Sesta Catechesi – Incontro Mondiale delle Famiglie – Dublino 2018

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SESTA CATECHESI

LA CULTURA DELLA SPERANZA

“SUA MADRE CUSTODIVA TUTTE QUESTE COSE NEL SUO CUORE(LC 2,51)

Gesù, Maria e Giuseppe, in voi contempliamo
lo splendore del vero amore, a voi, fiduciosi, ci affidiamo. Santa Famiglia di Nazaret, rendi anche le nostre famiglie
luoghi di comunione e cenacoli di preghiera, autentiche scuole di Vangelo
e piccole Chiese domestiche. Santa Famiglia di Nazaret, mai più ci siano nelle famiglie
episodi di violenza, di chiusura e di divisione; che chiunque sia stato ferito o scandalizzato venga prontamente confortato e guarito.
Santa Famiglia di Nazaret,
fa’ che tutti ci rendiamo consapevoli
del carattere sacro e inviolabile della famiglia, della sua bellezza nel progetto di Dio.
Gesù, Maria e Giuseppe,
ascoltateci e accogliete la nostra supplica. Amen.
(Papa Francesco, Preghiera per il Sinodo sulla Famiglia 25 marzo 2015)

Spesso, dinanzi a quelle vicende umane improvvise, inaspettate, sorprendenti, in cui non si scorge un benché minimo senso logico, e da cui non si riesce a trarre alcun beneficio, la reazione del cuore è quella della repulsione, della ribellione per giungere a volte all’esasperazione, sprofondando così nella rabbia più totale. Per nessuna persona sulla terra la vita si svolge secondo i piani e programmi desiderati. Vivere diventa così un’eterna lotta, fatta spesso di compromessi e di equilibrismi, e dove a denti stretti si cerca sempre di conquistare quanto sembra dovuto. La parola “sperare” nel linguaggio corrente diventa così ambire di raggiungere con tutto se stessi quanto il cuore desidera augurandosi di riuscirci veramente. Allora non può non sorgere la domanda: Ma è possibile che sperare voglia dire entrare in questo vortice di incertezza e al contempo di lotta continua per un ideale che ogni giorno debba essere nuovamente affermato e conquistato? Vale la pena vivere la propria vita spendendosi totalmente per un qualcosa che appare sempre irraggiungibile? Davanti a questa logica imperante che abita e domina la terra si fa avanti la figura di Maria, di colei che, avendo vissuto lo stesso e identico dinamismo delle vicende umane toccandone persino il fondo, si pone in modo del tutto diverso o, per dir meglio, opposto. Se guardiamo la storia della sua vita trasmessa dai racconti evangelici, vediamo che anche Maria vive quanto mai avrebbe potuto immaginare.

Le sue prime parole che conosciamo sono infatti proprio queste: “Com’è possibile?”. Forse nella fede popolare si è eccessivamente affermata un’immagine di Maria che in modo docile e accondiscendente accoglie automaticamente il disegno di Dio e le vicende che la vita le offre. Ci si dimentica che anche lei ha un cuore umano e che in quanto creatura non può non interrogarsi, domandarsi o chiedersi il senso del suo personale corso storico. I Vangeli non dicono mai che Maria abbia delle chiare ed evidenti risposte alle sue domande. Una sola cosa, però, più volte detta di lei è espressa con questa frase: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,51). Lei, dinanzi agli eventi inaspettati, inimmaginabili e a volte non desiderati, mostra ed insegna a tutti l’arte del custodire nel cuore tutto ciò che le accade. Che vuol dire? Significa che di quanto si vive nella vita non va scartato nulla, anzi, va tutto conservato integralmente dentro di sé, perché nel tempo possa rendersi chiaro il senso di ogni cosa e in esso rivelarsi la grandezza del disegno di Dio. È certamente umano non comprendere pienamente le vicende della vita. Ed è ancora più umano sorprendersene. È disumano, invece, rigettarle e cercare di dimenticare quanto la vita ci pone dinanzi. Qui non si vuole affatto affermare una sorta di fatalismo divino, secondo cui tutto ciò che si vive è già prestabilito e si rende comprensibile alla mente limitata dell’uomo nello scorrere del tempo. Significherebbe annullare totalmente la libertà umana. La storia di ciascuna persona è, invece, l’affermazione più grandiosa e straordinaria della libertà della creatura umana. Infatti, l’angelo Gabriele chiede a Maria la sua personale disponibilità al disegno divino. A lei è data la totale libertà di dire il suo “sì” o il suo “no”.

Medesimo dinamismo si compie nella storia di Giuseppe. Dio non obbliga mai nessuno a fare qualcosa, e neppure manipola dall’alto le vicende umane. Se tutto, dunque, è lasciato alla libertà dell’uomo, in quale modo Dio entra ed interagisce nella sua vita? Papa Francesco invita sempre a cercare luce nella Parola di Dio, la quale «non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino, quando Dio “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4)» (AL 22). La Parola è essenzialmente una compagna di viaggio per tutti, non esclude nessuno. Non esiste alcuna situazione critica coniugale e familiare in cui la Parola di Dio non sappia mostrare la sua vicinanza e la sua prossimità. La domanda fondamentale però è questa: Cosa rivela Dio con la luce della Sua Parola? Papa Francesco non parla di spiegazione del senso delle singole vicende umane, che è quanto si è più tentati di trovare. Egli evidenzia una sola cosa che è, al contempo, una certezza più volte affermata in diversi passi della Scrittura: “la meta del cammino”. La questione fondamentale dei nostri tempi è proprio questa: l’uomo vive la sua vita conoscendo e guardando il punto di arrivo del suo pellegrinare nel mondo? Quando un arciere tira la freccia per colpire il bersaglio, per lui non è tanto importante da quale posizione far partire la  freccia o quale percorso farle fare per raggiungere il suo obiettivo. Certamente questi elementi sono parte integrante dell’arte del tiro con l’arco, ma non ne costituiscono parte essenziale. Ciò che più conta, invece, è proprio colpire il bersaglio. Oggi per molti non funziona così. Si è più presi dal guardare il punto di partenza degenerando spesso in facili vittimismi perché si è nati in contesti familiari di origine né scelti né mai apprezzati. Come anche si tende più a curare ciò che si va costruendo nella vita in ogni singolo passo senza però mai domandarsi o interessarsi veramente dove si vada a finire.

Raramente si vive guardando il bersaglio della propria vita. Sembra un’assurdità ma è la più concreta e comune realtà. Solo la Parola divina è in grado di offrire una luce autorevole riguardo la meta del vivere umano, ed è a partire da questo unico e solo punto finale che tutte le vicende umane della vita acquistano vero gusto e sapore. In tal modo, sperare significa una cosa molto più grande e profonda: non preoccuparsi più di guardare secondo i canoni umani il modo in cui si svolgono le singole vicende, ma scorgere come in ogni singolo fatto è sempre presente la tensione verso il vero destino ultimo dell’uomo. Qual è allora la vera palestra della cultura della speranza? Solo la famiglia è il luogo originario e primordiale in cui tutto diventa pane quotidiano, a cominciare dalla relazione fondamentale dei coniugi. A tal proposito Papa Francesco offre alle coppie un suggerimento alquanto concreto: «C’è un punto in cui l’amore della coppia raggiunge la massima liberazione e diventa uno spazio di sana autonomia: quando ognuno scopre che l’altro non è suo, ma ha un proprietario molto più importante, il suo unico Signore. Nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale e segreta della persona amata e solo Lui può occupare il centro della sua vita» (AL 320). Il coniuge non è e non deve essere mai la felicità finale della propria esistenza ma rappresenta solo la strada, certamente fondamentale, che conduce a questa pienezza di vita: quanta grazia, quanta pace e quanta gioia riceverebbero le coppie se vivessero la loro relazione coniugale secondo tale prospettiva piuttosto concreta. Cercare la gioia della propria vita nel coniuge è la menzogna e al contempo il pericolo più grande per un matrimonio. La persona che si sposa non è il tutto della vita ma è la via maestra per condurre a quel Tutto cui da sempre si è chiamati. Solo vivendo in tale prospettiva la speranza si afferma anche in quelle situazioni in cui potrebbe sembrare una parola inopportuna ed insignificante, soprattutto quando «la vita familiare si vede interpellata dalla morte di una persona cara» (Al 253).

Soprattutto in tale contesto «non possiamo tralasciare di offrire la luce della fede per accompagnare le famiglie che soffrono in questi momenti. Abbandonare una famiglia quando una morte la ferisce sarebbe una mancanza di misericordia, perdere un’opportunità pastorale, e questo atteggiamento può chiuderci le porte per qualsiasi altra azione evangelizzatrice» (Al 253). Quale annunzio di speranza è possibile allora dare in queste situazioni drammatiche? Certamente la presenza fisica del familiare «non è più possibile, ma, se la morte è qualcosa di potente, “forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). L’amore possiede un’intuizione che gli permette di ascoltare senza suoni e di vedere nell’invisibile. Questo non è immaginare la persona cara così com’era, bensì poterla accettare trasformata, come è ora. Gesù risorto, quando la sua amica Maria volle abbracciarlo con forza, le chiese di non toccarlo (cfr. Gv 20,17), per condurla a un incontro differente» (Al 255). La morte non è lo scacco matto, la sconfitta dell’esistenza umana come è spesso percepita dal mondo odierno. Se da un lato essa ricorda il limite dell’uomo, dall’altro proietta oltre lo stesso limite. Infatti, «se accettiamo la morte possiamo prepararci ad essa. La via è crescere nell’amore verso coloro che camminano con noi, fino al giorno in cui “non ci sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). In questo modo ci prepareremo anche a ritrovare i nostri cari che sono morti. Come Gesù restituì a sua madre il figlio che era morto (cfr. Lc 7,15), similmente farà con noi. Non sprechiamo energie fermandoci anni e anni nel passato. Quanto meglio viviamo su questa terra, tanto maggiore felicità potremo condividere con i nostri cari nel cielo. Quanto più riusciremo a maturare e a crescere, tanto più potremo portare cose belle al banchetto celeste» (Al 258).

Non esiste affatto una dicotomia tra la vita terrena e l’aldilà. È insensato pensare di disprezzare la vita terrena con la convinzione di guadagnarsi l’aldilà; come anche, nel tentativo di esorcizzare la morte, è assurdo fare della vita attuale il proprio tutto a causa dell’incertezza del dopo (questa è la tendenza più comune oggi). Entrambi gli stili di vita sono la distorsione del senso profondo del vivere. Bisogna invece annunziare con forza che quanto di più umano si vive nell’oggi è già santo e benedetto da Dio e non vai mai disprezzato; esso, però, non è il tutto della nostra vita, ma è l’antipasto di quel banchetto eterno celeste di cui spesso parla la Sacra Scrittura. Ciò significa che tale antipasto di gioia che la vita terrena offre va vissuto integralmente e profondamente, perché sarà proprio esso a preparare in modo adeguato la persona a ciò che è  eterno. Lo sguardo della Chiesa deve allora rivolgersi con tenerezza a tutte quelle famiglie ferite dalla morte di un loro caro. «Comprendo l’angoscia di chi ha perso una persona molto amata, un coniuge con cui ha condiviso tante cose. Gesù stesso si è commosso e ha pianto alla veglia funebre di un amico (cfr Gv 11,33.35). E come non comprendere il lamento di chi ha perso un figlio? Infatti, “è come se si fermasse il tempo: si apre un abisso che ingoia il passato e anche il futuro. […] E a volte si arriva anche ad accusare Dio. Quanta gente – li capisco – si arrabbia con Dio”. “La vedovanza è un’esperienza particolarmente difficile […] alcuni mostrano di saper riversare le proprie energie con ancor più dedizione sui figli e i nipoti, trovando in questa espressione di amore una nuova missione educativa. […] Coloro che non possono contare sulla presenza di familiari a cui dedicarsi e dai quali ricevere affetto e vicinanza devono essere sostenuti dalla comunità cristiana con particolare attenzione e disponibilità, soprattutto se si trovano in condizioni di indigenza”» (Al 254).

A tutti costoro la Chiesa è chiamata ad annunziare con forza e convinzione che la gioia non è stata loro tolta o rubata, perché «tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante» (Al 324). Non a caso Papa Francesco conclude proprio l’Amoris laetitia con queste parole a significare che «la gioia dell’amore che si vive nelle famiglie» (Al 1) (sono le primissime parole di questa medesima esortazione) ci chiama alla promessa di una gioia grande che non verrà mai tolta in eterno: «Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (Al 324). Questa è la vera speranza cristiana che la Chiesa è chiamata a far diventare cultura nel mondo di oggi: tutto ciò si gusta, si realizza e si rende manifesto soprattutto nella famiglia, in tutte quelle relazioni fondamentali in cui l’esperienza basilare dell’amore ci prepara a quell’Amore eterno di Cristo Sposo al quale tutti ci ricongiungeremo nella comunione dei santi.

In Famiglia

Riflettiamo

  1. Nelle nostre famiglie spesso alla parola “speranza” è attribuito il significato del compimento dei propri desideri. È totalmente errato pensare così alla luce della fede cristiana?
  2. Il luogo primordiale ed originario della speranza è la famiglia. Che significa questa affermazione, e cosa bisogna fare perché questo possa concretamente attuarsi?

Viviamo

  1. Non esiste una famiglia che non viva il dramma della morte di un proprio caro. Come poter annunziare concretamente il senso vero e profondo della speranza cristiana in tali contesti familiari?
  2. Come può un genitore che ha prematuramente perso un figlio o una persona a cui in modo improvviso è venuto a mancare il proprio coniuge, diventare portatore di speranza cristiana?

In Chiesa

Riflettiamo

  1. Quando si usa la parola “speranza” lo si fa spesso per indicare qualcosa di incerto o di improbabile da raggiungere fino a significare il totale scetticismo. Chiaramente non è questo il senso propriamente cristiano della speranza. Perché questo divario di senso che predomina spesso nella mente e nei cuori dei cristiani? Cosa la Chiesa è chiamata a fare per annunziare la vera speranza cristiana?
  2. Oggi nell’evangelizzazione della Chiesa si tocca raramente la questione dell’eternità, dell’aldilà fino a diventare quasi un vero e proprio tabù. Perché succede questo? Cosa è mancato? Cosa è opportuno fare?

Viviamo

  1. Il grande problema non è solo parlare di speranza ma vivere la speranza. Come può concretamente una comunità cristiana nelle varie attività pastorali vivere la speranza?
  2. La presenza di una persona nello stato vedovile o di chi ha perso un figlio prematuramente potrebbe essere fondamentale per la crescita e la maturità delle coppie che stanno facendo un cammino in preparazione alla vita consacrata nel sacramento del matrimonio. Come potrebbe tutto questo diventare pastorale ordinaria delle nostre comunità cristiane?