Da mesi stiamo allestendo una sorta di pinacoteca con tanti quadri che rappresentano storie di vocazioni, spesso raffigurate proprio da pittori o scultori (pensiamo alla chiamata di Giona o di san Paolo). Su una di queste ideali pareti, questa settimana e la prossima, appenderemo due tavole. Ma il soggetto è unico come il protagonista, il profeta Ezechiele.
È lui stesso a descrivere in forma molto “visiva”, quasi cinematografica, per due volte la sua vocazione. La prima scenografia potremmo definirla surreale e barocca, com’è nello stile di questo profeta che era stato deportato lungo i fiumi di Babilonia (in questo caso, il Chebar) dieci anni prima della distruzione di Gerusalemme e la conquista di Giuda da parte dell’armata babilonese del re Nabucodonosor. Era allora l’anno 597/596 a.C. e i conquistatori avevano voluto piegare il popolo ebraico deportando le classi dirigenti, intellettuali e produttive.
Tra costoro c’era appunto il sacerdote Ezechiele. Ora, cinque anni dopo (592 a.C.), «la mano del Signore fu sopra di lui», ed ecco l’impressionante vocazione narrata, anzi, “sceneggiata” nel capitolo 1 del suo libro. Un carro incandescente avanza sorretto da un vento impetuoso, avvolto in una gran nube e in un turbinio di fiamme. Ciò che appare è «una figura composta di quattro esseri animati» con volti umani e quattro ali ciascuno. I molteplici particolari che Ezechiele accumula non possono essere qui registrati e spiegati perché sono molto complicati e spesso oscuri.
Se i volti di quegli esseri sono umani, la loro congurazione è, però, animalesca (leone, toro, aquila), secondo un modello noto in Mesopotamia: si trattava dei cosiddetti karibu (donde la parola «cherubino»), angeli custodi dei palazzi reali e dei templi. Ezechiele vuole indirettamente affermare che ora questi esseri, posti al servizio del potere politico e religioso pagano, sono legati al cocchio dell’unico vero Dio. La scena è molto mobile e subentrano immagini inattese e fin sconcertanti.
Ecco, infatti, carboni simili a torce infuocate; una serie di ruote pluridirezionali con cerchioni «pieni di occhi», cioè balenanti di riflessi e quindi splendenti; e sopra tutta la scena, che fa pensare quasi a una squadriglia di macchine volanti, un frmamento «simile a un cristallo splendente». Sotto questo cielo, ecco una serie di ali volanti e rombanti. E, alla fine, ecco un trono di zaffiro sul quale, immerso in una luce accecante e fiammeggiante, si leva imponente «una figura dalle sembianze umane».
La sua voce risuona con potenza e interpella il profeta atterrito. È il Signore che si rivolge a Ezechiele: «Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare… Io ti mando ai figli di Israele…». A questo punto, con un mutamento di tonalità e di scenografia, si apre la seconda raffigurazione della vocazione del profeta che presenteremo nella prossima puntata. Aggiungiamo una sola nota.
Che senso ha questa impressionante coreografia? Ezechiele vuole ricordarci che il Dio che lo chiama è trascendente, è mistero, è infinitamente superiore a noi; non è legato al tempio di Gerusalemme né a una terra, è “mobile”, cioè onnipresente, eterno e infinito. Quello del profeta è, quindi, un atto di fede simbolico in un aspetto fondamentale della persona di Dio, cioè il suo essere totalmente Altro, irriducibile a un idolo o a un’idea.
Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana