Commento al Vangelo del 1 luglio 2012 – Paolo Curtaz

Tredicesima domenica durante l’anno

Sap 1,13-15;2,23-24/2Cor 8,7.9.13-15/ Mc 5,21-43

Talità kum!

La figlia di Giairo ha dodici anni.

Da dodici anni l’emorroissa soffre di perdite di sangue.

Dodici è il numero che richiama Israele, la sposa, le dodici tribù che la compongono. Marco ci dice che Israele si è spenta, esangue, senza vita, abbandonata dai suoi pastori che pascono se stessi, e che Dio, in Cristo, le ridona vita.

Dodici è il numero della totalità, come i mesi dell’anno. Marco oggi ci parla di due situazioni in cui descrive il massimo del dolore, la totalità della disperazione, l’apoteosi della tragedia, quando la barca viene travolta dalla tempesta.

La donna emorroissa non solo è ammalata e ha girato senza risultato da tutti i più famosi medici del paese senza risultato: la sua condizione la rende impura, non può toccare nessuno senza renderlo impuro. Non ha vita affettiva, né rapporti sessuali, forse non ha famiglia né amicizie: la sua condizione la rende sola.

Giairo è disperato: esiste un dolore più devastante della morte di un figlio?

La donna si avvicina timidamente, non vuol farsi notare.

Non osa chiedere nulla al Maestro, come potrebbe?

Tanti anni di solitudine l’hanno infine convinta di essere sbagliata, di essere peccatrice, impura.

Le è proibito di toccare: trasmetterebbe la sua impurità.

Decide di osare, di trasgredire la legge: lo tocca.

Per incontrare Dio, a volte, bisogna superare gli schemi religiosi, bisogna trasgredire le regole.

Lo sfiora appena, accarezza il mantello, certamente non se ne accorgerà.

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Potenza

Chi mi ha toccato?

La donna sbianca, gli apostoli si fermano nel tentativo di tenere a distanza la folla.

Non vedi Rabbì? Tutti ti toccano!

Ha ragione Gesù: in mille gli si sono fatti vicini, ma una sola lo ha toccato.

Ha toccato il cuore di questo Cristo di Dio, gli ha rubato la forza ed è guarita.

La malattia non è forse lo squilibrio della nostra armonia interiore?

Il Signore si lascia derubare, la sua forza dona guarigione e salvezza a questa donna che si ritiene inadatta, incapace, condannata. Gesù ci guarisce nel profondo, ci salva da ogni disarmonia.

Continua il suo cammino Gesù, gli apostoli lo guardano straniti.

Gesù guarda la donna con un lungo sguardo, come lo sguardo di Gesù che sceglie i discepoli.

Gli altri, la folla, gli apostoli stessi non sanno.

Lui, il Rabbì, e la donna sì, sanno bene cosa è successo.

La spinge ad uscire dal suo nascondimento, la mostra agli altri. La sua guarigione è pubblica, la sua purificazione compiuta, nessuno ora deve tenerla lontana.

Come Israele, guarita nel profondo. Come noi.

Il discepolo è guarito dalla dissipazione interiore, in questo mondo che divora ogni energia, che ruba il tempo e il senso della vita, che ci spinge alla solitudine in mezzo alla folla.

Ipocrisie

La gente esce fuori dalla casa di Giairo urlando: la ragazza è morta.

Gesù insiste, entra, dice che dorme. E viene deriso.

Come?

Viene deriso? Che gente è che prima urla e un secondo dopo deride? Che dolore finto è il loro se si prendono la briga di denigrare l’affermazione del Nazareno? Che cattivo gusto hanno queste persone che passano dalla disperazione alla burla?

Ipocriti, finti, fasulli.

Dolore di facciata, malvagità a malapena repressa, bieca esteriorità.

Gesù invece sa. Lui che piangerà davanti all’amico Lazzaro conosce, partecipa, si lascia coinvolgere. Darà la vita per Lazzaro, per noi, per me.

Il nostro Dio non è indifferente, non finge di soffrire.

Continua ad avere fede

Qualche giorno fa Gesù diceva agli apostoli impauriti: Non avete ancora fede? e, oggi,  all’emorroissa Gesù dice: Va, la tua fede ti ha salvato e a Giairo: Abbi fede.

Questa è la differenza sostanziale tra gli apostoli che pure toccano Gesù senza risultati e la donna ammalata, questo il solco che si crea tra Giairo e i suoi parenti che addirittura deridono il buonumore a parer loro farneticante di Gesù: la fede.

La fede placa le tempeste interiori, la fede ci guarisce dalle ferite interiori, la fede ci risuscita. Questa è la riflessione di Marco.

E la nostra, spero.

Sorella morte

L’atteggiamento del cristiano di fronte alla morte è la fede.

La morte è e resta il più inquietane interrogativo del destino dell’uomo e, anche sulla possibilità della reale bontà di Dio.

Se Dio è buono, perché la morte? Gesù è venuto a darci una buona notizia anche sulla morte.

Come ci svela la splendida pagina della Sapienza, il nostro è un Dio amante della vita.

Noi crediamo di essere stati creati immortali, e di essere nelle mani di Dio. Questa vita che viviamo, la viviamo proiettata nel futuro come una pienezza.

Il dolore del distacco, della morte, ci viene presentato da San Paolo come le necessarie doglie di un parto che danno alla luce una nuova creatura.

Questo Dio tenerissimo che solleva la figlia di Giairo è colui che ha per noi un destino di vita e di Risurrezione.

Basta? Non lo so, davvero.

Ai tanti Giairo cui muore la figlia non so se basta.

Elemosiniamo certezza e salvezza, la fede è solo una flebile fiamma per attraversare il mare in tempesta.

Mi fido, amici, mi fido con tutta la mia disperazione, e ai fratelli che leggono queste parole addito il Figlio di Dio che ci solleva dalla tenebra.

Infine consideriamo le tante morti interiori da cui dobbiamo risorgere: la fanciulla, segno di autenticità, di purezza, spesso giace immobile nella nostra vita; troppe le delusioni, le stanchezze, per essere ancora ottimisti. Da quale morte interiore dobbiamo risorgere?

Solo, abbiamo fede, questo il Signore Gesù ci chiede per una nuova vita in Lui.

Il Rabbì oggi ci dice: Talità kum!

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