Società e religione
Un altro percorso tematico di particolare rilievo, anch’esso strutturale ai fini della riflessione che stiamo ora conducendo, è quello del rapporto tra fede e società dalle molteplici applicazioni, soprattutto nell’ambito della relazione tra religione e politica, tra la comunità ecclesiale e quella civile. Questa interazione – che può essere concepita in modo dialettico, antitetico e conflittivo ma anche secondo un contrappunto armonico – è in un certo senso un corollario della visione antropologica generale appena descritta.
Un giorno Cristo viene provocato dai suoi avversari a intervenire sulla questione fiscale, ossia sul tributo imperiale da versare da parte dei cittadini dei territori occupati da Roma, un tema sul quale interverrà anche san Paolo in un passo veramente sorprendente della Lettera ai Romani (13,1-7) sul quale ritorneremo. La replica di Cristo ai suoi interlocutori è lapidaria: Tá Káisaros apódote Káisari kai ta Theoú Theó, «rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (si può leggere l’episodio sia nel Vangelo di Matteo 22,15-22, sia in quello di Marco 12,13-17 o di Luca 20,20-26). Risposta tagliente e a prima vista netta nel tracciare una linea di demarcazione che dovrebbe esorcizzare ogni teocrazia (la shari‘a musulmana, per la quale il codice di diritto canonico diventa il codice civile, non è evangelica) e ogni cesaropapismo.
Tuttavia, il discorso è più sofisticato e complesso se si tiene conto della parabola in azione che Gesù sviluppa attorno a quella frase. Egli, infatti, argomenta tenendo tra le mani simbolicamente una moneta con l’“immagine”, l’icona (eikôn in greco) dell’imperatore, simbolo evidente della politica e dell’economia, alla quale viene riconosciuta una sua autonomia, un campo di esercizio proprio, una sua capacità e indipendenza normativa. Ma ai lettori di oggi sfugge l’ammiccamento testuale ulteriore che Gesù introduce per il suo uditorio ebraico. Infatti – e l’abbiamo già fatto notare – nella Genesi (1,27) si ha la definizione dell’essere umano come “immagine” (nella versione greca eikôn, icona) di Dio.
Si delinea, in tal modo, un profilo specifico dell’area “di Dio” distinta da quella “di Cesare”. Si tratta della tutela della dignità superiore e inalienabile della persona e della sua natura intrinseca: la libertà, le relazioni, l’amore (come si è appena visto per il passo della Genesi), i grandi valori etici assoluti della solidarietà, della giustizia, della vita non possono essere meramente funzionalizzati all’interesse politico-finanziario e piegati esclusivamente alle esigenze delle strategie del sistema o del mercato. La missione dei profeti biblici e dello stesso Cristo è stata appunto quella di essere una sentinella sulla frontiera tra Cesare e Dio, proprio nella difesa di questi valori. Memorabile è il «Non ti è lecito!» che Giovanni Battista grida all’arroganza del potere del re Erode Antipa. Martin Luther King nel suo scritto Forza di amare, affermava: «La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, ma è la sua coscienza».
È, però, indiscutibile che la questione si aggrovigli quando si procede nella declinazione storica di questa visione di principio, proprio perché entrambi gli attori, Cesare e Dio, ossia lo Stato e la Chiesa o il laico e il credente, si interessano di un soggetto comune, la società fatta di uomini e donne, e quindi i contrappunti e i conflitti di giudizio sono sempre in agguato. Ci si è, così, lasciati spesso tentare dalle scorciatoie.
Da un lato, si è configurato il progetto teocratico, talora esplicito oppure solo sognato: «Questo tempio è il mio paese, non ne riconosco altri», proclamava il sommo sacerdote ebreo nel dramma Atalia (1691) di Jean Racine. E proprio perché a gestire questo disegno era il clero, prevalente rispetto ai laici, cioè i semplici fedeli, il termine “clericale” ha acquisito una connotazione sospetta o essenzialmente negativa.
D’altro lato, però, prendeva contemporaneamente corpo la spinta opposta, caratterizzata da un atteggiamento di protesta contro il distendersi del manto sacrale, ma anche dallo stizzito desiderio di ridurre alle corde la casta religiosa, espellendola radicalmente dalla polis per relegarla nel ristretto spazio templare, tra le volute degli incensi e i melismi dei canti liturgici. È in questa linea che il termine “laico” acquistava l’accezione ora dominante, spoglia di qualsiasi radice religiosa originaria (ove indicava il laós, cioè il popolo cristiano, rispetto ai pastori della Chiesa), e si trasformava nell’orgogliosa affermazione dell’assoluta indipendenza e del primato della politica sulla religione.
Ad essere più rigorosi, dobbiamo distinguere tra “laicità” («rendete a Cesare ciò che è di Cesare») e “laicismo” (che elide o reprime il «rendete a Dio ciò che è di Dio»), vocaboli che quindi non sono sinonimi. L’antitesi è quella che corre tra “laicità” e “sacralismo teocratico” o “fondamentalismo” e non tra “laicità” e religione. La laicità è, allora, strutturalmente necessaria anche per una corretta dottrina teologica; il suo mancato rispetto attraverso intromissioni “clericali” esplicite o surrettizie genera disordine e crea tensioni che si riverberano in altri campi sociali. Dopo tutto, Gesù Cristo – come si legge nella Lettera agli Ebrei (7,14; 8,4) – non apparteneva alla casta sacerdotale ebraica di Levi, essendo membro della tribù “laica” di Giuda.
Detto questo e proprio sulla base dell’impostazione ora descritta, è necessario riconoscere in modo parallelo la libertà di parola e di azione all’area dell’«immagine di Dio» (per usare la distinzione di Cristo), cioè della religione contro ogni tentazione “laicista”. Questo implica non solo l’esercizio libero del culto e l’elaborazione del pensiero teologico in senso stretto, bensì anche la funzione di essere coscienza critica nei confronti dei valori personali e sociali della giustizia, del bene comune, della vita, della verità, nella consapevolezza che l’uomo e la donna trascendono il pur legittimo ordinamento economicopolitico, dotato di sue norme proprie. Per concludere, il nodo delicato è precisamente in questa interazione indispensabile tra i due ambiti, capace di impedire che lo Stato diventi un Moloch e l’economia un Leviatan dominatore e che la Chiesa debordi dal suo orizzonte assumendo forme di integralismo teocratico.
Diritto e religione
Restringendo l’orizzonte della nostra analisi, affrontiamo ora un binomio più specifico, quello del rapporto tra il diritto e la religione e, quindi, tra la norma giuridica e il precetto morale. Proprio per le considerazioni precedentemente svolte, anche in questo caso è da affermare, contro ogni tentazione integralistica, la netta distinzione tra i due ambiti, distinzione complessa nel suo esercizio anche perché essa non significa né opposizione né separatezza assoluta, essendo comune l’oggetto, ossia la persona umana e la società. Infatti, sempre più si è consapevoli dell’insufficienza di almeno due approcci giuridici.
Il primo è quello legato alla concezione del diritto come mero sistema normativo-procedurale asettico e formale senza implicazioni antropologiche e umanistiche (qualcosa di analogo può essere reiterato per l’economia). In questa luce si potrebbero legittimare senza batter ciglio esiti come il diritto nazista. Il secondo modello è quello esclusivamente sociologico per cui il diritto sarebbe semplicemente una codificazione di una prassi comportamentale prevalente. In realtà, essendo il sistema giuridico uno strumento per accedere al bene comune, esso deve avere al suo interno finalità sociali costanti che eccedono una pura e semplice contingenza. È in questa prospettiva che si può esercitare un dialogo tra diritto ed etica. Vorremmo, al riguardo, proporre una esemplificazione significativa.
Ci riferiamo al particolare equilibrio che deve intercorrere tra giustizia ed equità che non sono totalmente sinonimi, come già affermava Aristotele nell’Etica Nicomachea: «Il giusto e l’equo non sono la stessa cosa e, pur essendo entrambi eccellenti, l’equo è il migliore… L’equo è giusto ma non secondo la legge, al contrario è una correzione del giusto legale… La natura dell’equità è di essere correzione della legge nella misura in cui essa viene meno a causa della sua formulazione universale» (1137b). È nota, al riguardo, la riflessione di John Rawls nel suo saggio Giustizia come equità. Una riformulazione (Feltrinelli, Milano 2002).
Aveva già intuito questa aporia la classicità romana col celebre adagio Summum ius summa iniuria, citato da Cicerone nel suo De officiis (I, 10, 33) e declinatopoiinmilleformediverse,introducendoanchecategorieulterioricome la pietà (Dostoevskij), la carità (Mauriac), la clemenza, le attenuanti e così via, nella consapevolezza che un diritto troppo rigido e frigido può trasformarsi in ingiustizia. Folgorante è un asserto di don Lorenzo Milani: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti uguali tra diseguali». È, questa, una più circoscritta applicazione di un altro motto del diritto romano, il citato Suum cuique tribuere, attribuito a Ulpiano nel suo Digesto (I, 10, 1) e ribadito da Giustiniano nelle sue Institutiones (I, 1, 3), sintetizzato nella formula Unicuique suum, nota per la sua presenza in capo all’“Osservatore Romano” e nella versione italiana.
A ciascuno il suo, titolo di un romanzo di Leonardo Sciascia (1966). In alcuni casi una certa “parzialità” diventa paradossalmente il massimo dell’imparzialità. È questo il senso anche del sorprendente appello del biblico Qohelet a «non essere troppo giusti» (7,16).
A questo punto vorremmo, invece, invertire i ruoli e mostrare come la religione possa essere uno stimolo fecondo per il diritto e non solo quando ribadisce il valore della giustizia, ma anche quando diventa una spina nel fianco con la sua provocazione. È il caso di quella Magna Charta del cristianesimo che è il “Discorso della montagna” di Gesù (Matteo 5-7). Esso, a prima vista, sembra il sovvertimento e persino la negazione del diritto coi suoi precetti radicali: «non giudicare», «porgere l’altra guancia», perdono del nemico e così via. A questo riguardo il pensatore Jean Charbonnier osservava: «Il diritto è certamente giustizia e attribuisce a ciascuno il suo dovuto, ma è anche grazia, ricerca della pace, ripristino della concordia e dell’amore. Lì potrebbe essere la sostanza del diritto evangelico», presente in quelle pagine matteane.
La funzione di essere coscienza critica può espletarsi da parte della religione in vari modi, a partire dagli imperativi del Decalogo e dalla voce dei profeti che, ad esempio, con Isaia denunciano la giustizia ingiusta: «Guai a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente… Guai a coloro che emettono decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per defraudare gli orfani» (5,23; 10,1-2). Oppure è la stessa legislazione biblica che, pur essendo “incarnata” in coordinate storiche contingenti, può trasformarsi in monito morale attuale anche per una questione rovente dei nostri giorni: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che soggiorna in mezzo a voi… Quando uno straniero risiederà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Lo straniero residente fra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi. Anzi, lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri in terra d’Egitto» (Esodo 12,49; Levitico 19,33-34).
Siamo, così, su un terreno nel quale l’appello etico può penetrare anche nelle aule processuali e nell’esercizio del potere giudiziario, oltre che nel palazzo della politica. In questa luce è facile evocare molti ammonimenti sottesi agli aforismi della tradizione classica e cristiana, a partire dalla certezza del diritto messa in crisi dalla proliferazione elefantiaca delle leggi: Corruptissima republica plurimae leges, affermava già Tacito (Annales III, 27, 3), ripreso anche dall’ Esprit des lois di Montesquieu. Parallela è anche l’esortazione alla perspicuità lineare della legislazione per una sua comprensione aperta a tutti, come sosteneva nelle sue Epistolae ad Lucilium Seneca: Legem brevem esse oportet quo facilius ab imperitis teneatur.
La morale sapienziale, poi, ha coniato, pare fin da Solone, il detto purtroppo sempre valido che compara le leggi a «una ragnatela: se vi cade qualcosa di leggero, essa lo trattiene, mentre ciò che è pesante la rompe e fugge via». Un motto che due scrittori come Carlo Porta e Honoré de Balzac hanno reso con una metafora molto vivace. Eccola nella versione di Balzac: «Le leggi sono ragnatele che le mosche grosse o i calabroni sfondano, mentre le piccole vi restano impigliate» (in Maison Nucingen del 1838). Anche a questo livello più semplice e popolare, diritto e morale possono procedere insieme.
Legalità e religione
Intendiamo col termine “legalità” l’osservanza delle leggi, un capitolo estremamente vario nelle sue applicazioni perché deve calibrare l’incontro tra l’oggettività della norma e la soggettività della coscienza e dell’adesione del singolo. Si tratta di un incrocio spesso arduo nella sua concretezza, come insegna il tema dell’obiezione di coscienza che non è possibile affrontare ora nelle sue molteplici sfumature e implicazioni. Noi ci accontentiamo, invece, di sviluppare la questione con una premessa di indole generale e con una successiva applicazione particolarmente grave e rilevante che attiene al sistema criminale alternativo alla legalità.
La premessa punta al legame tra etica e legalità, considerato dal punto di vista della morale. Mentre è evidente che alcune norme giuridiche sono cogenti anche in sede etica, possono esserci di primo acchito imposizioni legali prive di impatto morale. Tuttavia, anche in questo settore si possono registrare esempi significativi che ripropongono quel vincolo. Facciamo un paio di esempi. Pensiamo innanzitutto al codice della strada che, a una prima impressione, può apparire solo come un regolamento legale asettico, apparentemente estraneo al dominio morale. Ma come non vedervi in azione anche una delle virtù cardinali, la prudenza? Una sua violazione grave, che conduce al cosiddetto “omicidio stradale”, rivela chiaramente che l’osservanza di quelle regole ha un rilievo non solo penale ma anche morale.
Ancor più emblematico è il secondo esempio che suggeriamo, quello riguardante il sistema fiscale. Esso può sembrare solo una struttura politicogestionale della cosa pubblica. Si tratta, invece, di una realtà che è finalizzata al bene comune e, come tale, ha implicazioni etiche. Non era, perciò, corretta una prassi spesso in passato sostenuta anche in ambito teologico secondo la quale l’evasione o l’elusione fiscale era considerata merepoenalis, cioè un’imposizione che ricadeva soltanto sotto il regime della punizione legale e non aveva ridondanza morale. Si è, così, creato indirettamente anche quello scarso senso dello Stato, tipico di alcuni paesi a matrice cattolica.
Certo da un lato, la corruzione politica cade già evidentemente sotto il marchio non solo della penalità ma anche della moralità. D’altro lato, però, essa non può costituire un alibi per l’evasione fiscale. L’osservanza delle norme tributarie è da san Paolo esaltata in modo netto e in chiave morale-religiosa nel paragrafo già citato della Lettera ai Romani (13,1-7), tanto che egli giunge al punto di affermare: «Pagate le tasse: quelli che sono incaricati dell’esazione sono al servizio di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, versate le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (13,6-7). Non si dimentichi che allora a capo dell’impero romano c’era Nerone.
Affermato il legame dell’etica col diritto attraverso i due esempi appena indicati, ora possiamo allargare la nostra considerazione su una grave questione spinosa, la coesistenza serena e persino codificata tra sacro e criminalità, una contiguità che trasforma la religione in un sostegno paradossale per giustificare l’illegalità e il delitto. In questo ambito svetta la realtà mafiosa, studiata secondo tale prospettiva da vari saggi, tra i quali spiccano quelli di Alessandra Dino, La mafia devota. La Chiesa, la religiosità, Cosa Nostra (Laterza, Roma-Bari 2008) e di Salvo Palazzolo e Michele Prestipino, Il codice Provenzano (Laterza 2007). Siamo in presenza di un fenomeno registrato già dai profeti biblici che lo condannavano con veemenza. Lapidaria è, al riguardo, una frase che Isaia mette in bocca a Dio: «Non posso sopportare delitto e solennità» (1,13). E il discorso divino proclamato dal profeta è molto articolato, giungendo al punto di denunciare come farsa sgradevole la ritualità del criminale, la sua preghiera ipocrita, le sue false devozioni, perché ben altro è il culto che Dio si attende: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia» (1,16-17).
La religiosità dei mafiosi ignora questo che è il cuore della vera fede e, senza imbarazzo – come ricorda il citato magistrato Prestipino, che del tema è un grande esperto (potremmo dire in corpore vili) – si giunge al paradosso per cui «un killer di Cosa nostra, ogni volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa e pregava s. Rosalia perché lo proteggesse e perché l’azione andasse a buon fine e, dopo averla commessa, tornava dalla santa per ringraziarla del buon esito dell’azione». Queste degenerazioni blasfeme e idolatriche si sono trasformate in un vero e proprio culto perverso tra i “narcos” del Messico con la venerazione della “Santa Muerte”, modellato sulla popolare Vergine di Guadalupe. Da noi le esemplificazioni sono più immediate, come attestano i “pizzini” religiosi (sic!) di Bernardo Provenzano che citavano ininterrottamente Dio, Gesù Cristo e la divina Provvidenza o come si scopre attraverso gli altarini, i vari santini, persino le Bibbie e i testi spirituali, i libri di preghiere ritrovati nei covi o nei bunker dei mafiosi.
In realtà si tratta di una deformazione religiosa in cui la Chiesa deve ora porsi – e lo fa anche sotto lo stimolo delle staffilate di Giovanni Paolo II o di papa Francesco e delle testimonianze di figure come il beato don Pino Puglisi – in antitesi assoluta a questa che è in realtà irreligiosità e ipocrisia blasfema, divenendo una costante spina nel fianco di ogni forma mafiosa. Questa scelta può essere anche una catarsi per certe connivenze del passato quando alcuni pastori in anni di guida di una diocesi o parrocchia non osavano pronunciare mai la parola “mafia” o “’ndrangheta” o “camorra”, oppure quando parroci, come ricordava Alessandra Dino nel suo saggio, ai funerali di un capo-mafia non esitavano ad appellare alla «giustizia divina, la sola che non sbaglia e alla quale nessuno può sottrarsi e raccontare il falso, mentre quella terrena può commettere grandi errori». Come ha sottolineato il noto magistrato Giuseppe Pignatone, la religiosità mafiosa sfrutta «il legame esistente tra la Chiesa e larghi strati delle popolazioni dell’Italia meridionale» adottandolo come «sovrastruttura permanente attraverso cui camuffare la reale essenza dell’organizzazione» basata sulla violenza, l’ingiustizia, l’illegalità, ossia sull’esatto opposto dell’autentica fede.
Meritano, perciò, di essere segnalati gli inequivocabili appelli e giudizi che il magistero ecclesiale più alto ha moltiplicato in questi ultimi decenni, a partire dalle ormai famose parole di san Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 ad Agrigento: «La nostra fede esige una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e della convivenza civile». Nel 2010 erano, invece, i vescovi italiani a «condannare con forza una delle piaghe più profonde e durature del Mezzogiorno, un vero e proprio cancro, una tessitura malefica…
Le mafie sono la configurazione più drammatica del “male” e del “peccato”». Nello stesso anno, il 3 ottobre 2010, a Palermo era Benedetto XVI a sollecitare i giovani a «non cedere alle suggestioni della mafia che è una strada di morte, incompatibile col Vangelo». Un monito che papa Francesco ha ribadito con sdegno a Napoli, nel quartiere emblematico di Scampia il 21 marzo 2015, ricorrendo a quell’inedito termine secondo il quale «la corruzione spuzza», evocando quindi non solo il fetore del sangue versato ma anche il tanfo morale che avvolge quella struttura perversa. Ed è dei nostri giorni l’impegno comune di Chiesa e Stato con tutti i loro organi istituzionali – soprattutto nella regione calabrese – per erigere una barriera contro la violenza mafiosa, togliendole gli alibi religiosi delle processioni e dei santuari (Polsi ne è un’attestazione esplicita).
La voce di Cesare Beccaria
L’esercizio della giustizia è un atto talmente alto e delicato che deve sempre imporre al giudice «timore e tremore», per usare un’espressione paolina (1Corinzi 2,3). Anche se si è adottato comunemente a livello di lessico il lemma “potere giudiziario”, bisogna sempre ricordare che si tratta, più che di un dominio, di un servizio alla comunità da espletare con competenza giuridica, con rigore documentario, con umiltà morale. Il magistrato dovrebbe, perciò, rivolgere a se stesso l’interrogativo di Dante (anche se nell’originale destinato a un diverso oggetto): «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?» (Paradiso XIX, 79-81). È la consapevolezza del proprio limite creaturale perché, come scriveva Jorge
Luis Borges nella poesia Calma spavalda, «La mia umanità sta nel sentire che siamo voci / di una comune indigenza». È questa consapevolezza che rende più capace il giudice di unire giustizia ed equità, come abbiamo sopra indicato.
Concludo la riflessione, ampia ma sempre incompleta, finora condotta con una testimonianza personale. Dal 1989 al 2007 come Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana ho custodito, oltre al Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, opere d’arte e migliaia di codici manoscritti letterari, storici, teologici, artistici, giuridici. Alle mie spalle, nella cosiddetta “Sala del Prefetto”, cioè nello studio ufficiale, si levava la libreria di Cesare Beccaria che, oltre a vari volumi, conservava molti vari suoi testi autografi. Tra questi campeggiava il manoscritto originale, tormentato a livello di stesura, dell’opera che lo ha reso celebre, Dei delitti e delle pene (1764). Vorrei, perciò, lasciare a lui la parola per tre note finali rispettivamente sulla certezza delle pene, sulla pena di morte e sulla prevenzione.
«Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse… La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggior impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell’impunità» (c. XXVII, “Dolcezza delle pene”).
«Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (c. XXVIII, “Della pena di morte”).
«È meglio prevenire i delitti che punirgli» (c. XLI, “Come si prevengono i delitti).