Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli
Il brano delle “Beatitudini” introduce il famoso “Discorso della montagna” di Matteo, il primo di cinque grandi discorsi in cui l’evangelista ha raccolto tutti gli insegnamenti di Gesù durante il suo ministero, raggruppandoli per argomenti e intervallandoli con parti narrative sull’attività e gli incontri del Nazareno.
Il luogo, teatro del primo discorso, è “una montagna” su cui Gesù era salito (v.1); viene spontaneo pensare alla zona collinosa, spesso nominata nei sinottici, che sovrasta il lago di Galilea. Ora, poiché Luca, nel passo parallelo, dice che Gesù pronunciò il discorso delle Beatitudini in un luogo pianeggiante, è probabile che Matteo abbia attribuito al termine “montagna” un significato non geografico, ma teologico, volendo richiamare alla mente dei lettori lo scenario in cui fu promulgata l’antica Legge e dunque il monte Sinai. Analogamente, Gesù appare come il nuovo Mosè, che delinea per i suoi seguaci un nuovo “decalogo”, la nuova “legge” di quel “Regno dei cieli” che Egli è venuto ad annunciare e a inaugurare.
Che cos’è il “Regno dei cieli”? L’espressione è propria di Matteo, che la preferisce a “regno di Dio”, in segno di rispetto per il nome divino (che i Giudei evitavano di pronunciare) e anche per sottolinearne la alterità e trascendenza rispetto al mondo degli uomini. “Regno di Dio” è una realtà complessa e misteriosa, che è impossibile definire e di cui infatti Matteo parlerà attraverso le parabole del suo secondo grande discorso (cap.13, 1-52). In prima battuta, possiamo dire che esso è il progetto e l’azione di Dio per salvare gli uomini, preannunciato nel Primo Testamento, e che si rivela e si attua nella storia attraverso la parola e l’opera di Gesù.
Ora le Beatitudini rappresentano le condizioni per accedere a tale Regno (“Beati i poveri…..perché di essi è il Regno dei cieli”,vv. 3 e 10), condizioni imprescindibili per conseguire quella dimensione di “felicità” che lo caratterizza.
Le successive espressioni di Gesù sono a prima vista sconvolgenti o quanto meno difficili da accettare, perché sembrano avallare e “beatificare” situazioni umane di disgrazia, bisogno, sofferenza, persecuzione…….come è possibile che siano felici i miseri e i colpiti da sciagure?
Ma il senso cambia radicalmente se leggiamo il passo nel suo contesto biblico e soprattutto se intendiamo correttamente i “paradossi” pronunciati da Gesù.
“Beato” (makarios in greco e ashrè in ebraico) aveva un preciso significato nel Primo Testamento. Presso il popolo di Israele beato era chi aveva raggiunto la pienezza della vita, che, prima dell’esilio babilonese, veniva identificata nell’abbondanza di beni materiali, nella felicità familiare, nella prosperità. Dopo l’esilio, beato era colui che si lasciava guidare dalla sapienza di Jahvé espressa nella Torah, senza cedere alle seduzioni del male; colui che amava la Legge trovando in essa la propria soddisfazione (tema frequente nei Salmi, particolarmente esaltato nel salmo 118-
119). C’era poi una ricorrente promessa nei libri profetici, specie in Isaia: “Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno. Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo di Israele” (Is. 29, 18-19).
Ebbene, in Matteo 5 Gesù proclama che le promesse si sono realizzate, che ora i poveri sono felici, beati. Già, ma che cosa si intende per “povero” (“ptochos” in greco e “anawim” in ebraico)? Secondo la Bibbia egli è il bisognoso, colui che manca dell’essenziale per vivere e che, quindi, dipende da altri per la sua sopravvivenza; è l’oppresso, la vittima indifesa in balia dei potenti. Ma il termine ebraico, oltre a questo, designava i giusti, i miti, gli umili, coloro che confidano solo in Dio e non cercano altre forme e fonti di sicurezza.
Ora, mentre Luca, nel passo parallelo, si limita a nominare “i poveri” (Luca 6, 20), Matteo si preoccupa di aggiungere “in spirito”, proprio perché vuole far capire che la vera povertà (che può coincidere o no con quella materiale) è il distacco e la libertà dai beni, il non cercare in essi forme di appoggio o sicurezza, perché al contrario, come già nel Primo Testamento, ci si affida a Dio solo.
Come dice il biblista Don Bruno Maggioni, “il povero di spirito è soprattutto colui che concepisce se stesso (esistenza, competenza, capacità di ogni genere) in termini di gratuità e non di possesso: una gratuità che, essendo dono nella sua origine, continua ad essere dono nel suo uso, e si fa servizio” (“Il racconto di Matteo”, pag.68).
Ecco, per questo Gesù chiama “beati” i poveri, non tanto per il fatto di essere poveri, ma perché sono totalmente affidati a Dio, hanno fatto della Sua la loro logica, hanno voltato le spalle ai criteri del mondo, e allora “di essi è il regno dei cieli” (v.3). Il Maestro poi continua indicando le altre condizioni necessarie per accedere al Regno; e ancora l’essere afflitti, miti, misericordiosi, etc. conta non in sé, ma perché tutte queste situazioni sono oggetto della attenzione, consolazione, misericordia, amore di Dio; e non solo nel futuro, ma inizialmente già in questa vita, visto che “di essi è il regno dei cieli” (vv.3 – 10 – 12).
Certo non è facile imboccare la strada delle Beatitudini, ma il cristiano ha dinanzi a sé l’esempio di Gesù, che per primo le ha vissute in modo totale e che può aiutarlo a intraprendere l’ardua, ma gioiosa via del Regno dei cieli.
Con grande acume, papa Paolo VI osservò un giorno: “Il cristianesimo non è facile, ma felice!”
Ileana Mortari – Sito Web