Card. Gianfranco Ravasi – Giona, l’uomo che si lamentava con Dio

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Alcuni forse ricordano l’incantevole affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova con le sgambettanti estremità di Giona che fuoriescono dalla bocca di un cetaceo, oppure la mirabile storia di questo profeta narrata “visivamente” nel pavimento musivo di Aquileia, un altro gioiello artistico. Il libretto a lui intestato è, in realtà, una parabola che lo vede come protagonista: un profeta di nome Giona, in ebraico “colombo”, di cognome Ben Amittai, originario del villaggio di Gat-hefer e della tribù di Zabulon, realmente esistito nell’VIII sec. a.C. sotto il re di Samaria Geroboamo II (2Re 14,25).

Il delizioso racconto che lo riguarda è, invece, una libera creazione che attinge anche al fantastico e al mitico, come si può evincere dal grosso pesce che lo inghiottisce e poi lo risputa sulla riva del Mar Mediterraneo, spunto che certamente Collodi ha raccolto per il suo Pinocchio. A noi ora interessa la storia della sua vocazione, perché Giona incarna un non raro modello umano. Egli, infatti, è una persona lamentosa, paurosa, preoccupata del suo quieto vivere e soprattutto renitente alla chiamata divina.

Dio lo invia a predicare a Ninive, la grande capitale orientale dell’Assiria (nei pressi della martoriata città di Mosul in Iraq), ed egli invece s’imbarca per Tarsis, che è un remoto porto occidentale (forse Gibilterra). Il mare tempestoso e il mostro marino che lo accolgono sono simboli del giudizio divino che lo punisce, ma alla fi‰ne lo rispedisce a compiere la sua missione. Certo, il Signore rispetta la libertà dell’uomo, ma non è indifferente e interviene con la sua parola e la sua grazia per orientarlo verso il bene.

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E, infatti, Giona, giunto a Ninive, ha successo: i cittadini di quella capitale si convertono alla sua predicazione, «dal più grande al più piccolo. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia» e si impietosì nei loro confronti (3,10). Ma la storia non è fi‰nita. Questo petulante profeta ha ancora di che lamentarsi. Sta quieto sotto un frondoso albero di qiqajôn, forse di ricino, ma in cuore si macina di acredine perché egli si aspettava che i Niniviti, tradizionali nemici di Israele, non si convertissero così da far scatenare il giudizio divino su di loro invece del perdono.

Ma c’è un’altra ragione di lamentela. Un verme si attacca alle radici di quell’albero e lo fa seccare così che il sole incandescente batte sulla testa del profeta, mentre si leva anche un vento caldo dal deserto. Facile è immaginare la protesta di quest’uomo che ce l’ha con tutti e con Dio. Ma la voce divina risuona forte e chiara e svela la lezione di questa parabola contro ogni grettezza e xenofobia: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino… e io non dovrei aver pietà di Ninive nella quale ci sono più di centoventimila persone… e una grande quantità di animali?» (4,10-11).

Abbiamo voluto evocare questa storia di vocazione nel periodo pasquale perché Gesù l’ha assunta nel suo nucleo centrale per annunciare la sua morte e risurrezione: «Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Matteo 12,40). Perciò, «come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione » (Luca 11,30).

FONTE