Card. Gianfranco Ravasi – E Gesù chiamò a sé «quelli che voleva»

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«Salì su un monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui…». Inizia così il racconto della vocazione generale degli apostoli secondo il Vangelo di Marco (3,13-19), ripreso da Matteo (10,1-4) e da Luca (6,12-16).

Il verbo fondamentale è kalein, “chiamare”, è la voce di Cristo che risuona e interpella la libertà di quei dodici i cui nomi saranno poi elencati. Si ha qui non solo una componente radicale della vocazione, cioè la grazia, il primato di Dio che ci precede e provoca la nostra scelta libera. C’è anche una novità sostanziale con il mondo socio-culturale e religioso in cui quegli uomini erano inseriti. Infatti nel giudaismo era il discepolo che selezionava il suo maestro-rabbì, ascoltandolo tra i tanti.

Con Gesù, invece, accade quello che egli rievocherà nel Cenacolo l’ultima sera della sua vita terrena: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Giovanni 15,16). Anche per quanto riguarda il loro ministero ci sarà una variazione strutturale che ancor oggi si perpetua: il sacerdozio ebraico era “genetico” essendo legato alla nascita nella tribù di Levi. Quello cristiano è, invece, simile alla vocazione profetica, è basato su una chiamata diretta, personale, carismatica da parte del Signore.

Questo non cancella la necessità di una decisione personale dell’eletto: «Essi andarono da lui», annota l’evangelista, e subito dopo vengono ufficialmente insediati sia come «Dodici», così da riproporre la tipologia del nuovo popolo di Dio in stretta connessione con le dodici tribù di Israele, sia come «apostoli». Il vocabolo, di matrice greca, significa “l’inviato” e risuona 80 volte nel Nuovo Testamento, così come frequente è il verbo che ne sta alla base, apostellô, “inviare, mandare”, presente 132 volte. L’apostolo si distingue dal più generico «discepolo», che può essere applicato anche ai Dodici perché letteralmente in greco significa “colui che impara” (mathetés, usato ben 261 volte) e che abbraccia però tutti coloro che seguono Gesù e ne ascoltano la parola.

I Dodici hanno una triplice missione specifica, descritta nel brano di Marco. Devono “stare” con Gesù, ne condividono la vita, sono in costante intimità con lui, tant’è vero che sono invitati a lasciare le loro famiglie e le precedenti professioni. Devono, poi, “predicare”, “annunciare” (in greco keryssô, altro verbo fondamentale con il suo derivato kerygma, “annuncio”, 68 volte) il Vangelo del Regno di Dio. Infine devono “scacciare i demoni”, combattere il male in tutte le sue forme. La parola e l’opera di salvezza è il loro programma; la loro voce e le loro mani continuano il messaggio e l’azione del loro Maestro.

Il testo di Marco si conclude con l’elenco dei dodici nomi. È interessante notare che spesso Gesù chiama per nome, nella linea di una concezione semitica per cui il nome è la sintesi di una persona: così accade a Marta, a Maria di Magdala, a Simone il fariseo, a Zaccheo, a Filippo, a Lazzaro, a Simon Pietro, a cui anzi muta il nome, designando così la sua nuova e alta missione. Nella vocazione, l’incontro con Dio è sempre interpersonale, non è né un soliloquio né un monologo interiore, ma un dialogo e un incontro.

Articolo pubblicato su Famiglia Cristiana