BOSE: Meditazione di Avvento – 11 dicembre 2015

Mt 24,45-51 (Lezionario feriale di Bose)
45Chi è dunque il servo fedele e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? 46Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! 47Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. 48Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda», 49e cominciasse a percuotere i suoi conservi e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, 50il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, 51lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti.

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In questa similitudine che esorta all’attesa del ritorno del Signore si parla di un servo cui il padrone ha affidato la cura, il nutrimento di “quelli della casa”, i “conservi”. Questo servo siamo ciascuno di noi, chiamati a farci carico dell’altro, di chi vive con noi, accanto a noi, l’altro verso il quale ci facciamo prossimo in quell’unica “casa del Signore” che è la terra abitata, il mondo affidato alle nostre cure. Nostro compito è essere fedeli al mandato e prudenti nel compierlo, così saremo “beati” di quella beatitudine che consiste nella piena comunione con il Signore. Una beatitudine che si realizza nel servizio agli altri. Del resto, ce lo ricorda il più ampio brano parallelo di Luca (Lc 12,35-48), il nostro Signore è un padrone che al suo ritorno “si cingerà le vesti e si metterà a servire” i suoi stessi servi, paradosso di un padrone che manifesta la sua signoria nel servizio, scandalo di un ministero che non avrà fine perché il servizio è la manifestazione della carità che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8).

Certo, per restare “fedeli e prudenti”, per abitare la beatitudine promessa è necessario credere al ritorno del Signore e attenderlo come imminente. Dubitare della promessa, sospettare un ritardo da parte del Signore è già lasciarsi andare allo stordimento, ottenebrare la propria mente e il proprio cuore e comportarsi da nemico nei confronti del prossimo che ci è stato affidato. Non a caso, le battiture verso i compagni di servizio precedono e non seguono l’ubriachezza e la crapula: prima cessiamo di vedere l’altro come un fratello, una sorella, qualcuno “per cui Cristo è morto” (cf. Rm 14,15) e poi, conseguenza inevitabile, cerchiamo l’oblio nel mangiare e bere vissuto non come atto di comunione e di condivisione, ma come bulimia di chi pensa solo a se stesso.

[ads2]Ora, il ritorno del Signore avviene “in un giorno che non ci si aspetta e in un’ora che non si sa” perché, in attesa di quello alla fine dei tempi, c’è un ritorno di Cristo quotidiano, feriale, che assume i tratti dell’altro, del povero, del malato, del carcerato, dello straniero immigrato… Nel servizio quotidiano reso agli altri, nella condivisione dei beni ricevuti, nella sottomissione reciproca, nell’offerta all’altro della razione di cibo che lo nutre e lo fa vivere noi cristiani siamo chiamati ad attendere il regno che ci è stato donato. Certo, il non lasciarsi andare, il non scadere nella routine, il custodire nella piccolezza il nostro cuore affinché non si esalti, il non ricercare cose grandi di una grandezza che non è il Signore, tutto questo comporta vigilanza e lotta quotidiana, discernimento comune, obbedienza tra “compagni di servizio”. Ma non dobbiamo temere: assieme alla responsabilità dell’altro ci sono stati dati anche i mezzi per portarla a compimento. Nessuno, infatti, è tentato al di là delle proprie forze (cf. 1Cor 10,13): si tratta solo si esserne consapevoli e di vivere nella gratitudine e nella vigilanza questo tempo che è il nostro, il tempo in cui l’amore del Signore diventa tangibile grazie all’amore degli uni verso gli altri, quel povero amore di cui siamo capaci e del quale ci sarà chiesto conto.

Fratel Guido della comunità monastica di Bose

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