Card. Carlo Maria Martini – La Madonna del Sabato Santo

1962

Lettera pastorale per l’anno 2000-2001

Questa lettera pastorale viene pubblicata mentre ancora siamo nell’anno del Grande Giubileo, che terminerà il 6 gennaio del 2001. Mi è stato quindi suggerito da più parti di non scrivere una lettera programmatica. Non sarebbe bene, infatti, sovrapporre nuove iniziative a quelle già numerose previste dal calendario del Giubileo, in particolare il pellegrinaggio diocesano a Roma del 4 novembre 2000.

Si desidera piuttosto una lettera che sia come una sosta nel cammino: una pausa che ci aiuti a situarci nel contesto presente, ci sostenga nel ritrovare visione e respiro nel tempo che attraversiamo, un po’ nello stile della Lettera di presentazione alla Diocesi del Sinodo XLVII (1995) e della Lettera Ripartiamo da Dio (1996).

Che cosa può voler dire “fare una sosta”? Mi viene alla mente qualche momento significativo del recente viaggio a Gerusalemme di Giovanni Paolo II. Abbiamo visto un Papa, curvo sotto il peso degli anni e delle fatiche, sostare in silenzio presso il Muro del pianto, in atteggiamento di umiltà, con in mano il foglietto contenente la domanda di perdono: lentamente ha introdotto il foglietto tra le fessure del muro, ripetendo un gesto familiare a milioni di Ebrei, collegandosi idealmente alla tradizione di preghiera e di sofferenza di un intero popolo. Lo abbiamo rivisto, poco prima della sua partenza, silenzioso e in preghiera presso la roccia del Calvario: leggevamo in lui un atteggiamento di tutti noi, in sosta silenziosa e contemplativa nel cammino del tempo, nello sforzo di capire il senso di quanto abbiamo vissuto e sofferto, in ascolto di ciò che lo Spirito ci vuole dire all’inizio del nuovo millennio.

Ho riflettuto così al senso che può avere questo “sabato del tempo” che è il Grande Giubileo. Il Giubileo – secondo il testo fondatore di Levitico 25,8-17 – è infatti il “sabato dei sabati”, il “sabbatico dei sabbatici”, l’anno che giunge dopo sette settimane di anni e partecipa perciò della sacralità del sabato, il giorno del riposo di Dio e delle sue creature. E’ l’anno della proclamazione dell’assoluto primato del Signore sulla vita e sulla storia, della restaurazione dell’ordine di giustizia e di pace fra gli uomini e nel creato, secondo il disegno dell’Eterno. Esso chiede il riequilibrio di tutte le disarmonie accumulate nel tempo: chiede il riposo dei campi, la restituzione dei beni ai loro primitivi proprietari, il condono dei debiti, la liberazione degli schiavi. E’ una sosta che esprime il senso religioso del tempo, una pausa che richiama il dominio di Dio sul cosmo e sulle vicende umane.

Nell’anno giubilare facciamo dunque memoria del dono prezioso del “sabato” al popolo d’Israele, la cui fede è la santa radice della Chiesa (Rom 11,16.18), e riscopriamo la santità del tempo, avvolto dalla benedizione di Dio. Questo ci fa gettare uno sguardo fiducioso sulle vicende della storia, perché ci ricorda che il Dio dell’alleanza è fedele e non si stanca di custodire il suo popolo in cammino verso la patria promessa.

Per noi cristiani c’è però un altro “sabato” che è al centro e al cuore della nostra fede: è il Sabato santo, incastonato nel triduo pasquale della morte e resurrezione di Gesù come un tempo denso di sofferenza, di attesa e di speranza.

E’ un sabato di grande silenzio, vissuto nel pianto dai primi discepoli che hanno ancora nel cuore le immagini dolorose della morte di Gesù, letta come la fine dei loro sogni messianici. E’ anche il Sabato santo di Maria, vergine fedele, arca dell’alleanza, madre dell’amore. Ella vive il suo Sabato santo nelle lacrime ma insieme nella forza della fede, sostenendo la fragile speranza dei discepoli. Mi è sembrato che una riflessione sul “Sabato santo” così come è stato vissuto dagli apostoli e soprattutto da Maria, ci potesse aiutare a vivere l’ultimo scorcio di anno giubilare ridandoci visione e respiro, permettendoci di riconoscerci pellegrini nel “sabato del tempo” verso la domenica senza tramonto.

E’ in questo sabato – che sta tra il dolore della Croce e la gioia di Pasqua – che i discepoli sperimentano il silenzio di Dio, la pesantezza della sua apparente sconfitta, la dispersione dovuta all’assenza del Maestro, apparso agli uomini come il prigioniero della morte. E’ in questo Sabato santo che Maria veglia nell’attesa, custodendo la certezza nella promessa di Dio e la speranza nella potenza che risuscita i morti.

Vorrei che entrassimo nella grazia del Giubileo passando attraverso la porta del Sabato santo: nei discepoli riconosceremo il disorientamento, le nostalgie, le paure che caratterizzano la nostra vita di credenti nello scenario della fine del secolo e dell’inizio del millennio; nella Madonna del Sabato santo leggeremo la nostra attesa, le nostre speranze, la fede vissuta come continuo passaggio verso il Mistero. Maria, vergine fedele, ci farà riscoprire il primato dell’iniziativa di Dio e dell’ascolto credente della sua Parola; nella sposa delle nozze messianiche potremo cogliere il valore della comunione che ci unisce come Chiesa mediante il patto sancito dal sangue di Gesù e approfondiremo la speranza del Regno che deve venire; Maria, madre del Crocifisso, ci condurrà a ripensare la carità per la quale egli si è consegnato alla morte per noi, la carità che è il distintivo del discepolo e da cui nasce la Chiesa dell’amore.

I discepoli e Maria, nel loro Sabato santo, ci aiuteranno a leggere il nostro passaggio di secolo e di millennio per rispondere con verità, speranza e amore alla domanda che ci portiamo dentro: dove va il cristianesimo? Dove va la Chiesa che amiamo? Vorrei comunicarvi la risposta presente nel mio cuore: siamo nel “sabato del tempo”, nel tempo cioè santificato dall’azione di Dio, tempo santo in cui si ricapitola il cammino compiuto e si apre il futuro della promessa, allorché verrà per tutti l’ “ottavo giorno” del ritorno del Signore Gesù. E’ quanto siamo chiamati a vivere particolarmente in questo anno di grazia del Giubileo, non fuori, ma dentro le contraddizioni della storia.

Sul Sabato santo mediteremo partendo anzitutto dalla prospettiva dei discepoli smarriti (capitolo I), poi dalla prospettiva di Maria Madre di Gesù (capitolo II), per illuminare con la visuale e la forza ispiratrice di Maria le domande dei discepoli e quelle della nostra poca fede (capitolo III).

Per i credenti questo sguardo al Sabato santo vorrebbe aiutare a rispondere alla duplice domanda, presente in molti di noi all’inizio di questo millennio: dove siamo? Dove andiamo?

Per i non credenti pensosi – accomunati dalle stesse domande – potrebbe forse essere l’occasione per ascoltare le testimonianze della fede sul senso di questo tempo e sul senso della storia non come schema ideologico, ma come frutto di sofferta riflessione e quindi come soffio purificatore, impulso a ricercare, a sperare, ad ascoltare la Voce che parla nel silenzio a chi cerca con onestà.

I

Nel silenzio e nello smarrimento del Sabato santo

Ci rappresentiamo anzitutto l’atteggiamento prevalente nei discepoli il giorno dopo la morte di Gesù, per poi interpretare il nostro tempo alla luce di questa loro esperienza.

Lo sconcerto dei discepoli

Mi sembra che il vissuto dei discepoli nel sabato dopo la crocifissione del Maestro sia quello di un grande smarrimento. Perché sono tanto smarriti?

Perché il loro Signore e Maestro è stato ucciso, il suo appello alla conversione non è stato ascoltato, le autorità lo hanno condannato e non si vede via di scampo o senso positivo da dare a tale evento. C’è stato, a partire dalla Cena pasquale, un succedersi vorticoso di fatti imprevedibili che li ha sorpresi e resi muti. Come i due discepoli che camminano verso Emmaus nel primo giorno della settimana, hanno il cuore triste (Lc 24,17); le anticipazioni che avevano avuto (le previsioni della Passione fatte più volte da Gesù), i gesti rassicuranti che li avevano sinora sostenuti (i miracoli del Maestro, il suo amore mostrato nell’ultima Cena) sono svaniti dalla memoria. Si ha l’impressione che Dio sia divenuto muto, che non parli, che non suggerisca più linee interpretative della storia. E’ la sconfitta dei poveri, la prova che la giustizia non paga.

A ciò si aggiunge la vergogna per essere fuggiti e per aver rinnegato il Signore: si sentono traditori, incapaci di far fronte al presente. Manca ogni prospettiva di futuro, non si vede come uscire da una situazione di catastrofe e di crollo delle illusioni, sono assenti persino quei segni che incominceranno a scuoterli a partire dal mattino della domenica (come le donne al sepolcro vuoto, cf Lc 24,22-23).

Ma perché fermarsi al Sabato santo?

Ma qui si pone la domanda: perché fermarsi al Sabato santo? Non siamo forse già nel tempo del Risorto? Perché non lasciarci ispirare anzitutto dalla Domenica di Pasqua? Perché riflettere sullo smarrimento dei discepoli dopo la morte di Gesù e non invece sulla loro gioia quando lo incontrano vivente (cf Gv 20,20: “E i discepoli gioirono al vedere il Signore”)?

E’ vero: siamo già nel tempo della risurrezione, il corpo glorioso del Signore riempie della sua forza l’universo e attrae a sé ogni creatura umana per rivestirla della sua incorruttibilità. Il nostro atteggiamento fondamentale deve essere di letizia pasquale.

E tuttavia la luce del Risorto, percepita dagli occhi della fede, ancora si mescola con le ombre della morte. Siamo già salvati nella fede e nella speranza (Rom 8,24), già risorti con Gesù nel battesimo quanto all’uomo interiore, ma la nostra condizione esteriore rimane legata alla sofferenza, alla malattia e al declino. Il peccato è vinto nella sua forza inesorabile di distruzione e però continua a coinvolgere innumerevoli situazioni umane e a riempire la storia di orrori. I poveri sono oppressi, i prepotenti trionfano, i miti sono disprezzati.

Siamo in una situazione simile a quella dei due discepoli di Emmaus nella mattina di Pasqua. Gesù è risorto, le donne hanno trovato il sepolcro vuoto, gli angeli hanno detto di non cercarlo tra i morti (Lc 24,2-6.22-23), ma il loro cuore è ancora appesantito: sono “stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti” (Lc 24,25). Siamo simili agli apostoli nel Cenacolo, che hanno già sentito parlare della risurrezione e tuttavia sono ancora chiusi in casa per la paura (Gv 20,19).

In altre parole, il tempo che viviamo è quello in cui la “buona notizia” del Signore risorto è accolta da alcuni ed è respinta da altri, e deve farsi strada fra la diffidenza e il rifiuto. Gesù crocifisso è già nella gloria del Padre ed è Signore dei tempi (“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”, Mt 28,18), ma l’evidenza della sua risurrezione e la gloria del suo trionfo permangono velati e vanno contemplati con lo sguardo della fede, superando il trauma del Venerdì santo e lo smarrimento del Sabato, per accogliere il disegno misterioso della salvezza proprio a partire dalla croce (“Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”, Lc 24,26). Siamo quindi nel regime della fede e della speranza, in cui è necessaria l’apertura della mente per accogliere la “buona notizia” (“allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture”, Lc 24,43) e l’allargamento degli orizzonti per sperare “contro ogni speranza” (Rom 4,18) di fronte alle condizione di morte che regna nell’umanità. Infatti “l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1Cor 15,26).

Siamo in un tempo che viene definito “del già e del non ancora”: Gesù è già risorto e glorioso, la sua grazia incomincia a trasformare i cuori e le culture, ma non si tratta ancora della vittoria finale e definitiva che si avrà solo col ritorno del Signore alla fine dei tempi. Perciò i sentimenti di smarrimento e di paura dei primi discepoli nel Sabato santo vanno contrastati e vinti con la fede e la speranza di Maria. Cerchiamo allora di renderci conto di quanto nel nostro tempo è segnato dalla diffidenza, per sottoporlo alla grazia della letizia pasquale.

Il nostro modo di vivere questo sabato della storia

Nell’inquietudine dei discepoli mi sembra di poter riconoscere le inquietudini di tanti credenti oggi, soprattutto in Occidente, a volte smarrirti di fronte ai cosiddetti segni della “sconfitta di Dio”. In questo senso il nostro tempo potrebbe essere visto come un “Sabato santo della storia”. Come lo viviamo? Che cosa ci rende un po’ smarriti nel contesto odierno della nostra situazione? Una sorta di vuoto della memoria, una frammentazione del presente e una carenza di immagine del futuro.

  1. Anzitutto la memoria del passato si è fatta debole. In realtà non mancano ricordi che ci potrebbero sostenere e dare fiato: esiste nel nostro contesto europeo e nazionale la memoria di un grande cammino cristiano legato a prestigiosi simboli e a luoghi di grande suggestione – basta pensare alle grandi cattedrali, a luoghi come Roma, Assisi ecc. – . Molte sono le tracce che la tradizione ebraico-cristiana ha lasciato nel modo di concepire la vita, di onorare la dignità della persona, di promuovere l’autentica libertà; la presenza del cristianesimo ha segnato la nostra storia con vestigia indelebili.

    Ma tale memoria si è indebolita sul piano del vissuto quotidiano. Molti non riescono più ad integrarla nella loro esperienza in modo da ricavarne comprensione sicura del presente e fiducia per il futuro. Il procedere lento e però progressivo del secolarismo (in forme differenti secondo i diversi ambiti di vita) suscita la domanda: dove stiamo andando? Cresce la difficoltà di vivere il cristianesimo in un contesto sociale e culturale in cui l’identità cristiana non è più protetta e garantita, bensì sfidata: in non pochi ambiti pubblici della vita quotidiana è più facile dirsi non credenti che credenti; si ha l’impressione che il non credere vada da sé mentre il credere abbia bisogno di giustificazione, di una legittimazione sociale né ovvia né scontata.
  1. Se la memoria delle radici del passato si fa debole, l’esperienza del presente diviene frammentaria e prevale il senso della solitudine. Ciascuno si sente un po’ più solo.

Tale solitudine si riscontra anzitutto al livello della famiglia: i rapporti all’interno della coppia e i rapporti genitori-figli entrano facilmente in crisi e ciascuno ha l’impressione di doversi aggiustare un po’ da sé.

Diminuisce la capacità di aggregazione delle grandi agenzie sociali e persino della parrocchia, in particolare per quanto riguarda i giovani. Non pochi movimenti sembrano dare segni di invecchiamento o almeno di non sufficiente ricambio generazionale.

Si frammentano le aggregazioni politiche e i vari tentativi di coalizione soffrono per il riproporsi di individualismi di gruppo. Anche là dove operano con successo e dedizione realtà molteplici di volontariato, si coglie una certa incapacità a lasciarsi coordinare per un’azione più efficace, a entrare “in rete”.

Ne consegue una autoreferenzialità che chiude su di sé singoli e gruppi. In questo contesto non stupisce il crescere di una generale indifferenza etica e di una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi.

Siamo dentro a un grande movimento di globalizzazione, che sembrerebbe corrispondere alla tendenza verso la manifestazione della fraternità e unità del genere umano che nasce dalla rivelazione biblica. Eppure tale processo di universalizzazione degli scambi di beni, di valori e di persone avviene nel quadro di un neoliberismo e di un neocapitalismo che punisce ed emargina i più deboli e accresce il numero dei poveri e degli affamati della terra.

  1. La fatica di vivere e interpretare il presente si proietta sull’immagine di futuro di ciascuno, che risulta sbiadita e incerta. Del futuro si ha più paura che desiderio. Ne è segno la drammatica diminuzione della natalità, come pure il calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Una metafora di paura del futuro si ha probabilmente nell’accresciuta inclinazione dei giovani a vivere e a divertirsi nella notte. Ci si aggancia all’attimo fuggente dimenticando le incertezze e gli smarrimenti del giorno, evitando di confrontarsi con un oggi e un domani impegnativi (non ci sarà qui anche un richiamo a leggere, nella tradizione cristiana della Veglia pasquale e delle altre grandi veglie e adorazioni notturne, una possibilità, finora poco esplorata, di offrire risposte di significato all’inquietudine che qui si esprime?).

Anche quella grande visione di futuro che è espressa nel fenomeno della mondializzazione fa prevedere per il domani del mondo piuttosto una unità di dominio dei più forti e dei più ricchi, una unità della torre di Babele (cf Gen 11,1-9), che non una unità di comunione di beni, una unità della Pentecoste e della primitiva comunità di Gerusalemme (cf Atti 2-4).

II

Il Sabato santo di Maria

Nel Venerdì santo, dopo la morte di Gesù, il discepolo Giovanni “prese Maria con sé” (Gv 19,27), nel suo cuore e nella sua casa. Non è facile immaginare ciò che questo vuol dire: si tratta di una casa in Gerusalemme? O di un semplice luogo di appoggio per i pellegrini della Galilea a Gerusalemme in occasione della Pasqua?

Cerco di introdurmi in questa casa dove la Madre di Gesù vive il suo “Sabato santo” e di iniziare, col permesso di Giovanni, un dialogo con lei. Un dialogo fatto anzitutto di contemplazione del suo modo di vivere questo momento drammatico.

Contemplo Maria: è rimasta in silenzio ai piedi della croce nell’immenso dolore della morte del Figlio e resta nel silenzio dell’attesa senza perdere la fede nel Dio della vita, mentre il corpo del Crocifisso giace nel sepolcro. In questo tempo che sta tra l’oscurità più fitta – “si fece buio su tutta la terra” (Mc 15,33) – e l’aurora del giorno di Pasqua – “di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato… al levar del sole” (Mc 16,2) – Maria rivive le grandi coordinate della sua vita, coordinate che risplendono sin dalla scena dell’Annunciazione e caratterizzano il suo pellegrinaggio nella fede. Proprio così ella parla al nostro cuore, a noi, pellegrini nel “Sabato santo” della storia.

Tu nel sabato del silenzio di Dio sei e rimani la “Virgo fidelis” e ci ottieni la “consolazione della mente”.

Che cosa ci dici, o Madre del Signore, dall’abisso della tua sofferenza? Che cosa suggerisci ai discepoli smarriti?

Mi pare che tu ci sussurri una parola, simile a quella detta un giorno dal tuo Figlio: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa…!” (Mt 17,20).

Che cosa vuoi comunicarci? Tu vorresti che noi, partecipi del tuo dolore, partecipassimo anche della tua consolazione. Tu sai, infatti, che Dio “ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio” (2 Cor 1,4).

E’ la consolazione che viene dalla fede. Tu, o Maria, nel Sabato santo sei e rimani la “Virgo fidelis”, la Vergine credente, tu porti a compimento la spiritualità di Israele, nutrita di ascolto e di fiducia.

Ma come opera la consolazione che viene dalla fede? Essa assume forme diverse e una di queste – di cui c’è tanto bisogno oggi – può essere chiamata la “consolazione della mente”. Di che cosa si tratta?

E’ un dono divino molto semplice, che permette di intuire come in un unico sguardo la ricchezza, la coerenza, l’armonia, la coesione, la bellezza dei contenuti della fede. Un teologo contemporaneo, Hans Urs von Balthasar, la chiamava “percezione della forma” (“Schau der Gesalt”), intuizione del legame che unisce tra loro tutte le verità di salvezza e ne svela la proporzione e il fascino. Di fronte all’evidenza della sofferenza e della morte, che tende a schiacciare il cuore, tale intuizione si pone come una grazia dello Spirito santo che fa risplendere talmente la “gloria di Dio” da illuminare con la luce della verità anche gli angoli più tenebrosi della storia. E’ la grazia di percepire la gloria di Dio che si manifesta nell’insieme dei gesti con cui il Padre si dona al mondo nella storia di salvezza e, in particolare, nella vita, morte e risurrezione di Gesù. E’ il dono di presagire dietro e sotto gli eventi della fede le vestigia del mistero della Trinità.

Si ha la “consolazione della mente” (o “consolazione intellettuale”) quando i gesti e le parole riportate nelle Scritture si collegano con altri gesti e parole della rivelazione: chi riceve tale grazia sente che ogni pietruzza del mosaico illumina quelle vicine e si compone con le più lontane in un disegno convincente e sfolgorante. Allora non si rimane più bloccati nella preghiera di fronte all’uno o all’altro dei momenti singoli della storia di salvezza, incapaci di vedere la relazione e il concatenamento di un singolo fatto o parola con tutti gli altri; la mente avverte di essere inondata di luce, il cuore si dilata, la preghiera zampilla come da una fresca sorgente.

E’ la grazia di visione sintetica e mistica del piano di Dio che a te, o Maria, è stata comunicata dalle parole dell’angelo Gabriele quando riassumeva in tua presenza il destino del figlio di Davide (“Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo… il suo regno non avrà fine”, Lc 1,32-33). E’ la grazia di contemplazione unitaria delle costanti dell’agire divino che tu hai cantato nel Magnificat (Lc 1,40-55). E’ l’esercizio del ricordo meditativo dei fatti salvifici che tu, o Maria, hai praticato fin dall’inizio: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19); “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51).

Ciascuno di noi, quando riceve questa grazia, anche soltanto qualche accenno di essa, vive qualcosa di simile a ciò che vissero i tre discepoli sul monte della Trasfigurazione. Contemplando Gesù con Mosé ed Elia e sentendoli parlare dell’ “esodo” di Gesù a Gerusalemme (cf Lc 9,21) essi intuiscono i profondi legami che intercorrono tra i mille episodi narrati nelle Scritture e colgono la forza di unità che li mette insieme e li porta a compimento nella Passione e Risurrezione del Signore. E’ un’apertura degli occhi e del cuore, che dà un senso profondo di appagamento e di pace. Allora anche le ombre e le tragedie di questo mondo si rivelano come attraversate dalla luce di amore, di compassione e di perdono che viene dal cuore del Padre. Si percepisce qualcosa della verità delle beatitudini, il cuore si apre alla speranza di giustizia, alla visione della vittoria dei poveri e degli oppressi di questa terra.

Un santo che ha goduto di questa grazia in maniera straordinaria così la descrive: “Il rimanere con l’intelletto illuminato in tal modo fu così intenso che gli pareva di essere un altro uomo, o che il suo intelletto fosse diverso da quello di prima. Tanto che se fa conto di tutte le cose apprese e di tutte le grazie ricevute da Dio, e le mette insieme, non gli sembra di aver imparato tanto, lungo tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni compiuti, come in quella volta sola” (S. Ignazio di Loyola, Autobiografia, n. 30).

Noi non sappiamo, o Maria, da quale tipo di consolazione profonda sei stata sostenuta nel tuo Sabato santo. Siamo certi però che Colui che ti ha gratificata di tali doni in momenti decisivi della tua esistenza ti ha sostenuto anche in quel giorno, in continuità con tutte le grazie precedenti. La forza dello Spirito, presente in te fin dall’inizio, ti ha sorretto nel momento del buio e dell’apparente sconfitta del tuo Gesù. Tu hai ricevuto il dono di poterti fidare fino in fondo del disegno di Dio e ne hai riconosciuto nel tuo intimo la potenza e la gloria. Tu ci insegni così a credere anche nelle notti della fede, a celebrare la gloria dell’Altissimo nell’esperienza dell’abbandono, a proclamare il primato di Dio e ad amarlo nei suoi silenzi e nelle apparenti sconfitte. Intercedi per noi, o madre, perché non ci manchi mai quella consolazione della mente che sostiene la nostra fede e fa sì che da un granello di senapa spunti un albero capace di offrire rifugio agli uccelli del cielo (cf Mt 13,31-32).

  1. Tu nel sabato della delusione sei la Madre della speranza e ci ottieni la “consolazione del cuore.

Che cosa ci dici ancora, o Maria, dal silenzio che ti avvolge? Ti sento ripetere, come un sospiro, la parola del tuo Figlio: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Lc 21,19).

La parola “perseveranza” può essere tradotta anche con “pazienza”. La pazienza e la perseveranza sono le virtù di chi attende, di chi ancora non vede eppure continua a sperare: le virtù che ci sostengono di fronte agli “schernitori beffardi, i quali gridano: ‘Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione’” (2Pt 3,3-4).

Tu, o Maria, hai imparato ad attendere e a sperare. Hai atteso con fiducia la nascita del tuo Figlio proclamata dall’angelo, hai perseverato nel credere alla parola di Gabriele anche nei tempi lunghi in cui non capitava niente, hai sperato contro ogni speranza sotto alla croce e fino al sepolcro, hai vissuto il Sabato santo infondendo speranza ai discepoli smarriti e delusi. Tu ottieni per loro e per noi la consolazione della speranza, quella che si potrebbe chiamare “consolazione del cuore”.

Se la “consolazione della mente” comporta una illuminazione dell’intelletto e una “apertura degli occhi” (cf Lc 24,31), la “consolazione del cuore” (cf Lc 24,32) – o “consolazione affettiva” – consiste in una grazia che tocca la sensibilità e gli affetti profondi inclinandoli ad aderire alla promessa di Dio, vincendo l’impazienza e la delusione. Quando il Signore sembra in ritardo nell’adempimento delle sue promesse, questa grazia ci permette di resistere nella speranza e di non venir meno nell’attesa. E’ la “speranza viva” di cui parla Pietro (cf 1Pt 1,3), è la “speranza contro ogni speranza” di cui parla Paolo a proposito di Abramo (cf Rom 4,18), il quale “per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento” (Rom 4,20-21).

Tu, o Madre della speranza, hai pazientato con pace nel Sabato santo e ci insegni a guardare con pazienza e perseveranza a ciò che viviamo in questo sabato della storia, quando molti, anche cristiani, sono tentati di non sperare più nella vita eterna e neppure nel ritorno del Signore. L’impazienza e la fretta caratteristiche della nostra cultura tecnologica ci fanno sentire pesante ogni ritardo nella manifestazione svelata del disegno divino e della vittoria del Risorto. La nostra poca fede nel leggere i segni della presenza di Dio nella storia si traduce in impazienza e fuga, proprio come accadde ai due di Emmaus che, pur messi di fronte ad alcuni segnali del Risorto, non ebbero la forza di aspettare lo sviluppo degli eventi e se ne andarono da Gerusalemme (cf Lc 24,13ss.).

Noi ti preghiamo, o madre della speranza e della pazienza: chiedi al tuo Figlio che abbia misericordia di noi e ci venga a cercare sulla strada delle nostre fughe e impazienze, come ha fatto con i discepoli di Emmaus. Chiedi che ancora una volta la sua parola riscaldi il nostro cuore (cf Lc 24, 32).

Intercedi per noi affinché viviamo nel tempo con la speranza dell’eternità, con la certezza che il disegno di Dio sul mondo si compirà a suo tempo e noi potremo contemplare con gioia la gloria del Risorto, gloria che già è presente, pur se in maniera velata, nel mistero della storia.

  1. Tu, nel sabato dell’assenza e della solitudine, sei e rimani la madre dell’amore e ci ottieni la “consolazione della vita”.

A questo punto, o Maria, azzardo un’ultima domanda: ma che senso ha tanto tuo soffrire? Come puoi rimanere salda mentre gli amici del tuo Figlio fuggono, si disperdono, si nascondono? Come fai a dare significato alla tragedia che stai vivendo? Mi pare che tu risponda di nuovo con le parole del tuo Figlio: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

Il senso del tuo soffrire, o Maria, è dunque la generazione di un popolo di credenti. Tu nel Sabato santo ci stai davanti come madre amorosa che genera i suoi figli a partire dalla croce, intuendo che né il tuo sacrificio né quello del Figlio sono vani. Se lui ci ha amato e ha dato sé stesso per noi (cf Gal 2,20), se il Padre non lo ha risparmiato, ma lo ha consegnato per tutti noi (cf Rom 8,32), tu hai unito il tuo cuore materno all’infinita carità di Dio con la certezza della sua fecondità. Ne è nato un popolo, “una moltitudine immensa… di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9); il discepolo prediletto che ti è stato affidato ai piedi della croce (“Donna, ecco il tuo figlio”, Gv 19,26) è il simbolo di questa moltitudine.

La consolazione con la quale Dio ti ha sostenuto nel Sabato santo, nell’assenza di Gesù e nella dispersione dei suoi discepoli, è una forza interiore di cui non è necessario essere coscienti, ma la cui presenza ed efficacia si misura dai frutti, dalla fecondità spirituale. E noi, qui e ora, o Maria, siamo i figli della tua sofferenza.

La percezione di una forza che ci ha accompagnato in momenti duri, anche quando non la sentivamo e ci sembrava di non possederla, è una esperienza vissuta da tutti noi. Ci pare a volte di essere abbandonati da Dio e dagli uomini, e però, rileggendo in seguito gli eventi, ci accorgiamo che il Signore aveva continuato a camminare con noi, anzi a portarci sulle sue braccia. Ci succede un po’ come a Mosé sul monte Oreb: egli riuscì a vedere qualcosa della gloria di Dio, che desiderava tanto contemplare (“Mostrami la tua gloria!”, Es 33,18) solo quando era già passata (cf Es 33,19-22).

Una tale consolazione opera in noi e ci sostiene efficacemente, pur senza una consapevole illuminazione della mente e una percepita mozione degli affetti del cuore; essa opera dandoci la forza di resistere nella prova quando tutto intorno è oscurità. La chiamo “consolazione sostanziale” perché tocca il fondo e la sostanza dell’anima, ben al di sotto di tutti i moti superficiali e consci; oppure “consolazione della vita” perché i suoi effetti si esprimono nella quotidianità permettendoci di stare in piedi nei momenti più duri (“resistere nel giorno malvagio”, Ef 6,13), quando la mente sembra avvolta dalla nebbia e il cuore appare stanco.

Tu conosci, o Maria, probabilmente per esperienza personale, come il buio del Sabato santo possa talora penetrare fino in fondo all’anima pur nella completa dedizione della volontà al disegno di Dio. Tu ci ottieni sempre, o Maria, questa consolazione che sostiene lo spirito senza che ne abbiamo coscienza, e ci darai, a suo tempo, di vedere i frutti del nostro “tener duro”, intercedendo per la nostra fecondità spirituale. Non ci si pente mai di aver continuato a voler bene! Ci accorgeremo allora di aver vissuto un’esperienza simile a quella di Paolo che scriveva ai Corinti: “In noi opera la morte, ma in voi la vita” (2 Cor 4,12).

Tu, o Maria, sei madre del dolore, tu sei colei che non cessa di amare Dio nonostante la sua apparente assenza, e in Lui non si stanca di amare i suoi figli, custodendoli nel silenzio dell’attesa. Nel tuo Sabato santo, o Maria, sei l’icona della Chiesa dell’amore, sostenuta dalla fede più forte della morte e viva nella carità che supera ogni abbandono. O Maria, ottienici quella consolazione profonda che ci permette di amare anche nella notte della fede e della speranza e quando ci sembra di non vedere neppure più il volto del fratello!

Tu, o Maria, ci insegni che l’apostolato, la proclamazione del Vangelo, il servizio pastorale, l’impegno di educare alla fede, di generare un popolo di credenti, ha un prezzo, si paga “a caro prezzo”: è così che Gesù ci ha acquistati: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo” (1 Pt 1,18-19). Donaci quell’intima consolazione della vita che accetta di pagare volentieri, in unione col cuore di Cristo, questo prezzo della salvezza. Fa’ che il nostro piccolo seme accetti di morire per portare molto frutto!

III

Verso l’ottavo giorno, nel sabato del tempo

Nella prima parte della lettera vi ho proposto di riconoscerci nel disorientamento vissuto dai discepoli il giorno seguente la morte di Gesù. Nella seconda ho voluto contemplare con voi la fede, la speranza e la carità della Madonna del Sabato santo. In questa parte finale vorrei mettere insieme i due momenti precedenti per farli interagire e cercare di comprendere come la luce della testimonianza di Maria e le consolazioni che ci ottiene dal suo Figlio illuminino le nostre insicurezze e orientino il nostro cammino.

Se l’incontro con i discepoli spaventati e tristi ci ha permesso di riconoscere la realtà delle nostre paure, delle resistenze che avvertiamo in noi e attorno a noi e delle nostre colpe, la fede, la speranza e la carità di Maria possono aiutarci a comprendere che il tempo – anche il nostro tempo – è come un unico, grande “sabato”, in cui viviamo fra il “già” della prima venuta del Signore e il “non ancora” del suo ritorno, come pellegrini verso l’ “ottavo giorno”, la domenica senza tramonto che lui stesso verrà a dischiudere alla fine dei tempi.

  1. Lo sguardo di fede sul passato

I discepoli del Sabato santo portano in sé la memoria di quanto hanno vissuto col Maestro. Ma si tratta di un ricordo carico di nostalgia e fonte di tristezza perché quanto era stato sperato e atteso con lui e per lui appare irrimediabilmente perduto.

Noi pure portiamo impresse le orme di un’insopprimibile memoria cristiana: basta pensare alla nostra cultura segnata dai grandi valori della tradizione biblica, a cominciare dall’idea di “persona” e dal senso del “tempo”, inteso quale storia orientata verso un compimento promesso e atteso. I nostri spazi vitali sono pieni delle tracce di questa memoria: dalle opere d’arte, tanto spesso a soggetto religioso, alle nostre chiese, al Duomo che è simbolo non solo della Chiesa locale, ma della stessa identità civile ambrosiana.

Come per i discepoli in cammino verso Emmaus, ancora totalmente immersi nel loro Sabato santo, la memoria di tali radici potrebbe essere per noi semplice oggetto di nostalgia e forse di un po’ di tristezza: una memoria quindi inoperosa, incapace di suscitare slanci e nuove imprese ricche di generosità e di passione. La Madonna del Sabato santo vive invece la memoria quale luogo di profezia: ricorda per sperare, rivisita il passato per aprirsi al futuro, nella certezza che Dio è fedele alle sue promesse e quanto ha operato in lei per la nascita del Figlio eterno nel tempo, lo opererà analogamente per la rinascita di lui e dei suoi fratelli dalla morte alla vita senza tramonto.

Maria “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,51). Ella che ben merita la lode evangelica “Donna, davvero grande è la sua fede” (Mt 15,28), sa coniugare il passato delle meraviglie del Signore col futuro che Lui solo sa suscitare. Il suo cantico di lode, il Magnificat, esprime al passato (“ha spiegato la potenza del suo braccio…”, Lc 1,51ss) le sue certezze per il futuro. La Madonna del Sabato santo ci insegna a recuperare la memoria non solo come elemento di tradizione, bensì anche, e fortemente, come stimolo al progresso. Dovremmo chiederci alla scuola della sua fede ricca di speranza: in che maniera valorizzare, aggiornandole al presente, le grandi tradizioni del passato della Chiesa?

Penso al patrimonio di arte delle nostre Chiese e mi interrogo su come potrebbe divenire mezzo di annuncio in un mondo che tanto sente il bisogno della Bellezza che salva.

Penso – per limitarmi a un altro significativo esempio – alla ricchissima tradizione degli Oratori, giusto vanto della nostra storia di fede, e mi domando in che modo potrebbero sempre più corrispondere alle inquietudini e alle sfide delle giovani generazioni, in cerca di alternative alla monotonia dei doveri del giorno in notti dilatate, riempite dai suoni forti delle discoteche, con gesti e segni illusori e indecifrabili sovente agli adulti.

E penso in maniera del tutto speciale a quel luogo privilegiato della memoria dei mirabilia Dei, delle opere mirabili di Dio, che è la Sacra Scrittura. La grazia di una “consolazione della mente”, che aiuti a leggere il senso globale degli eventi di questo mondo è in stretta relazione con la lettura orante della Bibbia, con la lectio divina. Chi è fedele alla lettura delle Scritture in atteggiamento di fede riceve dallo Spirito santo il dono di passare con gioia e fiducia attraverso gli enigmi della storia, cogliendo in tutto il manifestarsi del piano di Dio per la salvezza dell’uomo.

  1. La speranza che apre al futuro

Il Sabato santo è vissuto dai discepoli nella paura e nel timore del peggio. Perché il futuro sembra riservare loro sconfitte e umiliazioni crescenti. Maria però vive un’attesa fiduciosa e paziente; ella sa che le promesse di Dio si avvereranno.

Anche nel sabato del tempo in cui ci troviamo è necessario riscoprire l’importanza dell’attesa; l’assenza di speranza è forse la malattia mortale delle coscienze nell’epoca segnata dalla fine dei sogni ideologici e delle aspirazioni a essi connesse.

All’indifferenza e alla frustrazione, alla concentrazione sul puro godimento dell’attimo presente, senza attese di futuro, può opporsi come antidoto soltanto la speranza. Non quella fondata su calcoli, previsioni e statistiche, ma la speranza che ha il suo unico fondamento nella promessa di Dio. Di nuovo la Madonna del Sabato santo getta luce sul compito che ci aspetta e che ci è reso possibile dal dono dello Spirito del Risorto, il quale ci tocca interiormente con la “consolazione del cuore”. Si tratta di irradiare attorno a noi, con gli atti semplici della vita quotidiana – senza forzature –, la gioia interiore e la pace, frutti della consolazione dello Spirito.

Credere in Cristo, morto e risorto per noi, significa essere testimoni di speranza con la parola e con la vita.

Con la parola: non dobbiamo temere di toccare i grandi temi oggetto della speranza ultima, troppo spesso rimossi dal nostro linguaggio: la vita eterna e l’insieme dei novissimi che ad essa si connettono (morte, giudizio, inferno, purgatorio e paradiso: cfr. in proposito la lettera pastorale “Sto alla porta”).

Con la vita: siamo chiamati a dare segni credibili e inequivocabili della luce che i valori ultimi gettano sui valori penultimi, facendo scelte di vita sobrie, povere, caste, ispirate all’umiltà e alla pazienza di Cristo. Sono tali scelt, sempre più ampiamente condivise, che imprimono alla tendenza generale verso la globalizzazione i correttivi necessari per fare di tali processi non una radice mortifera di esclusione e di emarginazione dei sempre più poveri, ma una sorgente di inclusione progressiva di tutti nella partecipazione solidale allo scambio dei beni prodotti. Anche qui ci è modello e aiuto la “donna forte” (cf Prov 31,10) del Sabato santo, che ha dimostrato di sapere sperare contro ogni speranza e di credere nell’impossibile possibilità di Dio al di là di ogni evidenza della sua sconfitta.

  1. La carità che ricompatta il presente

Il Sabato santo è per i discepoli l’esperienza di un presente gravido di tensioni ed essi lo vivono avvertendo soprattutto la grande solitudine in cui li ha lasciati la morte di Gesù, di colui che era la roccia della loro comunione.

Non è difficile riconoscere che tale esperienza di solitudine serpeggia fra i cristiani odierni. Può essere colta anzitutto a livello personale, là dove si sperimentano le lacerazioni del cuore di fronte all’assenza di futuro, alla mancanza di senso, all’incapacità di dialogo. Penso poi ai processi di frammentazione che attraversano tante volte la vita familiare, come pure alle difficoltà di aggregazione vissute nelle comunità parrocchiali e negli stessi movimenti e associazioni, fino alla frantumazione della vita politica, segnata dallo scollamento fra rappresentanza e rappresentatività (i rappresentanti eletti dal popolo non ne rappresentano spesso i reali bisogni e interessi) e – all’interno del mondo cattolico – dalla diaspora seguita alla fine dell’unità politica dei cattolici.

Maria riesce a custodire non solo la memoria della comunione, ma la carità per viverla nel presente. Sta con i discepoli, li conforta, li rimette insieme, li incoraggia facendo loro gustare i frutti della “consolazione della vita” che genera comunione; nel tempo del silenzio di Dio e dell’apparente sconfitta dell’Amore crocifisso è elemento di coesione, testimone di compassionevole amore e di prossimità operosa; nel Cenacolo si dispone, già piena di Spirito santo, a ricevere con i discepoli il dono del nuovo inizio reso possibile dalla risurrezione di Gesù. Alla scuola di Maria non possiamo non chiederci come vivere la nostra condizione presente nella luce che il Risorto getta sul sabato del tempo in cui ci troviamo. Infatti nel “cammino-pellegrinaggio ecclesiale attraverso lo spazio e il tempo, e ancor più attraverso la storia delle anime, Maria è presente” (Giovanni Paolo II, Redemptoris Mater, n. 25).

A livello di esistenza personale la scuola di Maria può aiutare a vincere la tentazione dell’angoscia per giocare la propria vita con slancio e fiducia davanti all’Eterno: si tratta di riscoprire la vita stessa come vocazione, cui corrispondere nella fede in Dio e nella fedeltà che la Sua fedeltà rende possibile. E’ soltanto in questa prospettiva che il discernimento vocazionale, così necessario ai singoli e alle urgenze della comunità, trova il suo ambiente adeguato. E’ aprendosi nella preghiera, con la Madonna, alla grazia della “consolazione della vita” che è possibile perseverare ed essere fedele fino alla morte alla parola data nel consacrarsi a Dio.

Riguardo alla comunione familiare mi sembra che la luce della carità di Maria richieda di ritrovare e sempre più evangelizzare – a tempo e fuori tempo – la carità coniugale e in famiglia, quale soffio ispiratore capace di motivare sia la risposta alla vocazione matrimoniale sia la fedeltà, ogni giorno nuova, all’alleanza sancita nel sacramento nuziale. Senza un amore di gratuità, nutrito alle sorgenti della grazia, è impossibile poter vivere in continuità il dono reciproco che la vita di coppia esige e spendersi con sacrificio personale perché la vita della famiglia venga vissuta come luogo di libertà, di crescita, di verità. La sfida della crisi dei rapporti coniugali e parentali non può essere affrontata e superata che mediante il ripetuto reciproco perdono e la sollecitudine della carità ispirata dal Vangelo.

Analogamente, la comunione nella vita ecclesiale – a tutti i livelli, dalla parrocchia alla diocesi, dai movimenti alle associazioni – richiede il sussulto della carità della Madonna del Sabato santo: dobbiamo accoglierci e perdonarci tutti sull’esempio del Signore. Il Papa ce ne ha data una straordinaria testimonianza con le richieste di perdono a nome di tutta la Chiesa e con il perdono offerto personalmente al suo attentatore.

Occorre esercitare il dialogo fra noi e con tutti. Penso al bisogno di incessante slancio propositivo e operativo nella vita degli organismi collegiali parrocchiali e diocesani, dove la presenza di operatori pastorali laici sempre meglio animati, sostenuti e formati sarà determinante. Penso – nell’ottica della Chiesa universale di cui non possiamo non sentirci parte viva – all’urgenza di affrontare e risolvere insieme a livello veramente cattolico le grandi sfide della vita di oggi, tanto a livello mondiale, quanto più specificamente nella nostra società europea (in tale senso si muoveva il terzo “sogno” di cui ho parlato nel mio intervento al Sinodo europeo dello scorso ottobre). Penso alla promozione del dialogo ecumenico – la recente dichiarazione di Augsburg sulla giustificazione fra cattolici e luterani ne è un frutto prezioso; penso al dialogo interreligioso che sempre più appare come una urgenza ineludibile, non semplicemente a motivo della presenza crescente fra noi di immigrati appartenenti a mondi religiosi diversi dal nostro, ma anche per la responsabilità che i credenti in Dio di tutte le fedi hanno di rendere insieme testimonianza del Suo primato sulla vita e sulla storia, contribuendo così a fondare un comportamento condiviso, eticamente responsabile verso gli altri.

Il dialogo e la carità che deve ispirarlo sono un’urgenza pure nel rapporto fra società civile e rappresentanti politici: ce lo ha ricordato l’ultima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, celebrata a Napoli nel novembre scorso, che ha focalizzato il rapporto necessario, nella dovuta distinzione, fra mediazione politica, istituzioni e società civile nel paese. Se nel passato ha prevalso una logica passiva della delega, oggi assistiamo spesso a un preoccupante scollamento fra politica e vita ecclesiale, fra etica e servizio pubblico, fra interessi personali e interessi collettivi. Anche nel “sabato della politica” è necessario far risplendere qualche raggio della domenica di resurrezione. Bisognerà educare tanto all’esercizio della carità politica, quanto al dialogo fra le aggregazioni – che formano il tessuto della società civile e sono spesso espressioni della comunità ecclesiale – e coloro che si impegnano nella mediazione politica o vengono chiamati al servizio del bene comune nelle istituzioni.

Infine, nel rapporto fra l’uomo e il creato occorre discernere e percorrere vie di riconciliazione: la lacerazione della persona in se stessa e nei suoi rapporti si riflette nello squilibrio con cui è spesso vissuta la relazione fra storia e natura. La crisi ecologica consiste esattamente nello squilibrio indotto fra i ritmi dei tempi biologici e i tempi imposti dall’uomo: questi – con i mezzi tecnologici e scientifici di cui oggi dispone – può modificare, in maniera rapida e irreversibile, ciò che la natura ha prodotto in millenni e spesso milioni di anni. Un uso sobrio delle possibilità della tecnica si rivela sempre più urgente e necessario per tutti nel crescente processo di globalizzazione: anche qui la coscienza di essere nel sabato del tempo e non nel giorno del compimento deve indurci a scelte equilibrate, in cui il sapere e il potere si rivelino capaci di automoderazione in vista della crescita della qualità della vita di tutti e per tutti.

Confido, per questi cammini, nella capacità propositiva ed esemplare dei nostri giovani che sanno guardare all’esempio di Maria e che vorrei come chiamare a raccolta perché si assumano in questo contesto le loro responsabilità per il futuro.

  1. Dove siamo? Dove andiamo?

Siamo dunque nel sabato del tempo, incamminati verso l’ottavo giorno: fra “già” e “non ancora” dobbiamo evitare di assolutizzare l’oggi, con atteggiamenti di trionfalismo o, al contrario, di disfattismo. Non possiamo fermarci al buio del Venerdì santo, in una sorta di “cristianesimo senza redenzione”; non possiamo neanche affrettare la piena rivelazione della vittoria di Pasqua in noi, che si compirà nel secondo avvento del Figlio dell’uomo.

Siamo invitati a vivere come pellegrini nella notte rischiarata dalla speranza della fede e riscaldata dall’autenticità dell’amore: l’anno giubilare è, in questo senso, una nuova aurora che, fra la rinnovata memoria delle meraviglie di Dio e l’attesa del loro definitivo compimento, nutre l’impegno, rinnova lo slancio, ci fa sentire custoditi nel seno del Padre, insieme con Cristo (cf Col 3,3), con Maria, come Maria, nel Sabato santo della sua fede ricca di carità.

Allora, il sabato del tempo apparirà ai nostri occhi come già segnato dai colori dell’alba promessa, e la pallida luce dei giorni che passano si illuminerà dei primi raggi del giorno che non passa, l’ottavo e l’ultimo, il primo della vita eterna di tutti i risorti nel Risorto.

Ogni anno la celebrazione del Triduo pasquale ci accompagna e ci illumina in questo percorso di memoria. Nella ricchezza delle parole e dei gesti, esso orienta ogni volta la Chiesa a leggere se stessa nel quadro dell’intero piano di salvezza, a capire in quale direzione orientarsi, quale futuro prefigurare. Vi invito a celebrare il Triduo pasquale in questo clima spirituale, preparandolo accuratamente, in continuità con i passi con cui in questi anni lo stiamo riqualificando, per riguadagnarlo alla conoscenza delle nostre comunità.

Il nostro celebrare, radicato dentro una tradizione liturgica ricca come è la nostra ambrosiana, diventa come un entrare nel “sabato del tempo” ricapitolato nella Pasqua di Gesù, per attingere alla sua ricchezza di senso, per vivere della grazia che da esso si sprigiona. Incamminiamoci sempre più convintamene a celebrare e a vivere con questa sensibilità tutti i tempi liturgici, a partire da quello domenicale. Vi ritroveremo ogni volta un aiuto a superare lo smarrimento che ci assale e a vivere della grazia luminosa che ha rischiarato il Sabato santo di Maria.

  1. Per tentare un bilancio: un appuntamento, un invito

Vorrei che, guardando indietro alle tre settimane di anni del mio servizio a Milano, emergesse in chiara luce ciò che di tutti i nostri dialoghi e in tutte le nostre iniziative pastorali è stato veramente il centro e il cuore; vorrei che quanto lo Spirito ha detto alla nostra Chiesa durante il mio servizio di vescovo risultasse semplice e chiaro per tutti.

A tale scopo ho bisogno dell’aiuto di tutti voi e perciò chiudo la lettera – per tanti aspetti “sabbatica” – rivolgendovi un invito. Vi chiedo, cioè, di rispondere come singoli e come comunità alla domanda seguente: che cosa soprattutto ci ha aiutato in questi anni a camminare e crescere nell’amore del Padre, nella grazia del Cristo e nella comunione dello Spirito santo? Che cosa resta vivo e vivificante di questi due decenni di strada percorsa insieme? Che cosa lo Spirito ha detto alla nostra Chiesa milanese?

Sarebbe bello che le risposte fossero frutto di preghiera: potreste poi comunicarmi per iscritto quanto il Signore vi ha suggerito. Grazie ai vostri contributi tenterò di fare un bilancio che vorrei esprimere in una sorta di “Confessio laudis, vitae et fidei”.

Ci aiuti nella verifica la Madonna, la cui fede generosa vissuta nel Sabato santo è stata al centro di questa lettera, e la cui testimonianza e intercessione hanno accompagnato il mio servizio di pastore. A lei con voi nuovamente mi affido nell’anno giubilare dell’incarnazione del suo Figlio, il Salvatore nostro, il Redentore dell’uomo.

Domenica 6 agosto 2000,festa della Trasfigurazione del Signore e ventiduesimo anniversario della morte di Papa Paolo VI