico. Pane dai sassi. Il Diabolos/Divisore tenta Gesù a partire dalla sua messianicità divina: la dimostri assecondando i bassi desideri del popolo, i suoi bisogni elementari, trasformando i sassi in pane. Non presti attenzione alla libertà dell’uomo e del popolo, ma assecondi solo i suoi bisogni primari, sfruttando il bisogno e la credulità popolare. Un messianismo miracolistico interessato, parziale, disattento ai bisogni profondi dell’uomo.
Messianismo politico divisivo e malefico. Il Diabolos/Divisore fa intravedere a Gesù tutti i regni della terra, su cui egli gli darà il pieno potere (tēn exousian tautēn hapasan) a patto che prima Gesù gli presti adorazione (ean proskynesēis enopion emou). Un messianismo impostato quindi su un potere politico diabolico, divisivo, faraonico, di puro dominio. Esso non crea servizio, comunione, festa. Un potere faraonico. Un potere che fornisce forse molti mezzi, ma non il fine e non la libertà.
Miracolismo esibizionistico. Voli pindarici. Rispetto al Vangelo di Matteo (Mt 4,1-11), Luca sposta a un terzo momento la tentazione con la quale Gesù è posto sul pinnacolo del tempio, ricordato all’inizio e alla conclusione del vangelo (Lc 1,1-25 e 24,53).
Lo spigolo sud-est della spianata del tempio poteva raggiungere un’altezza di quasi 50 metri sopra la valle del Cedron. Il Diabolo/Divisore invita Gesù a gettarsi nel vuoto, richiamando ben due versetti biblici che citano l’assistenza assicurata da YHWH ai suoi fedeli (Sal 91,11-12; Dt 6,16). Il Divisore conosce perfettamente la lettera della parola di Dio, ma non vede il suo connotato di presenza vitale utile di YHWH promessa ai credenti in lui. Al Divisore non interessa sottolineare la provvidenza divina, quanto provocare inutilmente la prova/manifestazione di questa presenza salvifica per fini puramente esibizionistici e non veramente utili alla vita delle persone. Il Diabolos stravolge la parola di Dio per volgerla ai suoi bassi interessi personali.
Nella sua vita pubblica Gesù non compirà alcun segno o miracolo (dynamis sinottica o sēmeion giovanneo che sia) che non sia utile, positivo, a favore degli altri. Il segno del fico seccato (assente nel Vangelo di Luca, ma narrato in Mt 21,18-22 e soprattutto nel parallelo racconto intercalare di Mc 11,12-14.15-19.20-24) non vuol essere una maledizione arbitraria e capricciosa di Gesù su un albero colto in un tempo di infecondità “naturale” e seccato da Gesù per tragico simbolismo (cf. Mc 11,12-14.20-26), quanto un’azione simbolica compiuta da Gesù per dimostrare platealmente l’infecondità del popolo di Israele, chiuso al suo insegnamento di Gesù nel tempio, ridotto secondo lui a covo di ladri invece di essere casa di preghiera per tutte le nazioni (Mc 11,5-19, con i venditori cacciati dal tempio).
Parola che sazia, adorazione del Signore Dio, nessuna tentazione verso di Lui
Gesù vince la prima tentazione citando Dt 8,3 che vede il cibo dell’uomo soprattutto nella parola di Dio. Fornire questo pane è la missione che Gesù sente come propria: dare la Parola che salva, aiutando l’uomo a procurasi il pane con l’onesto lavoro quotidiano (e dandogli un fine che dia senso a questo!).
Gesù vince la seconda tentazione citando il passo di Dt 6,13, che conclude una pericope dedicata al comandamento dell’amore di Dio, la pericope dello Shema‘ (Dt 6,4ss), preghiera quotidiana di Israele. YHWH ha dimostrato di possedere un potere salvifico, vivificante, liberante. L’opposto del potere faraonico, malefico, oppressivo e mortifero. Il potere è a servizio di una politica che renda vivibile e serena la libera convivenza umana, tendente alla comunione fra le persone e i popoli. Solo l’uomo che venera il Dio della libertà e del servizio, che libera dalla schiavitù perché sente il grido degli oppressi, potrà a sua volta esercitare un potere politico positivo, volto al servizio della vita e della crescita dell’umanità del suo popolo e della collaborazione/comunione fra i popoli. Gesù rifiuta un messianismo politico malefico e oppressivo. Ci saranno persone con il dono del servizio politico, ma Gesù sente come prioritaria per sé la missione di annunciare il Dio della libertà, dell’amore e della comunione.
Gesù vince la terza tentazione con la citazione di Dt 6,16, appartenente anch’esso alla pericope dello Shema‘. Chi ha fede in YHWH e segue con fiducia da discepolo la sua parola non ha bisogno di mettere alla prova ogni momento l’amore di YHWH per i suoi fedeli, come se una mamma dovesse ogni momento rispondere qualcosa ai suoi bambini piccoli e immaturi che le chiedono a ogni piè sospinto: “Mamma, mi vuoi bene? Mamma, mi vuoi bene? Dimmi che mi vuoi bene, mamma…!”. Gesù sa che può fidarsi in ogni momento della volontà affidabile di bene del Padre che costituisce lo sfondo stabile su cui muove i suoi passi e i movimenti del suo cuore. Gesù non dubita dell’amore del Padre. Non ha bisogno di chiederne conferma ad ogni momento, e per motivi futili. Rapportarsi così a Dio non significa solo metterlo alla prova, ma tentarlo. Significa metterne in dubbio l’essenza stessa di Padre. Non occorre voler “verificare”, “testare” ogni momento la volontà di bene di Dio, voler saper ogni momento cosa c’è nel suo cuore, se egli vorrà esser fedele alle sue promesse… Non si può mettere alla prova Dio, il cui nome è «Io sarò là come e dove vorrò essere per te» (cf. Es 3,14). Rapportarsi diversamente nei suoi confronti significa tentarlo, mettere in dubbio la sua disposizione di fondo, la sua essenza di Dio di amore redentore e provvidente.
Messo alla prova e vittorioso
Gesù ha accettato e superato le tre tentazioni al male avanzate dal Diabolos, aiutato in questo dallo Spirito Santo che lo accompagnava e che gli ha fatto vivere filialmente la parola di Dio.
Gesù ha superato le tre prove/“verifiche” che il Padre ha “lasciato” sul suo cammino – abbracciandole con lui nella sua paternità amorosa –, perché venisse alla luce chiaramente e fosse verificato e testato che anche con tutta la sua umanità Gesù intendeva rimanere fedele alla volontà di bene del Padre, senza scegliere per la sua vita pubblica modalità messianiche esibizionistiche, dominative e miracolistiche.
Lo ha fatto per sé e per noi, suoi discepoli, perché non venissimo meno nel faticoso ma gioioso cammino della fede: «… perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17).
Nel deserto Gesù ha visto il nostro deserto e la nostra fragilità. Per questo «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza» (Eb 5,2).
Messo alla prova, Gesù ha vinto diventando solidale nella comunione nel bene e non complice nella divisione mortifera del male. Per questo farà vincere anche i suoi fratelli: «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi (pepeirasmenon de kata panta kath’homoiotēta), escluso il peccato (choris hamartias). Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,15-16).
Il cammino quaresimale può partire col piede giusto.
Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News