13 novembre 2016 I° domenica di Avvento A – Rito ambrosiano
“Il Figlio dell’uomo verrà con grande potenza e gloria”
(Matteo 24, 1-31)
Nei capp.24-25 di Matteo troviamo il cosiddetto “discorso escatologico”, cioè relativo agli ultimi tempi, presente anche alla fine degli altri due vangeli sinottici, ma con significative differenze.
Anzitutto Matteo trascura l’episodio della vedova al tempio (presente in Marco), collegando così immediatamente il discorso escatologico ai “guai” rivolti a scribi e farisei. E’ come il congedo di Gesù dall’ufficialità del popolo dell’alleanza; dopo di che Gesù lascia il tempio in modo definitivo, e il discorso escatologico è rivolto solo ai suoi discepoli (mentre in Luca avviene nel tempio e a tutta la folla).
[ads2]Inoltre il discorso matteano ha una più netta sottolineatura cristologica: solo lui usa quattro volte il termine “parusia” e solo lui presenta Gesù Giudice nella grandiosa scena del Giudizio universale al cap. 25. Infine c’è un richiamo all’impegno e alla vigilanza chiaramente più accentuato rispetto ai testi paralleli.
Il discorso escatologico è in pratica la lunga e articolata risposta (che nella redazione del vangelo compendia gli insegnamenti sparsi di Gesù sull’argomento) alla domanda dei discepoli: “Quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? (v.3), espressione quest’ultima propria di Matteo.
Occorre tener presente che quello della fine dei tempi e dei relativi “segni” era uno degli argomenti più dibattuti e fatti oggetto di raffinate speculazioni da parte del giudaismo. C’era infatti una vera e propria “corrente apocalittica”, i cui testi prospettavano la fine di questo mondo, il giudizio universale nel “giorno di Jahvè” e l’avvento glorioso e trionfale del Regno di Dio, ad opera di un personaggio, il Messia: un misterioso “Figlio dell’uomo”, che avrebbe ricevuto da Dio il compito di fondare il regno escatologico (cioè degli ultimi tempi, oltre la storia), vincendo completamente le potenze del male.
Tale corrente utilizzava un particolare linguaggio, con un ricco repertorio di immagini “canoniche”, che si ritrovano pari pari nei discorsi escatologici dei sinottici, i quali dunque non vanno presi “alla lettera”.
Così ad esempio “queste cose” (v.3) è il termine convenzionale con cui la letteratura apocalittica indicava, in maniera crittografica, il complesso degli eventi escatologici; “guerre e rumori di guerre” (v.6): la guerra è uno dei motivi più noti della letteratura apocrifa giudaica con cui veniva caratterizzato l’avvento del secolo messianico anche sull’esempio della predicazione profetica (cfr. Is.19,2); “il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, etc.” (v.29): il linguaggio metaforico degli sconvolgimenti cosmici – assai presente anche nel Primo Testamento – serve a descrivere quello che è il clamoroso e impressionante intervento divino nelle vicende umane.
Ora, come sempre, Gesù nella sua risposta ai discepoli, da un lato utilizza un linguaggio (quello appunto apocalittico) assai familiare alle orecchie degli uditori, dall’altro esprime un contenuto assolutamente inedito, singolare, totalmente diverso dalle soluzioni della speculazione giudaica.
Anzitutto, al contrario delle ipotesi cronologiche, frutto di almanaccati e arzigogolati calcoli, afferma chiaramente che “quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (v.36 – così Marco 13,32).
In secondo luogo Egli mostra realizzata nella sua persona la famosa profezia di Daniele 7,13-14:
“Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo…..lo vedranno venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria” (v.30). Sarà questa la parusia, cioè la seconda venuta del Cristo nella gloria alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti.
Nella situazione di grossi problemi e difficoltà – interne ed esterne – della comunità di Matteo (siamo intorno all’80 d.Cr.) e anche di grande pericolo per la fede dei cristiani (cfr. il v.12: “per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà”) era necessario ravvivare e tenere desta la vigilanza, e soprattutto infondere una profonda fiducia che, pur nell’apparente fallimento del messaggio cristiano, Cristo era presente, vicino ad ognuno e prima o poi certamente sarebbe tornato “con grande potenza e gloria”, e allora “chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” (v.13).
E’ evidente a tutti quanto questa pagina di Matteo sia di estrema importanza anche per la situazione odierna della Chiesa e dei cristiani. Non a caso pure il Card. Martini, in occasione del 25° del suo episcopato (maggio 2005) ha osservato: “Sete di Dio, fame di vedere il volto di Gesù Cristo, certo, ma anche desiderio del giudizio: “questo regno venga nella sua realtà definitiva, là dove tutto sarà chiaro, tutto apparirà trasparente…”. Ecco l’autentica sete del giudizio: non certo vendetta contro qualcuno, ma giudizio sulla storia e finalmente giustizia per i piccoli, i poveri e quanti nella storia sono stati vittime indifese e misconosciute. Guai se così non fosse! Sarebbe un’ingiustizia tutta la vita, sarebbe stata vana una vita faticosamente vissuta discernendo ciò che era bene e ciò che era male e scegliendo, per quanto se ne era capaci, di compiere il bene e astenersi dal male. Il cristiano, proprio perché guarda al giudizio di Cristo, proprio perché ci crede e lo attende, lascia anche che quel giudizio, i cui criteri sono annunciati dal vangelo, si riverberi sul presente permettendo di leggere le vicende della storia e offrendo un orientamento all’agire quotidiano.”
Ileana Mortari – Sito Web