La Domenica della Trasfigurazione, seconda Domenica di Quaresima, anticipa il compimento della conversione e la meta del cammino: la trasfigurazione pasquale. Il cammino di fede di Abramo, come quello dell’antico popolo dell’alleanza, come quello dei discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, come quello della Chiesa e di ogni credente, è il desiderio continuo di vedere il volto di Dio: «Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto» [Sal 27 (26),9].
Abramo lascia la sua terra, la sua parentela e la casa di suo padre perché crede per fede e desidera vedere e vivere nella terra che Dio gli indicherà (I lettura); questa patria è proprio il volto di Dio rivelato in Cristo, che Pietro, Giacomo e Giovanni, scelti e chiamati per salire con lui sull’alto monte, vedono trasfigurato (Vangelo). Come i discepoli anche i credenti in Cristo sono destinatari e partecipi della manifestazione del Salvatore Gesù Cristo, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere l’incorruttibilità mediante il suo Vangelo (II lettura)
La liturgia di questa seconda Domenica di Quaresima è una esperienza sacramentale e rituale della visione del volto di Cristo. Egli si manifesta nell’assemblea riunita nel suo Nome e nel ministro che la presiede, nella sua Parola proclamata e nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue (cf. Sacrosanctum Concilium 7).
Il Signore è Mia luce
«Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Quando mi assalgono i malvagi
per divorarmi la carne,
sono essi, avversari e nemici,
a inciampare e cadere» [Sal 27(26),1-2].
La seconda tappa del tempo della conversione, la Quaresima, prevede la contemplazione della meta del cammino, la risurrezione del Signore anticipata e prefigurata nel mistero della trasfigurazione. Scoprire che il Signore illumina il cammino del credente e lo sostiene facendogli intravedere la meta, permette di affrontare con maggiore determinazione il viaggio di conversione e adesione a lui.
La liturgia della Parola ci propone una sintesi della storia della salvezza, che inizia con la vocazione di Abramo (I lettura), trova in Gesù il suo punto culminante, con la presenza di Mosè ed Elia sul monte della trasfigurazione (Vangelo), e prosegue nei tempi della Chiesa con la vocazione alla santità (II lettura). L’obbedienza di Abramo apre la via al compiersi della promessa di Dio di fare di lui una benedizione per tutte le genti (I lettura); durante la trasfigurazione la voce divina chiede obbedienza a Gesù, il Figlio: «Ascoltatelo» (Vangelo); l’evento pasquale è grazia che chiede obbedienza da parte del credente e lo rende testimone (II lettura).
Il Signore chiede ad Abram di lasciare la sua terra, la sua parentela e la sua casa, dirigendosi verso una terra sconosciuta che gli indicherà nel futuro (Gen 12,1). L’esodo interiore che Abram ha dovuto vivere è stato molto impegnativo. Lasciare la propria terra, non solo lo spazio geografico in cui aveva vissuto fino a quel momento della sua vita, ma quella cultura, quello stile di vita che erano stati per lui nutrimento.
Tutto questo esige un lavorio interiore considerevole. Anche lo staccarsi dalla sua tribù, dal casato e dalla casa paterna, dai legami vitali che avevano riscaldato il suo cuore fino a quel momento sono stati una esperienza di morte e risurrezione spirituale. Eppure Abram parte obbedendo (hypakoé), ascoltando in profondità la Parola che Dio gli ha rivolto e accogliendo così la fiducia in quella Benedizione divina che gli prometteva di diventare capostipite di una grande nazione e di rendere «grande il suo nome», tale da essere lui stesso “benedizione”. Abram diviene benedizione, manifestazione della benedizione divina.
Nel linguaggio biblico la benedizione (berakáh) indica di fatto una duplice azione: fare memoria della bontà misericordiosa di Dio (Benedictus) e allo stesso tempo riconoscere come la sua Parola realizza il bene (benedicat), rende tutto buono (bene-dire), come nella creazione. Abram è quindi padre e modello di ogni credente perché accogliendo la Parola del Signore, la sua vita e la sua persona sono state una benedizione, lode a Dio, azione di grazia e manifestazione della “bontà divina”. Questo è stato possibile grazie alla sua fede in Dio e realizzando questo esodo, il lasciare le proprie certezze verso una terra sconosciuta che Dio gli affida.
Il cammino di fede che il catecumeno eletto è chiamato a compiere e che ogni battezzato è invitato a ripercorrere ogni anno è un esodo interiore, un andare verso l’incertezza del futuro, lasciando quei legami e quelle comodità che spesso ci possono paralizzare o rallentare, verso una terra promessa sconosciuta. Inoltre siamo chiamati ad essere anche noi, grazie allo Spirito di Dio in noi e alla nostra fede, una benedizione.
Il Signore è Mia Salvezza
Il racconto della trasfigurazione del Signore nella tradizione sinottica si presenta come l’evento di passaggio dalla prima fase della vita pubblica del Signore al viaggio che lo conduce a Gerusalemme per la sua pasqua. Il racconto matteano ci offre una indicazione temporale interessante che il testo liturgico non riporta: «sei giorni dopo». Ci troviamo nel “settimo giorno”, quello dello shabát, del riposo. L’intento di Matteo è di individuare un legame tra l’evento precedente che si colloca a Cesarea di Filippo con la vocazione-missione di Simone come Pietro e il primo ufficiale annuncio della passione, all’evento della trasfigurazione, in cui avviene il compimento di questa settimana e di quanto preannunciato, appunto la metamorphè del Signore.
Il Signore si lascia accompagnare da Pietro a cui aveva affidato poco prima una nuova responsabilità (cf. 16,13-19), ma anche dai due fratelli Giovanni e Giacomo, scelti forse, perché il primo è il discepolo prediletto e l’altro colui che testimonierà per primo la fedeltà a Cristo con il martirio nell’anno 44 (cf. At 12,1-2). In ogni caso, i tre sono gli stessi che condivideranno un’altra esperienza con Gesù, quella della sua agonia nel monte degli Ulivi. La presenza degli stessi testimoni crea una correlazione tra i due episodi, l’uno di gloria e l’altro di sofferenza.
La trasfigurazione avviene in un contesto di lontananza dalla vita quotidiana e dai suoi rumori e affanni. Il testo parla di Gesù che conduce i tre in disparte e su un alto monte, questo per calarsi nel silenzio che favorisce l’incontro con Dio. Già il profeta Osea suggeriva: «La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). In generale, il monte è luogo abituale di incontro con Dio. Anche Mosè era salito sul monte per ascoltare Dio e ricevere le Dieci Parole (cf. Es 19,20). È sulla montagna che si incontra Dio. Il monte della trasfigurazione è stato identificato almeno dal IV secolo con il Tabor, che in realtà non raggiunge i seicento metri sul livello del mare. La sua posizione nella grande pianura di Esdrelon lo rende, nella mappa geografica palestinese, «un alto monte». Inoltre, «alto»ha più valore teologico che geografico: esprime allontanamento dal vivere abituale e lo sforzo di ascesa per raggiungere la vetta.
Qui avviene che Gesù si presenta diverso dal solito, trasfigurato, cioè al di là (preposizione latina trans) dell’aspetto abituale. Nell’impossibilità di esprimere a parole quanto accaduto, l’evangelista si rifugia nelle immagini: il volto di Gesù diventa splendente come il sole e le sue vesti candide come la luce. Per qualificare questa teofania, seguendo la tradizione ebraica, ci sono due testimoni autorevoli (cf. Dt 19,15), riconosciuti come il simbolo dell’Antico Testamento, rappresentanti della legge e dei profeti e di cui si attendeva il ritorno.
Mosè aveva promesso al suo popolo: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15). Di Elia aveva profetizzato Malachia: «Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (Mal 3,23). La loro presenza conferisce autorità all’uomo Gesù che, immerso nella luce divina raffigurata come mandorla nella tradizione iconografica orientale, si qualifica agli occhi dei discepoli come una persona di eccezionale valore. I due testimoniano che la storia è giunta alla sua grande svolta, perché è arrivato il tempo promesso e atteso, il tempo del Messia.
Pietro è l’unico che riesce a verbalizzare i suoi sentimenti anche se in maniera confusa: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Le sue parole portano il marchio della spontaneità, ma anche quello della istintività e della irriflessione. Pietro esprime un sentimento umanamente condivisibile, ovvero vorrebbe dimenticare un passato gravato di difficoltà e ignorare un futuro carico di incognite garantendosi una prospettiva più allettante e rassicurante.
Nel cammino di sequela del Signore c’è un rischio che si può insinuare: pensare che la vita di fede sia una esperienza che ci allontana dal quotidiano faticoso e logorante. Il Signore ci rimette in cammino verso la quotidianità grazie alle esperienze di intimità trasfigurante come sono alcuni momenti intensi di preghiera, di celebrazione, un ritiro. Il Tabor è una sosta per rinfrancare il cammino, per avere una consapevolezza maggiore della fedeltà al Signore.
Il Signore è difesa della Mia vita
L’esperienza della trasfigurazione si completa con la manifestazione di Dio nella nube, chiaro riferimento all’Esodo (cf. Es 13,21) in cui Dio guida il popolo nel deserto, o che avvolge Elia e lo glorifica (cf. 1Re 8,10), mentre nella voce si ritrova Dio che parla a Mosè (cf. Es 24,18). La voce divina così si esprime: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
Già nel battesimo (cf. 3,17) la voce divina era intervenuta a proclamare Gesù come il «Figlio Prediletto», ora si aggiunge l’imperativo «ascoltatelo» che designa Gesù soprattutto come il profeta che tutti dovevano ascoltare (cf. Dt 18,15). Inserito nel contesto dei due annunci di passione-risurrezione e poco prima di iniziare il cammino verso Gerusalemme, questo «ascoltatelo» del Padre ha la forza propulsiva di un impegno che non può essere disatteso, appunto esige obbedienza e quindi sequela fiduciosa e incondizionata.
Per i battezzati o per chi si prepara a ricevere tale dono, nel cammino di conversione la manifestazione di Dio sul Tabor rappresenta il senso stesso della cammino di trasformazione spirituale. Solo se saliamo il monte del silenzio orante e ascoltiamo la Parola di Dio rivelata in Cristo noi troviamo la forza interiore per affrontare la nostra vita con fede.
In questa logica Paolo nella seconda lettura rivolgendosi a Timoteo afferma: «Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia».
La trasfigurazione ci riporta al mistero di Cristo nell’Eucaristia: anche qui c’è una trasformazione del suo essere presente, ma come nutrimento e sostegno nel cammino quotidiano, come cibus viatorume “farmaco dell’immortalità”.
Fonte: il sussidio Quaresima/Pasqua CEI