Ha scritto il grande teologo Yves Congar che “secondo i Padri, i testi della Scrittura possono essere riferiti tanto alla Chiesa quanto all’anima di ciascun fedele…; ogni anima è la Chiesa; quanto è detto dell’una, può essere detto dell’altra”. La chiamata del singolo discepolo di Cristo alla beatitudine della povertà è quindi chiamata per tutta la Chiesa.
La predilezione per i poveri e la ricerca della povertà sono pertanto una costante della storia della Chiesa, pur tra mille contraddizioni e cadute: basti pensare al monachesimo, ai grandi Ordini religiosi, specialmente a quello di Francesco d’Assisi, lo “sposo di Madonna Povertà”, alle schiere di “Santi sociali” di tutti i secoli, fino al moderno impulso al volontariato. Anche se non mancarono le voci che cercarono di attenuare la chiamata di tutti alla povertà, riducendola a “consiglio” per alcuni, e rimproverando alla grande tradizione patristica di aver “interpretato la Scrittura in senso troppo letterale, di non aver visto chiaramente il ruolo necessario che avrebbe giocato un giorno il capitale, di aver misconosciuto l’interesse che presentava non solo la conservazione, ma anche l’accrescimento della piccola e media fortuna «per la prosperità generale»“ (S. Giet).
“Il giogo quasi servile” sotto cui giaceva il “proletariato” agli inizi della civiltà industriale indusse Papa Leone XIII a comporre, nel 1891, la famosa enciclica, “Rerum novarum”, con cui diede un forte impulso alla dottrina sociale della Chiesa: i Pontefici successivi, a partire da Pio XI con la “Quadragesimo anno” (1931), ripresero nelle scadenze anniversarie dell’enciclica le grandi tematiche di questo documento.
- Pubblicità -
Ma con Papa Giovanni XXIII si fece strada addirittura l’idea di “Chiesa dei poveri”; un mese prima del Concilio, nel messaggio radiofonico dell’11 settembre 1962, egli affermò: “La Chiesa è la Chiesa di tutti, ma oggi più che mai è la Chiesa dei poveri”. Il grande cardinal Lercaro voleva che sotto questa proposta profetica si svolgesse tutto il Concilio Vaticano II: nel suo intervento disse: “Due terzi dell’umanità sono in condizione di fame e attendono, dalla diffusione dello spirito evangelico, una perequazione di giustizia e di fraternità, resa tanto più urgente dal confronto doloroso con le immense ricchezze che sono in mano di pochi… Noi non assolveremo il nostro compito e non risponderemo all’ispirazione di Dio e all’attesa degli uomini, se noi non poniamo il mistero di Dio nei poveri e l’evangelizzazione dei poveri come il centro e l’anima dell’opera dottrinale e legislativa di questo concilio”. Durante il Concilio nacque il movimento “La Chiesa dei poveri”, con i cardinali Lercaro, Montini (il futuro Papa Paolo VI), Suenens, e a capo l’arcivescovo di Recife (Brasile) Helder Camara.
In realtà il tema della povertà al Concilio fu insufficientemente trattato: ma “propriamente la mancanza di una chiara «teologia della povertà» non può essere imputata al Concilio, ma piuttosto alla situazione teologica trovata dal Concilio. Spesso nell’ambito della discussione conciliare è stata lamentata questa carenza. Né, d’altra parte, si poteva pensare di riuscire a improvvisarvi il rimedio” (G. Colombo).
Eppure il Concilio tracciò una strada per tutta la Chiesa, definendo la povertà non tanto un problema etico, ma una questione eminentemente cristologica, inerente alla missione stessa del Salvatore: “Come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione nella povertà e nella persecuzione, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via, per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo, «sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso, prendendo la natura di servo» (Fil 2,6-7) e per noi «da ricco che era si fece povero» (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre «ad annunziare la buona novella ai poveri, a guarire quelli che hanno il cuore contrito» (Lc 4,18), «a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10): così pure la Chiesa circonda col suo amore quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro intende servire a Cristo” (Lumen Gentium, n. 8). Sono parole fortissime e normative per tutta la Chiesa: la Chiesa è chiamata a prendere la “stessa via della povertà e della persecuzione” del suo Maestro e Signore!
Le due encicicliche sociali di Giovanni XXIII, proposte alla riflessione “degli uomini tutti”, la “Mater et Magistra” (1961), e la “Pacem in terris” (1963) rilanciarono con forza il tema dell’attenzione ai poveri e l’urgenza dello sviluppo economico dei paesi più arretrati. La “Mater et Magistra” affermò che il diritto alla proprietà privata è subordinato all’interesse “del popolo intero” (nella “Gaudium et spes” il Concilio aggiunse: “al bene di tutti i popoli”).
Il Pontefice successivo, Paolo VI, disse: “La povertà è attualmente il problema più grave della Chiesa”. E nella “Populorum progressio” (1967), enciclica tutt’oggi di sconvolgente attualità, si autodefinì “l’avvocato dei popoli poveri” (Populorum progressio, n. 4), e ammonì che “i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore all’appello di suo fratello” (Populorum progressio, n. 3); nella sua lucida analisi, condannò come si fosse “malauguratamente instaurato un sistema, che considera il profitto come motivo essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti”“ (id., n. 26); “è il principio fondamentale del liberalismo come regola degli scambi commerciali che viene qui messo in causa” (id., n. 58); e concludeva: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (id., n. 87). Paolo VI fondò la Commissione Pontificia “Iustitia et pax” per “suscitare in tutto il popolo di Dio la piena conoscenza del ruolo che i tempi attuali reclamano da lui, in modo da promuovere il progresso dei popoli più poveri, di favorire la giustizia sociale tra le nazioni” (Motu Proprio Catholicam Christi Ecclesiam, pg. 27). E nella “Octogesima adveniens”, nel 1971, il Pontefice affermò: “Il Vangelo ci inculca il rispetto privilegiato dei poveri e della loro particolare situazione nella società” (Octogesima adveniens, n. 12).
Nello stesso anno il Cardinale Michele Pellegrino, nella sua lettera pastorale “Camminare insieme”, ribadiva: “Riconoscere secondo il Vangelo il valore della povertà vuol dire rispettare e amare i poveri, mettersi dalla parte loro con una scelta preferenziale… La Chiesa non può fare altra scelta. Questa non è demagogia: è Vangelo” (n. 12).
Tale chiamata a conversione fu raccolta con entusiasmo nei primi anni dopo il Concilio, soprattutto in quelle realtà ecclesiali dove la povertà e l’ingiustizia erano più clamorose. Scriveva il vescovo latino-americano Samuel Ruiz: “I poveri non potranno essere evangelizzati se noi siamo latifondisti; i deboli e gli oppressi si allontaneranno da Cristo, se noi ci mostriamo alleati dei potenti; gli ignoranti non potranno essere evangelizzati, se le nostre istituzioni religiose continueranno ad ammassarsi nelle grandi città evitando le campagne ed il suburbio”.
Nel 1968, l’Assemblea della Conferenza Episcopale Latino-Americana (Celam) a Medellin sottolineò che l’opzione per i poveri metteva in discussione in primo luogo la Chiesa stessa: nel documento XIV “Povertà nella Chiesa” affermò il dovere di realizzare una “Chiesa libera da legami temporali, convenienze e prestigio ambiguo” (n. 18), veramente “vicina ai poveri” (n. 9). I Vescovi scrivevano: “Ci arrivano le lamentele sul fatto che la gerarchia, il clero e i religiosi sono ricchi e alleati dei ricchi”; denunciavano che contribuiscono a creare l’immagine di una Chiesa ricca “i grandi edifici, le case parrocchiali e dei religiosi, quando sono di qualità superiore a quella del quartiere in cui si trovano, i veicoli a volte lussuosi e le maniere di vestire ereditate da altre epoche” (n. 2); e proponevano “la povertà come impegno che si assume volontariamente e per amore alla condizione dei bisognosi di questo mondo” (n. 4): “la nostra abitazione e il modo di vita siano modesti, il nostro modo di vestire semplice… Vogliamo rinunciare ai titoli onorifici” (n. 12). L’“impegno ad una povertà materiale” ha un duplice significato: quello della “povertà spirituale” e quello della “denuncia della mancanza ingiusta dei beni di questo mondo” (n. 5). E nel documento II, “La Pace”, i vescovi giudicavano la “situazione di ingiustizia” come “situazione di peccato” e come “violenza istituzionalizzata” (n. 15), invitando a “creare un ordine sociale giusto” (n. 20), che difenda “i diritti dei poveri e degli oppressi” (n. 22), condannando “energicamente gli abusi… e le disuguaglianze eccessive tra ricchi e poveri” (n. 23).
Nel 1979, nella prima enciclica di Giovanni Paolo II, la “Redentor hominis”, il divario economico tra nord e sud venne descritto con i toni della parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro. Giovanni Paolo II nella “Sollecitudo rei socialis”, scritta nel 1988, nel ventesimo anniversario della “Populorum progressio”, ricordò che il capitalismo liberista, come il marxismo collettivista, ha tendenza imperialistica e, con le sue leggi di mercato, appartiene alle “strutture di peccato” (Sollecitudo rei socialis, n. 38); e nella “Centesimus annus”, redatta nel 1991 per commemorare il centenario della “Rerum novarum”, denunciò come “moralmente inammissibile” (Centesimus annus, n. 35) l’ideologia capitalistica radicalizzata che rifiuta di riconoscere il dramma mondiale della povertà e si affida fideisticamente al libero sviluppo delle forze di mercato (id., n. 42). In questa enciclica il Pontefice ribadiva, per la chiesa, l’“opzione preferenziale per i poveri”, e la necessità di incarnarla in stili personali di vita alternativi e nella modifica delle attuali strutture economiche di mercato (id., 57); “L’amore per l’uomo e, in primo luogo, per il povero, nel quale la chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia… Ciò sarà possibile non solo attingendo al superfluo, che il nostro mondo produce in abbondanza, ma soprattutto cambiando gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società” (id., n. 58).
Parole chiarissime del Magistero, quindi, a favore dei poveri e della lotta al loro fianco. E nel primo post-concilio i credenti furono spesso presi quasi da un’ansia di incarnare concretamente l’imperativo evangelico della scelta degli ultimi: fu il periodo in cui si videro vescovi che rinunciarono a residenze storiche per vivere in semplici appartamenti; cardinali che giravano con croci e pastorali di legno, rifiutando auto di lusso e autisti; religiosi e religiose che abbandonavano gli splendidi posti dove in genere sorgono i conventi per condividere le abitazioni degli operai, dei baraccati, dei poveri; nuove chiese più attente ad essere comunità di accoglienza e di servizio per tutti piuttosto che lussuosi edifici artistici; parroci che lasciavano sempre aperte le loro strutture, e che pubblicavano i bilanci economici fino a segnalare la spesa per lo spazzolino da denti… Fu il momento del “boom” dei preti-operai, dell’impegno dei laici nei sindacati, nei partiti, nelle organizzazioni sociali… Il momento in cui la Chiesa sembrava davvero prendere coscienza di dover essere, come diceva monsignor Tonino Bello, con un’espressione poi ripresa anche da Giovanni Paolo II, la “Chiesa del grembiule, l’unico paramento liturgico della prima Messa”…
Papa Francesco ha fondato il suo Pontificato sulla scelta dei poveri, elaborando finalmente una vera teologia della povertà. Già nella “Evangeli Gaudium” scriveva: “Quando uno legge il Vangelo incontra un orientamento molto chiaro: non tanto gli amici e vicini ricchi bensì soprattutto i poveri e gli infermi, coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati, «coloro che non hanno da ricambiarti » (Lc 14,14). Non devono restare dubbi né sussistono spiegazioni che indeboliscano questo messaggio tanto chiaro. Oggi e sempre, «i poveri sono i destinatari privilegiati del Vangelo», e l’evangelizzazione rivolta gratuitamente ad essi è segno del Regno che Gesù è venuto a portare. Occorre affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri. Non lasciamoli mai soli” (n. 48); “Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si fece povero» (2 Cor 8,9). Tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri” (n. 197); “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia». Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere «gli stessi sentimenti di Gesù» (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto un’opzione per i poveri intesa come una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa». Questa opzione – insegnava Benedetto XVI – «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà». Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri” (n. 198).
La Chiesa ha pagato e paga pesantemente, ai nostri giorni, il suo schierarsi con gli ultimi, sopportando perciò nuove forme di umiliazione e di martirio. Diceva già monsignor Helder Camara: “Fare giustizia è una grande carità ai nostri giorni, così pieni di ingiustizia. E la grande povertà per la Chiesa sta nell’accettare di essere mal giudicata, di rischiare la propria reputazione, di perdere il proprio prestigio. Sta nell’accettare di essere trattata da sovversiva, da rivoluzionaria, forse da comunista: ecco la povertà che Gesù chiede alla sua chiesa in questo tempo in cui viviamo”. E da monsignor Oscar Romero a tanti preti, religiosi e religiose, laici e laiche, uno stuolo di moderni martiri si sono immolati e si immolano nella difesa di Cristo sofferente nei fratelli.
Perché, come ci ricorda Papa Francesco nella “Gaudete et exsultate”, “«tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14). Detto in altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte”. Ed è nel mettere in pratica il discorso di Gesù delle Beatitudini, secondo Papa Francesco, che “si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita” (nn. 60-63).
Carlo Miglietta
Il commento alle letture di domenica 13 febbraio 2022 a cura di Carlo Miglietta, biblista; il suo sito è “Buona Bibbia a tutti“.