card. Gianfranco Ravasi – Le briciole di pane date ai cagnolini

689

È possibile parlare di un dato assente in un testo? La risposta affermativa non è paradossale perché ciò che si esclude dal proprio interesse non è un nulla, ma qualcosa che si ignora o si evita. Ebbene, nella galleria ideale di ritratti femminili presenti nel Vangelo di Luca, questa volta lasciamo una cornice vuota. Conosciamo la scena che avrebbe dovuto esserci e che il terzo evangelista ha invece escluso perché gli altri due, Matteo (15,21-28) e Marco (7,24-30) l’hanno rappresentata.

Cristo si trova nel territorio di frontiera con l’attuale Libano e un’indigena cananea (o siro-fenicia) si aggrappa a lui, sulla base della sua fama di guaritore, implorando un suo intervento per la figlia malata. Egli all’inizio la ignora semplicemente («Non le rivolse neppure una parola»). All’intercessione dei discepoli che vogliono liberarsi di questa presenza insistente e importuna, reagisce con un gelido “no”: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele», ribadendo il primato dell’orizzonte ebraico nella sua missione, sulla scia dell’elezione divina di Israele. Ma la sua freddezza, sia pure motivata, non scoraggia la donna che gli urla: «Signore, aiutami!». E qui il nostro sconcerto raggiunge l’apice, sentendo Gesù replicarle in modo sferzante con un probabile proverbio quasi “razzista”: ai cani non si dà il pane destinato agli esseri umani!

È vero che nella frase si adotta il diminutivo più attenuato, kynária, “cagnolini”, ma è evidente l’appellativo spregiativo di “cani” riservato agli infedeli, cioè ai pagani, a causa della loro impurità religiosa e rituale, tipica di questi animali. Già nell’Antico Testamento essi venivano usati come appellativo offensivo (“cani”) nei confronti dei prostituti maschi, presenti nei culti idolatrici. Ma quando il cuore di una madre soffre per la sua creatura, non conosce offese o limiti, e la sua replica è umile e coraggiosa al tempo stesso: «Eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».

A questo punto Gesù è, per così dire, trasformato dall’esempio della donna straniera; potremmo quasi dire che riceve da lei una lezione di fede che egli esplicita, prima di concederle il dono tanto sospirato: «Donna, grande è la tua fede!». La confessione e la lode rivolte a questa madre pagana aprono idealmente le frontiere della salvezza oltre il popolo ebraico. L’unico requisito decisivo non è più l’etnia o la cultura ma la fede, come era accaduto anche nel caso del centurione romano che implorava a Gesù la guarigione di un suo servo: «In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!» (Matteo 8,10).

A questo punto è facile comprendere il silenzio di Luca che pure condividerebbe la finale del racconto. Egli è per eccellenza l’evangelista aperto ai pagani ed è il cantore della misericordia assoluta di Gesù: questo episodio risulterebbe piuttosto stridente per i suoi lettori ed è noto che gli evangelisti non sono meri compilatori ma veri redattori che selezionano e interpretano i dati storici di Gesù e su Gesù trasmessi dalla tradizione. A margine ricordiamo che questo comportamento di Cristo rivela la sua reale umanità di ebreo, incarnata in un linguaggio e in un’appartenenza. Anche Paolo riconosce che il punto di partenza della traiettoria della salvezza è nell’elezione di Israele (Romani cc. 9-11). La meta, però, come dirà ai suoi apostoli il Risorto, è «fare discepoli tutti i popoli» (Matteo 28,19).

Fonte