PRIMA CATECHESI
LE FAMIGLIE DI OGGI
“FIGLIO, PERCHÉ CI HAI FATTO QUESTO?
ECCO, TUO PADRE E IO, ANGOSCIATI, TI CERCAVAMO” (LC 2,48)
Maria, donna dell’ascolto, rendi aperti i nostri orecchi; fa’ che sappiamo ascoltare la Parola del tuo Figlio Gesù tra le mille parole di questo mondo;
fa’ che sappiamo ascoltare la realtà in cui viviamo, ogni persona che incontriamo,
specialmente quella che è povera, bisognosa, in difficoltà.
Maria, donna della decisione, illumina la nostra mente e il nostro cuore,
perché sappiamo obbedire alla Parola del tuo Figlio Gesù, senza tentennamenti;
donaci il coraggio della decisione,
di non lasciarci trascinare perché altri orientino la nostra vita.
Maria, donna dell’azione,
fa’ che le nostre mani e i nostri piedi si muovano “in fretta” verso gli altri, per portare la carità e l’amore del tuo
Figlio Gesù,
per portare, come te, nel mondo la luce del Vangelo. Amen.
(Papa Francesco, Piazza San Pietro 31 maggio 2013)
I Vangeli ci consegnano pochissimi racconti riguardanti le vicende della Santa Famiglia di Nazareth. Molto è lasciato al nostro immaginario, considerando che sono circa trenta gli anni in cui Gesù vive a Nazareth con i suoi. I pochi episodi trasmessici diventano allora fondamentali per scorgere il mistero di questa Famiglia. L’unico racconto che ci presenta Gesù dodicenne (a quel tempo l’età non di un semplice ragazzo, ma di una persona che da poco ha raggiunto l’età della maturità) che interagisce con i suoi genitori si trova nel Vangelo di Luca ed è il cosiddetto racconto del “ritrovamento di Gesù nel tempio a disputare con i dottori della legge”. Ci saremmo sicuramente aspettati la narrazione di una pagina idilliaca della Santa Famiglia, un po’ come quella degli spot pubblicitari, in cui tutti i membri della famiglia sono belli, sempre sorridenti e luminosi, nella totale e assoluta reciproca intesa, invece, con nostra grande meraviglia, il Vangelo ci consegna tutta un’altra storia. Per usare un termine oggi molto di moda, la Famiglia di Nazareth “va in crisi”. Maria e Giuseppe sono persone religiosissime, vanno puntualmente ogni anno al tempio di Gerusalemme per la festa di Pasqua, come ci racconta Luca stesso, portano con loro Gesù per educare anche Lui a questi ritmi religiosi, ma all’improvviso, durante il viaggio di ritorno da Gerusalemme, dopo una giornata di cammino non trovano Gesù nella comitiva.
Questa Famiglia va a pregare, ma a quanto pare la loro preghiera e la loro devozione religiosa non la preserva da questo genere di vicissitudini familiari. Immaginiamo poi cosa possano provare Maria e Giuseppe dinanzi a questo evento assolutamente imprevisto. Un padre e soprattutto una madre possono ben capire l’angoscia assurda in cui un genitore sprofonda quando non trova più suo figlio e non sa dove cercarlo. Insomma, questa Famiglia Santa non ci fa una bella figura, non ci dà una buona testimonianza e non può esserci da esempio. Perché l’evangelista Luca ci tiene a raccontare e a lasciare nella storia questa vicenda così drammatica? Tutto ciò smonta il nostro modo di pensare questa Famiglia, e sicuramente ci proietta verso altro, altrove, verso un mistero più grande che sfugge alla nostra comprensione. Papa Francesco, allora, in Amoris laetitia apre i nostri occhi proprio su questo mistero: «La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr. Gen 4)» (Al 8). La Parola di Dio non ci presenta affatto un’immagine idealistica e astratta di famiglia, come ci saremmo aspettati, ma offre al nostro sguardo storie varie di famiglie concrete, con la singolarità e l’unicità delle loro problematiche, difficoltà e sfide. La Parola ci proietta proprio nella realtà con «la presenza del dolore, del male, della violenza che lacerano la vita della famiglia e la sua intima comunione di vita e di amore» (Al 19). Allo stesso modo «si presenta l’icona della famiglia di Nazareth, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profughi rifiutati e inermi». Il punto fondamentale, allora, non è l’assenza di crisi nelle famiglie (non esiste una sola famiglia, neppure la Santa Famiglia, che ne sia esente), ma come reagire dinanzi a qualsiasi crisi. Il racconto lucano nella sua lungimiranza e concretezza offre a tutte le famiglie quelle coordinate fondamentali che diventano vera scuola di vita per tutti.
Ad un primo impatto noi genitori di oggi, tutti presi dalle mille attenzioni e premure verso i nostri figli, coglieremmo subito l’imprudenza di Giuseppe e Maria nel lasciare il proprio Figlio solo e incustodito per una intera giornata nel viaggio di ritorno verso casa. In realtà, in quella cultura Gesù non è considerato più minorenne, ragion per cui è trattato come uno della sua età. Oltre a questo, però, possiamo cogliere un altro elemento più profondo, dandogli un nome molto usato sia in ambito sociale che ecclesiale: “sfida educativa”. A tal proposito, Papa Francesco offre a tutti noi una lungimirante indicazione: «l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare. […] Pertanto il grande interrogativo non è dove si trova fisicamente il figlio, con chi sta in questo momento, ma dove si trova in un senso esistenziale, dove sta posizionato dal punto di vista delle sue convinzioni, dei suoi obiettivi, dei suoi desideri, del suo progetto di vita. Per questo le domande che faccio ai genitori sono: “Cerchiamo di capire dove i figli veramente sono nel loro cammino? Dov’è realmente la loro anima, lo sappiamo? E soprattutto: lo vogliamo sapere?”» (Al 261).
Spesso ci troviamo davanti tantissimi genitori, tutti presi dalla preoccupazione che il proprio figlio possa apprendere tante attività, come quelle didattiche, sportive, artistiche, magari spingendolo a fare quelle cose che essi stessi avrebbero voluto fare da giovani, ma che non si fermano mai con lui ad ascoltare per un attimo soltanto il mondo intero del suo cuore. Giuseppe e Maria corrono questo rischio, con tutta l’angoscia che esso comporta, e solo dopo tre giorni, tre lunghissimi ed interminabili giorni, trovano Gesù nel tempio. La loro prima reazione è proprio lo stupore, perché, come leggiamo in Amoris laetitia, «è inevitabile che ogni figlio ci sorprenda con i progetti che scaturiscono da tale libertà, che rompa i nostri schemi, ed è bene che ciò accada. L’educazione comporta il compito di promuovere libertà responsabili, che nei punti di incrocio sappiano scegliere con buon senso e intelligenza; persone che comprendano senza riserve che la loro vita e quella della loro comunità è nelle loro mani e che questa libertà è un dono immenso» (Al 262). Il figlio è sempre una sorpresa, è sempre un mistero per i genitori sin dal suo concepimento.
«Con i progressi delle scienze oggi si può sapere in anticipo che colore di capelli avrà il bambino e di quali malattie potrà soffrire in futuro, perché tutte le caratteristiche somatiche di quella persona sono inscritte nel suo codice genetico già nello stadio embrionale. Ma solo il Padre che lo ha creato lo conosce pienamente. Solo Lui conosce ciò che è più prezioso, ciò che è più importante, perché Egli sa chi è quel bambino, qual è la sua identità più profonda» (Al 170). Pertanto, dinanzi al mistero del figlio l’atteggiamento più vero non può mai essere quello del giudizio, della delusione, dell’accusa, della condanna. Quante volte dalle labbra dei genitori escono queste affermazioni che uccidono veramente un figlio: “Tu non sei il figlio che mi aspettavo!”. Dinanzi a questo «riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva ed indissociabile del loro essere padre e madre» (Al 165) l’atteggiamento più santo è l’apertura alla sorpresa di Dio. Tutto ciò non si realizza in modo spiritualistico o, a dir poco, disumano.
È chiaro che l’inaspettato sconvolga, turbi e provochi angosce, come nel caso di Giuseppe e Maria, di cui si afferma proprio che da angosciati cercano Gesù. Il Vangelo non disumanizza il cuore dell’uomo, ma rispetta e dà voce ai sentimenti, che non sono né buoni né cattivi, e al contempo ci insegna come relazionarci con i nostri sentimenti: bisogna sempre domandarsi e chiedere. Loro pongono una domanda a Gesù, anzi è proprio Maria, che a nome di entrambi, chiede a Gesù. Le parole che lei utilizza in modo straordinario in pochissime battute ci aprono al vero mistero della genitorialità: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Il figlio rimane sempre figlio, e come tale va sempre chiamato, riconosciuto e amato. Al figlio bisogna sempre chiedere e domandare, mai va accusato e condannato, ed un genitore non ha mai paura di mettere in gioco se stesso nella relazione con il figlio: “Perché mi hai fatto questo?”. In gioco non è la regola morale o il dovere o ciò che è giusto o sbagliato. Ciò che più conta è la relazione, e nel caso specifico la relazione fondamentale tra genitore e figlio. Maria va anche oltre. Lei evidenzia non solo la relazione tra genitore e figlio, ma la relazione tra padre e madre e figlio nella sua completezza e integrità.
È lei, la madre, a parlare non solo a nome suo, ma prima a nome del padre e poi a nome di se stessa. Dietro tale sequenza si adombra un ordine straordinario della paternità e della maternità in relazione alla figliolanza. A ragione, Papa Francesco afferma che «entrambi “contribuiscono, ciascuno in una maniera diversa, alla crescita di un bambino. Rispettare la dignità di un bambino significa affermare la sua necessità e il suo diritto naturale ad avere una madre e un padre”. Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia. Diversamente, il figlio sembra ridursi ad un possesso capriccioso. Entrambi, uomo e donna, padre e madre, sono “cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti”. Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore» (Al 172). Perché è Maria e non Giuseppe a parlare? Perché lei nomina prima il marito? Perché da che mondo è mondo non possiamo in alcun modo negare l’unicità della relazione della madre col figlio concepito e portato nel suo grembo: è lei che «collabora con Dio perché si produca il miracolo di una nuova vita» (Al 168). Questo portare il figlio dentro di sé, nelle proprie viscere, non è solo un elemento anatomico o fisiologico o temporale della madre, ma afferma una dimensione permanente che caratterizza la maternità della donna. Maria parla a Gesù perché lei ha un rapporto di maggiore vicinanza ed intimità col figlio, ma al contempo (una cosa che dovrebbero imparare a fare sempre tutte le madri di oggi) lei fa da tramite a Giuseppe e afferma l’antecedenza della paternità rispetto alla maternità.
Qui siamo ben lontani da un discorso culturale o sociale o morale o, ancor più, maschilista, in cui si afferma la priorità del padre sulla madre. Il racconto evangelico proietta il nostro sguardo ben più lontano, più in fondo e più in alto: il padre è tale in quanto segno della Paternità di Dio. Invece, a cosa assistiamo oggi? Ad «una “società senza padri”. Nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita» (Al 176). Il Vangelo allora ci illumina su una verità fondamentale: «i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno» (Al 177). Se Maria e Giuseppe riescono ad interagire come madre e padre nei confronti di Gesù è perché alla base è viva la loro complicità coniugale. Quante volte dimentichiamo che il fondamento della genitorialità non è la figliolanza (non si diventa genitori con la sola nascita naturale del figlio, e Giuseppe ne è una testimonianza concreta), ma la coniugalità della coppia. Infatti, la crisi fondamentale vissuta oggi più che mai dalle famiglie riguarda proprio l’analfabetismo affettivo che parte proprio dalla relazione fondamentale tra i due coniugi per riversarsi in tutti gli altri ambiti, generando la «“cultura del provvisorio”. Mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio» (Al 39).
Tutto questo chiaramente scoraggia le giovani generazioni dal formarsi una famiglia, impaurite dal fallimento di quelli che hanno fatto questa scelta prima di loro. In tale senso, la Famiglia di Nazareth diventa un faro non ideale, ma reale perché anch’essa, nelle contraddizioni e nelle assurdità delle sue vicende di vita, mostra a tutte le generazioni «la gioia dell’amore» (Al 1) che si vive tra le mura domestiche. Per questo, il Santo Padre con risolutezza afferma: «L’alleanza di amore e fedeltà, di cui vive la Santa Famiglia di Nazareth, illumina il principio che dà forma ad ogni famiglia, e la rende capace di affrontare meglio le vicissitudini della vita e della storia. Su questo fondamento, ogni famiglia, pur nella sua debolezza, può diventare una luce nel buio del mondo. “Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi che cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile; ci faccia vedere come è dolce ed insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale”» (Al 66). Vogliamo imparare l’essere famiglia? Buttiamo via il modello idealistico che abbiamo nella nostra testa, e guardiamo alla Santa Famiglia, che mostra a tutti come le vicende critiche della vita sono sorgente inesauribile di grazia e di santificazione per il mondo intero.
In Famiglia
Riflettiamo
- Che significa che una crisi familiare può diventare una fonte inesauribile di grazia?
- Qual è secondo voi l’unicità propria della maternità o della paternità?
Viviamo
- Sicuramente nella vostra vita familiare e coniugale non sono mancate delle difficoltà, delle problematiche, delle cosiddette “crisi”. Come le avete affrontate? Come invece avreste dovuto affrontarle alla luce della catechesi che avete meditato?
- Come vivi il tuo essere padre o il tuo essere madre in relazione al coniuge che Dio ti ha posto accanto? Come far sperimentare a tuo figlio o ai tuoi figli l’interrelazione tra la paternità e la maternità?
In Chiesa
Riflettiamo
- Perché dinanzi alla cultura del provvisorio stenta ad attrarre la bellezza della cultura del per sempre dell’amore?
- In che senso la Paternità di Dio è il fondamento di ogni genitorialità terrena?
Viviamo
- Come una comunità ecclesiale dovrebbe interagire nei confronti delle molteplici e frequenti crisi familiari? Quale stile, quali metodi, quali strumenti, quali spazi e quant’altro è chiamata ad offrire?
- Essere padri ed essere madri è la missione più difficile e più complessa. In che modo la Chiesa è chiamata a portare un suo contributo in questa singolare ed unica missione?