Commento al Vangelo del 10 Marzo 2019 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 10 Marzo 2019

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Dall’analisi dei testi biblici emerge un dato curioso: gli empi non sono mai tentati da Dio; la tentazione è un privilegio riservato ai giusti. Ben Sirac raccomanda al discepolo: “Figlio, preparati alla tentazione. Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché Dio prova gli uomini ben accetti nel crogiolo del dolore” (Sir 2,1.4-5). Le disgrazie e i fallimenti mettono a dura prova la fedeltà al Signore, ma anche la fortuna ed il successo possono costituire un’insidia per la fede.

La tentazione offre l’opportunità di fare un balzo in avanti, di migliorare, di purificarsi, di consolidare le scelte di fede. Comporta anche il rischio dell’errore: “Il fascino del vizio deturpa anche il bene – afferma l’autore del libro della Sapienza – e il turbine della passione travolge una mente semplice” (Sap 4,12). Tuttavia la tentazione non è una provocazione al male, ma uno stimolo alla crescita, un passaggio obbligato per raggiungere la maturità.

Paolo assicura: “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Cor 10,13).

L’autore della Lettera agli Ebrei ricorda un’altra verità consolante: Gesù ha sperimentato le nostre stesse tentazioni, per questo “sa compatire le nostre infermità” e “per il fatto di essere stato messo alla prova, è in grado di venire in aiuto di coloro che subiscono la tentazione” (Eb 4,15; 2,18).

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Signore non ti chiediamo di risparmiarci dalle difficoltà e dalle tentazioni, ma di uscirne maturati”.

Prima Lettura (Dt 26,4-10)

Mosè parlò al popolo, e disse: 4 “Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all‘altare del Signore tuo Dio 5 e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. 6 Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. 7 Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; 8 il Signore ci fece uscire dall‘Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, 9 e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. 10 Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato. Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio”.

“Il meglio delle primizie del tuo suolo lo porterai alla casa del tuo Dio” (Es 23,19). Questa era la disposizione della Torah e in primavera, all’inizio della mietitura dell’orzo, il primo covone veniva portato nel tempio e offerto al Signore (Es 23,16). Dopo sette settimane, a conclusione della raccolta del grano, si celebrava la festa di Pentecoste e anche in questa occasione erano presentate a Dio le primizie (Es 34,22), non di tutti i frutti del campo, ma solo di quelle sette specie che sono il simbolo della terra d’Israele: il grano, l’orzo, l’uva, i fichi, i melograni, le olive e i datteri (Dt 8,8).

Con questo rito si proclamava solennemente che Dio era il padrone della terra e di quanto essa produce. Oltre a questa offerta pubblica ce n’era un’altra, privata, celebrata da ogni singolo gruppo familiare. E’ a questa che fa riferimento la lettura di oggi.

Quando i frutti cominciavano a spuntare sugli alberi, il contadino segnava con un nastro i primi e, non appena erano maturi, li poneva in un cesto. Poi, accompagnato da tutta la sua famiglia, li portava al tempio. Nel consegnarli al ministro di Dio, diceva: riconosco che questi frutti non mi appartengono, sono un dono del Signore, sono cresciuti sulla terra che egli mi ha dato (Dt 26,1-3).

E’ a questo punto che inizia la nostra lettura: il sacerdote prendeva il cesto e lo deponeva davanti all’altare del Signore, poi invitava il contadino a fare la sua professione di fede. Lo aiutava recitando ad alta voce, in ebraico, ogni versetto del Credo e il pellegrino ripeteva, parola per parola, ciò che udiva.

Alcuni pensano che il Credo sia una specie di elenco di verità astratte che è necessario ammettere se non si vuole essere considerati eretici.

Se chiedessimo invece a un ebreo qual è la sua fede, egli ci risponderebbe con un racconto. Comincerebbe così: “Mio padre, Giacobbe, era un arameo errante” e continuerebbe narrando la storia del suo popolo e le gesta compiute dal Signore in suo favore.

La parte centrale della lettura di oggi (vv.5-9) contiene, in sintesi, proprio questa storia di salvezza. In essa si colgono facilmente due contrasti.

Il primo fra la situazione da cui ha avuto origine Israele (…da un “arameo errante”, senza terra, senza sicurezza, senza patria) e la realtà attuale: nel tempio c’è un agricoltore benestante che, con la sua famiglia, celebra sereno la festa, offre i frutti dei suoi campi, si rallegra perché i raccolti si annunciano abbondanti. L’indigenza si è mutata in prosperità.

Il secondo contrasto è fra la condizione di schiavitù e quella della libertà. In terra straniera Israele è stato oppresso, maltrattato, umiliato, ora vive libero e felice.

Viene da chiedersi: chi ha operato questi prodigiosi capovolgimenti?

Nella sua professione di fede, il pio israelita dà la risposta: “Il Signore vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele” (vv.8-9).

Con la cerimonia delle primizie e con la proclamazione della professione della loro fede, gli israeliti riconoscono che Dio è stato fedele alle sue promesse e che la loro vita dipende completamente dalla sua generosità. Tutto ciò che hanno è un dono suo.

Che fine facevano le primizie portate al tempio dal contadino?

Forse la risposta che ci viene in mente è: erano donate ai ministri che avevano officiato il rito.

Peccato che la nostra lettura si fermi al v. 10 e non riporti i versetti seguenti. I frutti non venivano bruciati sull’altare né erano dati ai sacerdoti. Erano consegnati ai “rappresentanti Dio”, i poveri. Erano offerti ai leviti, ai forestieri, agli orfani ed alle vedove (Dt 26,11-12). La festa poteva considerarsi ben riuscita e gradita a Dio solo dopo che i bisognosi e gli indigenti erano stati saziati. Prima di lasciare il santuario dove aveva offerto le primizie, il contadino era invitato a proclamare dinanzi al Signore suo Dio anche questa formula: “Ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato e l’ho dato al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova, secondo quanto mi hai ordinato” (Dt 26,13).

C’è un fatto che può essere verificato da tutti: i luoghi di preghiera (non importa di quale religione) costituiscono un richiamo irresistibile per i poveri. Quasi per istinto essi sembrano percepire che chi si avvicina a Dio diviene solidale e generoso con chi è nel bisogno.

Questo brano è stato scelto come apertura della Quaresima perché, a tutti coloro che chiama a conversione, Dio mostra le trasformazioni prodigiose che opera in chi si fida di lui.

Non è stato facile per Israele credere nel Signore. Più volte è stato tentato di rimpiangere la situazione di schiavitù in cui era vissuto in Egitto. Dicevano i rabbini: “Non fu solo necessario trarre gli Ebrei dall’Egitto; fu anche necessario trarre l’Egitto dal cuore degli Ebrei”.

Tuttavia, coloro che si sono fidati del Signore hanno verificato e possono testimoniare che quando egli invita ad uscire da una terra è sempre per introdurre in un’altra migliore.

Seconda Lettura (Rm 10,8-13)

Fratelli, 8 che dice dunque la Scrittura? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo.
9 Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
10 Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11 Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso.
12 Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. 13 Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.

Israele ha avuto – dice Paolo all’inizio della lettura – l’opportunità di giungere alla salvezza perché ha avuto vicino la parola del Vangelo, l’ha ascoltata dalla bocca stessa di Cristo e degli apostoli. Purtroppo non ha capito che il suo esodo verso la libertà non era ancora concluso, si è stancato di seguire il Signore, si è fermato. Solo una primizia di questo popolo ha capito e ha seguito Cristo (Rm 11,16).

A costoro viene chiesto di professare la loro fede e di questa fede viene anche enunciata la formula che tutta la riassume: Gesù è il Signore.

È questa la prima formula usata come “Credo” nella chiesa primitiva. Paolo lo ha già citato nella prima Lettera ai Corinti: “Nessuno può dire: Gesù è il Signore se non nello Spirito Santo” (1 Cor 12,3). Solo chi è animato dallo Spirito può proclamare che un condannato, uno sconfitto è il Salvatore del mondo. Questa formula è stata conservata nel Gloria e ogni domenica noi ripetiamo: Tu solo sei il Signore, Gesù Cristo!

La fede in Gesù-Signore – continua Paolo – deve essere proclamata in due modi: con il cuore e con la lingua.

Con il cuore significa: con l’adesione della vita. La fede in Cristo deve portare a scelte basate su principi e su valori completamente nuovi.

Poi è necessaria la professione di fede con la bocca. La bocca è strettamente legata al cuore. Lo ha detto Gesù: “Con la bocca si esprime ciò che si ha nel cuore” (Lc 6,45). Chi è restio o addirittura si vergogna di dichiarare la propria fede vuol dire che è rimasto coinvolto solo in modo superficiale da Cristo.

Chi proclama il Credo insieme ai fratelli prende coscienza di appartenere ad un unico popolo di credenti che costituiscono “come la primizia delle sue creature” (Gc 1,18). Non solo, ma è obbligato a considerare senza senso ogni distinzione fra “giudeo e greco”. L’unica professione di fede abbatte tutte le barriere create dalle differenze di razza, di cultura, di condizioni sociali ed economiche, di temperamento e di carattere.

Vangelo (Lc 4,1-13)

1 Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto 2 dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame.
3 Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane”. 4 Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l‘uomo”.
5 Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: 6 “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. 7 Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo”. 8 Gesù gli rispose: “Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai”.
9 Il diavolo lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; 10 sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; 11 e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. 12 Gesù gli rispose: “E‘ stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo”.
13 Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.

Ogni anno, nella prima domenica di Quaresima, la liturgia vuole che si rifletta sulle tentazioni di Gesù. Presenta il modo in cui il Maestro le ha affrontate per indicare a noi come possono essere riconosciute e superate.

Leggendo il brano di oggi, però, si ha l’impressione che l’esperienza di Gesù non ci possa aiutare molto: le sue tentazioni sono troppo diverse dalle nostre, sono strane, addirittura stravaganti. Chi di noi cederebbe mai alla sollecitazione di prostrarsi davanti al diavolo? Chi gli darebbe retta se proponesse di trasformare una pietra in pane o se ci invitasse a buttarci da una finestra? No, le nostre tentazioni sono molto più serie, più difficili da vincere e poi non durano solo una giornata, ma ci accompagnano per tutta la vita.

Questa difficoltà nasce dalla mancata comprensione del “genere letterario”, vale a dire, del modo usato dall’autore per comunicare il suo messaggio. Il Vangelo di oggi non è la cronaca fedele, redatta da un testimone oculare, della sfida fra Gesù e il diavolo (né Luca né alcun altro vi hanno assistito). Il brano è una lezione di catechesi e vuole insegnarci che Gesù è stato messo alla prova non con tre, ma “con ogni specie di tentazione” – come afferma chiaramente il testo (v.13).

Per dirla in parole semplici e chiare: non siamo di fronte al racconto di tre episodi isolati della vita di Gesù, ma a tre parabole in cui, attraverso immagini e richiami biblici, si afferma che Gesù è stato tentato in tutto come noi, con un’unica differenza: egli non è mai stato vinto dal peccato (Eb 4,15). Questi tre quadri sono la sintesi simbolica della lotta contro il male da lui sostenuta in ogni momento della sua vita.

Forse qualcuno resta un po’ sconcertato di fronte all’idea che Gesù abbia avuto dubbi come noi, che abbia incontrato difficoltà nell’adempimento della sua missione, che abbia scoperto solo gradualmente il progetto del Padre. Abbiamo quasi paura di abbassarlo troppo al nostro livello. Ma Dio non ha sentito avversione verso la nostra debolezza, l’ha fatta sua e, nella nostra carne mortale, ha vinto il peccato.

Prima di prendere in esame queste tre “parabole” facciamo un’altra premessa.

A differenza di Matteo che dice che Gesù fu tentato solo alla fine dei quaranta giorni di digiuno (Mt 4,2), Luca afferma che la tentazione ha accompagnato Gesù durante tutto il tempo trascorso nel deserto. Con questo richiamo al deserto e al numero quaranta, Luca intende collegare l’esperienza di Gesù con quella di Israele, messo alla prova durante l’Esodo. Egli ripete l’esperienza del suo popolo: “Dio ti ha fatto percorrere il deserto in questi quarant’anni per metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti” (Dt 8,2). A differenza di Israele, Gesù, alla fine dei suoi “quaranta giorni”, uscirà dal “deserto” pienamente vittorioso, il male sarà costretto ad ammettere la sua totale impotenza nei suoi confronti.

Ora consideriamo i tre quadri in cui sono condensate tutte le prove superate da Gesù.

La prima tentazione: “Di’ a questa pietra che diventi pane!” (vv.3-4).

Il racconto delle tentazioni viene subito dopo quello del battesimo che è stato commentato nella festa del battesimo del Signore. Abbiamo rilevato allora il fatto che Gesù, il giusto, il santo, non ha iniziato la sua missione rimproverando i peccatori, non si è limitato a dare loro delle indicazioni, mantenendosi a distanza, come facevano i farisei. Egli è andato a farsi battezzare assieme ai peccatori, nel punto più basso della terra, si è confuso in mezzo a loro, è divenuto uno di loro, ha scelto di percorrere al loro fianco il cammino che porta alla liberazione.

Condividere in tutto la nostra condizione umana però non è facile. Ecco allora la prima tentazione che Gesù ha avuto (non una sola volta, ma durante tutta la vita): servirsi del proprio potere divino per sfuggire alle difficoltà che gli uomini comuni incontrano. Essi hanno fame, si ammalano, si stancano, devono studiare per imparare, possono venire ingannati, sono soggetti a disgrazie e oppressi da ingiustizie… Bene, lui può sottrarsi a queste difficoltà e il diavolo lo invita a farlo; gli propone di non esagerare nell’identificarsi con gli uomini, gli suggerisce di fare dei miracoli per il suo tornaconto personale. Se Gesù lo avesse ascoltato avrebbe rinunciato ad essere uno di noi, non sarebbe stato realmente uomo, avrebbe solo fatto finta di esserlo.

Gesù ha capito quanto era diabolico questo progetto; ha usato sì il potere di compiere miracoli, ma mai per sé, sempre per gli altri. Ha lavorato, ha sudato, ha sofferto la fame, la sete, ha passato notti insonni, non ha voluto privilegi. Il momento culminante di questa tentazione fu sulla croce. Lì di nuovo fu invitato a compiere un miracolo per sé, fu sfidato a scendere. Se avesse compiuto il prodigio, se avesse rifiutato la “sconfitta”, Gesù sarebbe stato un trionfatore agli occhi degli uomini, ma sarebbe stato uno sconfitto davanti a Dio.

Questa tentazione si ripresenta, subdola, ogni giorno, anche a noi. Si ripresenta anzitutto come invito al ripiegamento egoistico su noi stessi senza pensare agli altri, come invito al rifiuto dell’atteggiamento solidale assunto da Cristo.

Si cede a questa tentazione quando le capacità che Dio ha dato vengono impiegate per soddisfare i propri capricci e non per aiutare i fratelli; quando ci si adegua alla mentalità corrente in cui ognuno cerca di arrangiarsi, di pensare solo al proprio tornaconto.

Gesù ha preferito essere povero e sconfitto con gli altri piuttosto che divenire ricco e star bene da solo.

In questa prima scena viene identificato e denunciato il modo errato con cui l’uomo si rapporta con le realtà materiali. E’ diabolico l’impiego egoistico dei beni, accumulare per sé, vivere del lavoro degli altri, cercare il piacere ad ogni costo, sperperare nel lusso e nel superfluo, mentre ad altri manca il necessario.

Alla proposta del diavolo Gesù risponde richiamandosi ad un testo della Scrittura: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Dt 8,3). Solo chi considera la propria vita alla luce della parola di Dio è capace di dare alle realtà di questo mondo il giusto valore. Non vanno disprezzate, distrutte, rifiutate, ma nemmeno trasformate in idoli. Sono solo creature, guai a considerarle degli assoluti.

La seconda tentazione: “Ti darò tutti questi regni, infatti sono stati posti tutti nelle mie mani…” (vv.5-8). Sembra un po’ esagerato quanto il diavolo afferma. Eppure è vero: la logica che regge il mondo, quella che regola i rapporti fra gli uomini non è quella del discorso della montagna (Mt 5-8), non è quella delle Beatitudini (Lc 6,20-26), ma quella opposta, quella del maligno (Gv 12,31; 14,30; 16,11).

La prima tentazione denunciava il modo errato di rapportarsi con le cose, questa seconda aiuta ad individuare il modo diabolico con cui ci si può rapportare con le persone, con i propri simili.

La scelta è fra il dominare e il servire, fra il competere e il divenire solidali, fra il sopraffare e il considerarsi servi. Questa scelta si manifesta in ogni atteggiamento e in ogni condizione di vita: chi si è fatto una erudizione o ha raggiunto una posizione di prestigio può aiutare a crescere chi ha avuto meno fortuna di lui, ma può anche servirsene per umiliare chi è meno dotato. Chi detiene il potere, chi è ricco, può servire i più poveri e coloro che sono stati meno favoriti, ma può farla da padrone nei loro confronti. La bramosia del potere è così irrefrenabile che anche chi è povero è tentato di sopraffare chi è più debole di lui.

L’autorità è un carisma, è un dono di Dio alla comunità affinché in essa ognuno possa trovare il suo posto ed essere felice. Il potere è invece diabolico, anche se viene esercitato in nome di Dio. Ovunque si esercita il dominio sull’uomo, ovunque si lotta per prevalere sugli altri, ovunque qualcuno è costretto ad inginocchiarsi o a inchinarsi di fronte a un suo simile, lì è all’opera la logica del maligno.

A Gesù non mancavano le doti per emergere, per scalare tutti i gradini del potere religioso e politico. Era intelligente, lucido, coraggioso, incantava le folle. Avrebbe certamente avuto successo… ma a una condizione, che “adorasse satana”, cioè, che si adeguasse ai princìpi di questo mondo: entrasse in competizione, ricorresse anche alla violenza, sopraffacesse gli altri, si alleasse con i potenti e impiegasse i loro metodi. La sua scelta è stata quella opposta: si è fatto servo.

La terza tentazione: è la più pericolosa perché mette in causa il rapporto fra l’uomo e Dio. La proposta diabolica è basata addirittura sulla Bibbia: “Buttati giù dal pinnacolo del tempio – dice il tentatore – perché sta scritto…” (vv.9-12). La più subdola delle astuzie del male è quella di presentarsi con un volto accattivante, di assumere un’aria devota, di servirsi della stessa parola di Dio (storpiata e interpretata in modo fuorviante) per condurre fuori strada.

L’obiettivo massimo del maligno non è quello di provocare qualche cedimento morale, qualche fragilità, qualche debolezza, ma minare alla base il rapporto con Dio. Questo obiettivo viene raggiunto quando, nella mente dell’uomo, si insinua il dubbio che il Signore non mantenga le sue promesse, che manchi di parola, che assicuri la sua protezione, ma abbandoni poi chi gli ha dato fiducia. Da questo dubbio nasce il bisogno di “avere delle prove”. Nel deserto il popolo d’Israele, stremato dalla fame, dalla sete, dalla fatica, ha ceduto a questa tentazione e ha esclamato: “Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). Ha provocato il suo Dio dicendo: se sta dalla nostra parte, se realmente ci accompagna con il suo amore, si manifesti concedendoci un segno, compiendo un miracolo.

Gesù non ha mai ceduto a questa tentazione. Anche nei momenti più drammatici si è rifiutato di chiedere al Padre una prova del suo amore. Non ha dubitato della sua fedeltà nemmeno sulla croce quando, di fronte all’assurdità di quanto gli stava accadendo, poteva essere indotto a pensare che anche il Signore lo avesse abbandonato.

Quando il Signore non realizza i nostri sogni cominciano le rimostranze: “Dov‘è Dio? Chissà se esiste! Vale la pena continuare a credere se egli non interviene per favorire chi lo serve?”. Se egli non dà le prove di amore che esigiamo, la fede fragile rischia di crollare.

Dio non ha promesso ai suoi fedeli di preservarli dalle difficoltà e dalle tribolazioni. Non ha promesso di liberarli miracolosamente dalla malattia, dal dolore, ma di dare loro la forza perché non escano sconfitti dalle prove. Non si può pensare che Dio ci tratti in modo diverso da come ha trattato il proprio Figlio unigenito.

Il brano di oggi si conclude con un’annotazione: “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare al tempo fissato” (v.13).

Luca parla anzitutto di ogni specie di tentazione, dunque, i tre quadri che ha dipinto vanno interpretati come una sintesi di tutte le tentazioni. Rappresentano, in modo schematico, i modi errati di rapportarsi con tre realtà: con le cose, con le persone, con Dio.

Luca lascia intravedere, fin dall’inizio del suo Vangelo, il momento in cui la tentazione si manifesterà nel modo più violento e drammatico: sulla croce.

Il diavolo non si è allontanato definitivamente, si è ritirato nell’attesa di tornare al tempo fissato.

 Si riparlerà di lui e della sua opera seduttrice più avanti, al momento della passione quando entrerà in Giuda e lo spingerà al tradimento (Lc 22,3). Quella sarà la manifestazione dell’impero delle tenebre (Lc 22,53), impero che, proprio quando penserà di celebrare il proprio trionfo, verrà sconfitto.

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