Resi giusti per la fede. Il fariseo e il pubblicano, al centro del vangelo odierno, rappresentano due stili contrastanti di religiosità: la parabola mette in crisi le nostre “immagini” di Dio e ci costringe a riflettere sul significato della vera fede.
Probabilmente a molti sarà capitato, almeno una volta nella vita, di ritenere che se tutti la pensassero come noi il mondo sarebbe migliore. Magari abbiamo anche avuto l’ardire di dare a Dio qualche suggerimento su come condurre il corso della storia e gli eventi che costellano la nostra esistenza. Spesso, poi, esprimiamo giudizi impietosi verso gli altri, senza nemmeno conoscere veramente cosa abita nel loro cuore. Gesù biasima tali atteggiamenti. Se davvero vogliamo presentarci al cospetto di Dio, dobbiamo farlo con l’umiltà del pubblicano, di chi cioè è perfettamente consapevole di avere bisogno di Dio e della sua misericordia.
La prima lettura ricorda che Dio ascolta la preghiera dell’umile e del povero. L’insistenza della Scrittura sulla cura che va riservata ai miseri può dare ad un certo punto fastidio. Se proviamo tale sentimento, dobbiamo stare attenti, perché forse significa che non siamo davvero dalla parte dei poveri, magari perché ci sentiamo anche noi come il fariseo, convinti della nostra bontà e dei nostri meriti.
Gesù dice che il pubblicano andò a casa giustificato, cioè con il cuore colmo dell’amore di Dio, a differenza del fariseo. Viene da dire: meno male che Dio ama in questo modo! Dio non guarda la forza, la potenza, i meriti, ma scruta in profondità il cuore dell’uomo.
Ne è perfettamente consapevole san Paolo quando, ormai ridotto in catene, impotente davanti ai potenti di questo mondo, abbandonato persino dagli amici, davanti alla morte riesce a dire: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo». È il Vangelo che salva, non certo i nostri presunti meriti.
Fonte: Servizio della Parola