È la madre di tutte le vocazioni e la poniamo a metà del nostro cammino come segno emblematico, anche perché ha per protagonista Abramo, «nostro padre nella fede». La sua chiamata è improvvisa, squarcia la tela della sua quotidianità di capo-tribù residente in una splendida città mesopotamica, Ur, di cui gli archeologi sono riusciti a mostrare il glorioso passato. Una vita patriarcale e serena, giunta già a una meta importante, 75 anni, ma che si dovrà aprire a una tappa nuova e inattesa. Essa è basata su un comando divino perentorio risuonato in un giorno qualsiasi dell’esistenza di un capo-tribù che sperava solo di calcare le orme degli antenati, per approdare a una fine «sazia di giorni», come usa dire la Bibbia.
La vocazione di Abramo è, infatti, delineata secondo uno schema quasi “militare”. Un ordine, espresso col verbo ebraico halak, “andare”, «Vattene! »; un’esecuzione pronta e senza obiezioni – come invece accadrà per altre vocazioni importanti (ad esempio, quelle di Mosè e Geremia) – espressa con lo stesso verbo halak, «Abram andò come gli aveva ordinato il Signore» (Genesi 12,1.4). Parlavamo di vocazione a schema “militare” perché è facile pensare a un passo del Vangelo di Matteo quando il centurione di Cafarnao dice a Gesù: «Anch’io, che pure sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene…» (8,9). Una decisione radicale e netta è quella di Abramo, nella quale brillano due realtà.
La prima è il distacco dal passato, scandito secondo tre gradi o dimensioni. Egli deve lasciare la sua «terra», cioè la sua nazione e città, ove forse egli aveva venerato con i suoi concittadini la divinità lunare Sin, patrona di Ur, prima di sentire quella voce divina nuova e potente. Il taglio è, poi, con la «parentela», cioè con la rete delle molteplici relazioni tribali che nell’Antico Vicino Oriente erano molto fitte, intense e calorose e costituivano il patrimonio socio- culturale di una persona. Infine, c’è il distacco dalla «casa del padre» che è il clan familiare, il grembo sicuro ove Abramo viveva la sua quotidianità con sua moglie Sara e suo nipote Lot.
L’altra componente da sottolineare è quella del rischio, messo in luce da quella solenne omelia neotestamentaria che è la Lettera agli Ebrei: «Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (11,8-10).
Eppure la chiamata divina fa già balenare un futuro grandioso: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3). Per cinque volte risuona la radice ebraica barak, “benedire”, perché con Abramo si apre la storia luminosa della salvezza che abbraccerà l’intera umanità. Il patriarca s’avvia senza esitare. Ancora non sa quanto faticosa e ardua sarà la strada della sua vocazione. Ancora non conosce quanto drammatica sarà per lui la salita del Monte Moria per il sacricio del glio Isacco (Genesi 22)