La liturgia ci fa ascoltare per tre domeniche alcune parabole raccolte in Matteo 13, il terzo lungo discorso di Gesù in questo Vangelo, detto appunto “discorso parabolico”.
Il termine “parabola”
Presso i rabbini, la parabola era un vero metodo pedagogico: un fatto inventato o una storia del passato vengono usati per appoggiare un insegnamento, preparato dalla formula: “A che cosa questo è simile?”. Anche Gesù usa questo metodo (Mc 4,30; Lc 13,18; Mt 13,24.31). Parabola viene dal greco “parabolē”, formato dal prefisso “para-”, che vuol dire “a fianco”, e dal verbo “ballein” che significa “gettare”. Il verbo composto “paraballein” significa dunque originariamente “gettare a fianco”. Il nostro stesso termine “parola” deriva da “parabolē”: ogni parola è parabolica, cioè discorso da decifrare, da interpretare. Sotto la parola greca si nasconde il termine ebraico “mashàl”. Il termine viene dalla radice “mšl”, che significa: dominare, governare; essere uguale a, somigliare a; dire un proverbio, parlare in parabole.
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L’interpretazione delle parabole
Il senso allegorico: L’interpretazione allegorica è una spiegazione che attribuisce a ogni dettaglio della parabola un significato particolare. Abbiamo interpretazioni allegoriche nei Vangeli stessi (Mt 13,1-23; Mc 4,3-8.14-20; 13,24-30.37-43). Ma l’insegnamento fondamentale della parabola va tratto da tutta la narrazione e non da qualche particolare; la parabola è una narrazione che usa immagini e forme tipologiche ed i particolari non possono essere spiritualizzati.
Funzione pedagogica delle parabole: Nel Nuovo Testamento. “parabolè” figura solo nei sinottici (48 volte), e nella lettera agli Ebrei (2 volte); “ainigma” solo in 1 Cor 13,12, “allegoreo” solo in Gal 4,24. L’autore della parabola mette in scena una vicenda, costruisce un racconto, così da trasferire i suoi ascoltatori in un mondo fittizio. Ma il trasferimento è provvisorio: ad un certo punto gli ascoltatori verranno ritrasferiti dal fittizio al reale, si troveranno faccia a faccia con una realtà ben determinata, in funzione della quale è stato costruito il racconto. La parabola ha alcuni elementi fondamentali: la sintesi, l’immediatezza, l’incisività, il narratore, la conclusione.
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Comprendere le parabole
Per comprendere una parabola bisogna capire il racconto; coglierne il punto culminante; cogliere la complementarità tra la vicenda fittizia e quella reale. La parabola ha una forza “poetica”, cioè, in senso “etimologico”, “creativa”.
I punti di riferimento: Le due cose che catturavano gli ascoltatori delle parabole di Gesù erano: la loro conoscenza dei punti di riferimento comuni e la svolta inaspettata della storia.
Identificare l’uditorio: Occorre cercare di determinare in che modo gli ascoltatori originali si sarebbero identificati con la storia, quindi che cosa avrebbero effettivamente udito.
Evoluzione delle parabole: dal Gesù storico al redattore del Vangelo: Originariamente Gesù si rivolgeva quasi sempre ad un pubblico misto (discepoli, folla, scribi e farisei, ecc.). In seguito le parabole vennero usate nella catechesi della Chiesa nascente (per poi confluire nel Vangelo scritto), e furono quindi proposte ai credenti in Gesù.
“Perché parli loro in parabole?”
In Matteo (13,10) viene chiesto a Gesù perché mai egli parli in parabole, mostrando così che era già stata colta la novità di questo modo di comunicare.
Per realizzare l’attesa del Profeta escatologico: il Messia atteso avrebbe parlato in parabole (Mt 13,34-35; cfr Sl 77,2).
Per stimolare a ricerca e conversione: parlare in enigmi è più impegnativo: esige ricerca, addentrarsi nel “mistero” (dal greco “mùo”, sto zitto), che è Cristo stesso.
Perché prima occorre credere in Gesù: Mc 4,34-35: per comprendere l’insegnamento di Gesù non basta ascoltare la sua parola, ma è necessario diventare suoi discepoli, essere suoi intimi.
Per misericordia verso i lontani: Gli increduli sarebbero stati ancora più colpevoli se avessero conosciuto di più della legge divina.
“Perché essi non comprendano”? Qual è il significato di “perché non si convertano e venga loro perdonato” (Mc 4,12)? a) La prescienza di Dio: nel genere letterario semita, ciò che accade, poiché era stato previsto da Dio, rientra in qualche modo nella sua volontà: ma la sua volontà non è la scelta singola dell’uomo, ma il fatto di fondo che Dio lo abbia creato libero. b) Chi non capisce le parabole non si converte. “Inà”, “affinché”, secondo l’equivalente ebraico “lema’an” (Dt 29,18; Ger 7,18; 27,10.15) descrive semplicemente il risultato: quelli che non capiscono le parabole non si convertono e non ottengono il perdono. c) “mepote” può significare anche: “a meno che”: “a meno che si convertano…”.
La parabola del seminatore
“In questa parabola stupisce la quantità di seme gettato dal seminatore, e chi non sa che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme, potrebbe pensare a un contadino sbadato… Invece il seme è abbondante perché abbondante è la Parola di Dio, che deve essere seminata, gettata come un seme, senza parsimonia. Ma il predicatore che la annuncia sa che ci sono innanzitutto ascoltatori i quali la sentono risuonare ma in verità non l’ascoltano. Superficiali, senza grande interesse né passione per la Parola, la sentono ma non le fanno spazio nel loro cuore… Ci sono
poi ascoltatori che hanno un cuore capace di accogliere la Parola, possono addirittura entusiasmarsi per essa, ma non hanno vita interiore, il loro cuore non è profondo, non offre condizioni per farla crescere, e allora quella predicazione appare sterile: qualcosa germoglia per un po’ ma, non nutrito, subito si secca e muore. Altri ascoltatori avrebbero tutte le possibilità di essere fecondi; accolgono la Parola, la custodiscono, sentono che ferisce il loro cuore, ma hanno nel cuore altre presenze potenti, dominanti: la ricchezza, il successo e il potere…
La Parola viene contrastata e dunque muore per mancanza di spazio. Ma c’è anche qualcuno che accoglie la Parola, la pensa, la interpreta, la medita, la prega e la realizza nella propria vita. Certo, il risultato di una semina così abbondante può sembrare deludente: tanto seme, tanto lavoro, piccolo il risultato… Ma la piccolezza non va temuta: ciò che conta è che il frutto venga generato!” (E. Bianchi).
E noi, che riceviamo con tanta abbondanza il seme della Parola, che tipo di terreno siamo?
Carlo Miglietta
Il commento alle letture di domenica 16 luglio 2023 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.