«Chiamare Dio con il nome di “Padre”»
Il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità (cf. Is 66,13; Sal 131,21), che indica ancor meglio l’immanenza di Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all’esperienza umana dei genitori che, in certo qual modo, sono per l’uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sbagliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ricordare che Dio trascende la distinzione dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane [cf. Sal 27,10], pur essendone l’origine e il modello [cf. Ef 3,14; Is 49,15]: nessuno è padre quanto Dio.
(Cf. CCC 239).
«Sia santificato il tuo nome»
Nel linguaggio biblico il nome rappresenta la realtà stessa dell’individuo, il suo mondo interiore, la sua essenza, la sua identità e talora anche la missione di una persona (cf. Gen 17,5;17,15;32,28-30;Rt 1,20;Gv 1,42; Ap 2,17). Nella mentalità semitica conoscere il nome di qualcuno era conoscere, e in qualche modo anche possedere, la sua persona; sicché Dio non rivela mai il suo nome, perché non può mai essere totalmente compreso né posseduto dall’uomo (Es 3,13-14).
Il nome di Dio è l’essenza stessa di Dio, il suo essere rivolto a noi. La preghiera chiede che questo nome – che è Dio stesso nel suo rivolgersi a noi – sia santificato, che Dio stesso cioè manifesti la sua identità come santa. Così, pronunciare il nome di Dio non significa semplicemente utilizzare una parola che lo indica, ma addentrarsi nella sua santità, nel suo stesso essere (si veda ad esempio nel Sal 20,8: «Gli altri confidino nei carri e nei cavalli, noi confidiamo nel nome del Signore», e in Gv 17,6: «Io ho fatto conoscere il tuo nome a quelli che mi hai dato»).
«Venga il tuo Regno»
«Venga»: più che una richiesta è un desiderio. I figli davanti al Padre non si approfittano del potere, vogliono diventare servi. C’ è un senso di urgenza: se fosse per il desiderio di colui che prega, il suo Dio sarebbe già il suo re.
«Il tuo Regno»: il regno di Dio è il centro e il motivo della predicazione di Gesù (Mc 1, 14-15), la ragione che spiega la sua vita e la sua morte.
Lontano dall’idea di un messianismo politico, condiviso da alcuni discepoli (Mt 20,21), ma ritenuto da Gesù una tentazione (Mt 4,8-9), Gesù indicava la vicinanza del regno di Dio nelle opere che lui compiva, nella vita umana liberata dalla malattia, da ogni forma di male e di oppressione (Lc 7,18-23; Mt 11,2-6). Indicava i segni del regno di Dio nell’accoglienza e nella riconciliazione che concedeva ai peccatori in nome di Dio e quindi in una nuova fraternità che stava per nascere (Lc 15,1-2; Mc 2,15). Mostrava nei suoi gesti e nelle sue parole il progressivo allargarsi dei confini di questo regno, fino ad abbattere tutte le barriere tra gli uomini (Mt 8,5-13; 15,21-28).
«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»
L’espressione è di sapore giudaico e quindi per noi di non immediata comprensione, come le due precedenti. Per comprenderla, prima di tutto non bisogna dimenticare che essa è retta dall’appellativo «Padre»: «Padre, sia fatta la tua volontà». Questo fatto connota subito in maniera differente il senso di «volontà».
Secondo la tradizione biblica, la volontà di Dio non si riduce ai comandamenti, perché se così fosse sarebbe un impegno che dobbiamo portare avanti noi e questa domanda sarebbe semplicemente una richiesta di aiuto perché riusciamo noi a fare la sua volontà. Come le precedenti, questa domanda ha due risvolti, uno che riguarda Dio e il suo agire, l’altro che riguarda noi e la nostra capacità di metterci in sintonia con lui.
«Dacci il nostro pane quotidiano»
Le ultime tre domande del Padrenostro orientano lo sguardo non più al cielo, ma alla terra. Tuttavia questa seconda parte non deve essere disgiunta dalla prima; anzi, c’è tra loro un’intima connessione e consequenzialità. Infatti la seconda parte della preghiera evidenzia come si devono mettere a fuoco i bisogni fondamentali dell’esistenza umana e credente, perché non impediscano la nostra adesione al Padre, ma anzi diventino terreno sul quale si edifica e si esprime la nostra vita di figli di Dio.
La domanda sul pane si inquadra in questo contesto. Essa però chiede di essere ben compresa nel suo significato. La nostra condizione di vita potrebbe renderla oggetto di fraintendimento: cosa significa chiedere il pane quotidiano per coloro che sulla loro mensa hanno garantito quotidianamente già ben più del pane necessario? «È bello -dice Gandhi- parlare di Dio mentre siamo seduti dopo una piacevole colazione e nell’attesa di un pranzo ancora migliore: ma come posso parlare di Dio alle moltitudini che devono tirare avanti senza due pasti al giorno? A loro Dio può soltanto apparire come pane e burro». Si può correre il rischio di svilire la forza della domanda, intendendola subito in un senso troppo spirituale e allegorico. Oppure potremmo intenderla come una preghiera fatta per coloro che non hanno da mangiare; ma allora la nostra sensibilità ci fa reagire: non tocca forse a noi (e, prima ancora, a loro) darci da fare perché ciò avvenga, invece di chiedere che lo faccia Dio? E poi: che cos’è in fondo questo pane di cui abbiamo veramente bisogno?
Occorre rimetterci alla scuola della Parola per apprendere la ricca esperienza di vita che è racchiusa in questa invocazione e che può scaturire per noi dalla preghiera quotidianamente ripetuta con fede.
«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»
La richiesta del perdono sarebbe impropria e impossibile se non fosse pronunciata di fronte al volto di questo Dio che, nella vita di Gesù, nella sua parola, nella sua prassi e massimamente nella sua morte e risurrezione, ha manifestato tutta la sua vicinanza e disponibilità al perdono. Noi possiamo perciò avanzare questa domanda perché ci è stato manifestato il vero volto di Dio: la sua paterna misericordia.
Il perdono non è una semplice remissione, di una colpa passata, ma è il dono di instaurare relazioni nuove. Quindi lo possiamo riconoscere quando vediamo che realmente colui che lo riceve è trasformato. Questa trasformazione noi la riconosciamo dentro le relazioni fraterne, nei diversi contesti in cui si gioca la nostra vita con chi ci è prossimo. Possiamo perciò comprendere il senso della domanda; chi prega così vive nella fede la certezza dell’amore gratuito di Dio, Padre di misericordia, perciò domanda di vedere la forza del perdono ricevuto proprio dentro il perdono che egli accorda ai fratelli: è li che noi riconosciamo di essere perdonati da Dio, rinnovati nel profondo perché capaci di perdonare.
Il perdono è autentico rinnovamento perché rende capaci di vivere sempre nuove relazioni; chi perdona vive la gioia di vedere nascere in chi ha perdonato la capacità di un amore veramente diffusivo.
«E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male»
L’invocazione crea comunque una certa difficoltà ed è senza dubbio quella che ha suscitato più problemi interpretativi. Infatti questa formula sembra far pensare a un Dio che «induce» nella tentazione. È tuttavia chiaro nell’insieme del discorso biblico che Dio non può tentare al male e che non è lui che ci induce nella tentazione. La Lettera di Giacomo dice: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (Gc 1, 13). L’impressione iniziale è dunque scongiurata da questa affermazione che Dio non tenta nessuno al male.
C’è quindi una concezione di prova come l’esperienza dentro la quale è messa a nudo la fede e la fedeltà a Dio del credente o del popolo. Chiediamo che il momento della prova non diventi il momento della nostra caduta, del venire meno della nostra fede e fedeltà a Dio.
Chiedendo nella preghiera: «Non ci indurre in tentazione», risvegliamo a nostra volta l’attenzione a non disperdere nella frammentazione del quotidiano il senso del primato del Padre e della fedeltà al Vangelo.
– « … ma liberaci dal male»: La preghiera del Padre nostro, con quest’ultima invocazione, sembra chiudersi tragicamente. L’orante sente tutto il peso del male che schiaccia l’esistenza umana. Ma bisogna tenere presente che questa finale si congiunge con l’inizio della preghiera («Abbà, Padre»), caratterizzando così la situazione di una comunità di fratelli in pericolo come la condizione di chi è posto sotto la protezione del Padre. Siamo invitati a recuperare questo senso di fiducia che permea tutto il Padre nostro. Se siamo fedeli in tale atteggiamento filiale e fiduciale verso il Padre, egli non ci farà venire meno la sua forza perché non cadiamo nella prova, non ci farà venire meno la sua presenza che ha già vinto il mondo e il maligno.