Commento al Vangelo del 10 marzo 2013 – Paolo Curtaz

ANNO C

IV DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Gs 5,91.10-12
Salmo Responsoriale: Dal Salmo 33
Seconda lettura: 2 Cor 5,17-21
Vangelo: Lc 15,1-3.11-32

Stiamo vivendo la quaresima più straordinaria della nostra storia.
Col suo gesto umile e sereno Benedetto ci ha ricordato due cose: che la Chiesa è di Cristo e che noi cristiani necessitiamo di conversione. Urgente. Ora.
Mentre sulla barca qualcuno gioca a bucare lo scafo e da fuori i soliti catastrofisti offrono consigli non richiesti (qualcuno mi spiega perché sono gli atei a dire al papa come si fa a fare il papa? Ma dai!), lo Spirito ci guida attraverso la Parola in attesa della Pasqua.
La Chiesa si converte al volto del Dio di Gesù: quello bellissimo del Tabor, quello che non manda le disgrazie (un Dio creatore, non distruttore, ditelo a quanti parlano di fine del mondo come se ne godessero…), quello che è un Padre.
Certo: in lui crediamo. È che non è chiara questa, cosa, è che non si vede tanto, è che dobbiamo re imparare a raccontarlo, questo volto.
Come fa Gesù raccontando la parabola del Padre misericordioso.

Pilota automatico
Occhio, però, a non inserire il pilota automatico: sappiamo già, è la parabola del figlio disgraziato che pretende l’eredità e se la mangia fra crapule ed escort e che poi, pentito, torna dal Padre.
Il problema è che la parabola parla di un altro figlio e che quest’altro figlio assomiglia molto a noi. E che Gesù, così introduce Luca, dice la parabola esattamente per coloro che, come i farisei, si comportano come il figlio maggiore.
È una parabola che scardina, quella del figlio prodigo. Che mette davvero tanto in crisi.

Maschere
I due figli protagonisti della parabola hanno una pessima idea di Dio. Entrambi.
Il primo figlio, scapestrato, pensa che Dio sia un concorrente, un avversario: se c’è io non posso realizzarmi. Dio è un censore, un preside severo, uno che non mi aiuta. Gli chiedo il mio, quello che mi deve (e da quando un padre “deve” l’eredità?), quello che mi spetta. 
Chiedere l’eredità significa augurare la morte. La ottiene e pone una enorme distanza fra sé e il padre, non vuole avere più nulla a che fare con lui.
Dio non c’è più, ora. Evviva.
Anche noi pretendiamo di vivere da figli facendo i servi. Uccidiamo il Padre pensando di essere migliori. Illudi. Quando finiscono i soldi gli amici se ne vanno, ovvio. Il figlio illuso si ritrova a pascolare i porci. I porci: l’animale impuro per eccellenza. E patisce la fame.
Rientra in sé stesso e ragiona: “Sono un idiota. In casa di mio padre anche il più umile dei servi ha pane in abbondanza! Ora torno e mi trovo una scusa…”
Sì, avete letto bene: contesto radicalmente l’interpretazione buonista del brano. Il figlio non è affatto pentito: è affamato.
E pensa che il padre sia un tontolone da manipolare.

L’altro figlio torna dal lavoro stanco e si offende della festa che il padre ha fatto in onore del figlio minore. Come dargli torto? 
Il suo cuore è piccolo ma la sua giustizia grande: sì, è vero, il Padre si comporta ingiustamente nei suoi confronti. Giusto: lui lavora da anni e non ha mai osato chiedere nulla. Come biasimarlo?
Il figlio maggiore pensa, come molti fra noi, che Dio sia uno da tenere buono, che ora fatichiamo ed obbediamo ma che, alla fine, avremo il premio, ci verrà riconosciuta la fatica che abbiamo vissuto e tutte le messe che abbiamo sopportato e tutte le gioie peccaminose che si siamo vietati.
Lui è uno mortificato, senza grilli per la testa, lui è il bravo figlio che tutti vorrebbero: perché il padre si comporta in quel modo?

Happy end?
Bene, fermatevi qui, ora. 
Niente bei finali, Luca si ferma. 
Non dice se il primo figlio apprezzò il gesto del Padre e, finalmente, cambiò idea. 
Né dice se il fratello, inteneritosi, entrò a far festa. 
La parabola finisce aperta, senza scontate soluzioni, senza facili moralismi e finali da Principe Azzurro. 
Puoi stare col Padre senza vederlo, puoi lavorare con lui senza gioirne, puoi lasciare che la tua fede diventi ossequio rispettoso senza che ti faccia esplodere il cuore di gioia.
Il vangelo ci dice ancora una volta che Dio ci considera adulti, che affida alle nostre mani le decisioni, che non si sostituisce alle nostre scelte.

Lo sciupone
E ora, per favore, smettetela di guardare questi due idioti, così simili a noi. 
Piccoli e meschini, come noi. E guardate al Padre, per favore. 
Un Padre che lascia andare il figlio anche se sa che si farà del male (l’avreste lasciato andare?). 
Un Padre che scruta l’orizzonte ogni giorno. 
Un Padre che corre incontro al figlio, cosa poco dignitosa nel rigido mondo ebraico e che si “appende” al collo del figlio.
Un Padre che non rinfaccia nulla, né chiede ragione dei soldi spesi, che non accusa, che abbraccia, che smorza le scuse (e non le vuole), che restituisce dignità, che fa festa. 
Un Padre ingiusto, esagerato, che ama un figlio che gli augurava la morte, che vaneggiava nel delirio falsificando il diritto, un Padre che sa che questo figlio ancora non è guarito dentro ma pazienta e fa già festa. 
Un Padre che esce a pregare (!) lo stizzito fratello maggiore, che tenta di giustificarsi, di spiegare le sue buone ragioni. 
Vedo questo Padre che accetta la libertà dei figli, che pazienta, che indica, che stimola. Lo vedo e impallidisco. 
Dunque: Dio è così? Fino a qui? Così tanto? Sì, amici. Dio è questo e non altro. 
Dio è così e non diversamente.

Ed è questo il Dio da raccontare nuovamente. Non quello dei loschi traffici, dei giochi di potere.
Perché di prodigo, esagerato, qui c’è solo il Padre.

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