L’amore salva? Quante volte ce lo siamo chiesti, avvertendo al tempo stesso l’urgenza della domanda e la difficoltà di dare una risposta definitiva?
Ed è proprio l’interrogativo fondante che Alessandro D’Avenia si pone in apertura di queste pagine, invitandoci a incamminarci con lui alla ricerca di risposte. In questo libro straordinario incontriamo anzitutto una serie di donne, accomunate dal fatto di essere state compagne di vita di grandi artisti: muse, specchi della loro inquietudine e spesso scrittrici, pittrici e scultrici loro stesse, argini all’istinto di autodistruzione, devote assistenti, o invece avversarie, anime inquiete incapaci di trovare pace.
Ascoltiamo la frustrazione di Fanny, che Keats magnificava in versi ma con la quale non seppe condividere nemmeno un giorno di quotidianità, ci commuove la caparbietà di Tess Gallagher, poetessa che di Raymond Carver amava tutto e riuscì a portare un po’ di luce nei giorni della sua malattia, ci sconvolge la disperazione di Jeanne Modigliani, ammiriamo i segreti e amorevoli interventi di Alma Hitchcock, condividiamo l’energia quieta e solida di Edith Tolkien. Alessandro D’Avenia cerca di dipanare il gomitolo di tante diversissime storie d’amore, e di intrecciare il filo narrativo che le unisce, in un ordito ricco e cangiante.
Per farlo, come un filomito, un “filosofo del mito”, si rivolge all’archetipo di ogni storia d’amore: Euridice e Orfeo. Un mito che svolge la sua funzione di filo (e in greco antico per indicare “filo” e “racconto” si usavano due parole molto simili, mitos e mythos) perché contempla tutte le tappe di una storia d’amore, tra i due poli opposti del disamore (l’egoismo del poeta che alla donna preferisce il proprio canto) e dell’amore stesso (il sacrificio di sé in nome dell’altro).
Ogni storia è una storia d’amore è così un libro che muove dalla meraviglia e sa restituire meraviglia al lettore. Perché ancora una volta D’Avenia ci incanta e ci sorprende, riuscendo nell’impresa di coniugare il godimento puro del racconto e il piacere della scoperta. E con slancio ricerca nella letteratura – le storie che alcuni uomini, nel tempo, hanno raccontato su se stessi e l’umanità a cui appartengono – risposte suggestive e potenti, ma anche concrete e vitali.
Per poi offrirle in dono ai lettori, schiudendo uno spiraglio da cui lasciar filtrare bagliori di meraviglia nel nostro vivere quotidiano, per rinnovarlo completamente nella certezza che “noi siamo e diventiamo le storie che sappiamo ricordare e raccontare a noi stessi”.
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Leggi il Prologo
L’amore salva?
Ho viaggiato, per trovare la risposta, in ogni angolo dell’aldiqua.
Ho indagato il grande e il piccolo, la stella e la pietra, la luna e la formica, la nuvola e la foglia, ho visto dove ciascuna s’aggrappa per resistere: nessuna aveva la risposta totale, ma ognuna era un filo del racconto, perché tutte le cose, di atomi e di cellule, se le ascolti bene sono un’unica storia.
Ho percorso le città e indagato i pensieri di chi le abita. Ho interrogato gli uomini, voci – intonate non sempre – di questa polifonia del mondo.
L’amore salva?
Anche loro hanno balbettato risposte incomplete, erano troppo impegnati a fermare il tempo con i ragionamenti piuttosto che ad accettare la sua inafferrabile natura, indaffarati a costruire dimore spaziose e incrollabili, fuori di sé invece che dentro, illusi che il tempo abbia meno signoria su di loro se abitano case di pietra anziché d’argilla.
Allora ho ascoltato le donne, innamorate o disamorate che fossero, di tutto lo spazio e di ogni tempo, la cui carne conosce il fuoco e il gelo, il cui spirito sa l’amore e il suo disincanto. Loro, con l’intelligenza del cuore che le chiama a farsi carico di ogni promessa di bellezza, a indirizzare lo sguardo verso tutto ciò che è vivo, tutte mi hanno risposto, generose o stanche, felici o frantumate, sempre hanno risposto, anche loro malgrado, perché sono condannate all’amore in ogni cellula, non possono farne a meno. Le donne sentono il tempo dal di dentro, quando spingono forte per dare alla luce: sanno, non per sentito dire come gli uomini, che la luce è una spinta di sangue e dolore, che per vivere bisogna far spazio, che amare è dare la vita a un altro, non prenderla. Della vita le donne non cercano la dimora, della vita si fanno dimora. La loro carne è il gomitolo che srotola con cura il fragile filo di ogni cosa vivente e ne tesse con pazienza l’intreccio mostrando, tra grovigli di dolore e di gioia, che la trama di ogni storia è nascere, non certo morire. E se la trama si sfilaccia sanno che l’amore ricuce lo strappo tra la felicità e la vita, perché solo l’amore permette alla vita di rinascere una e una volta ancora.
La donna – si racconta in storie antiche – è stata fatta per ultima non per ripensamento tardivo, toppa al tessuto lacero delle cose, scarto di ciò che era già perfetto, ma perché solo alla fine di un’opera si giunge al suo compimento, perché solo alla fine l’artista scopre ciò che stava cercando, la vita che stava creando, proprio come accade a una madre quando guarda per la prima volta il suo bimbo appena spinto nella luce cruenta.
Per questo mi sono rivolto alle donne, e a tutte quelle che ho incontrato ho chiesto il fatto più nudo di tutti: la verità sull’amore. E loro, da ogni parte della Storia e del tempo, mi hanno confidato la risposta con labbra sorridenti. O ancora sanguinanti.
La trascrivo, la risposta, per me e per te, lettore, perché non cada ancora una volta nell’oblio l’unica cosa che abbiamo bisogno di sapere, anche se forse all’oblio siamo costretti per imparare a camminare. Eppure c’è sempre qualcosa di ignoto che cerca di uscire dal silenzio, come un pugno dato sul muro di una prigione, come sangue di una ferita che mai si rimargina.
Ora che il vento della notte entra dalla finestra in questo insonne labirinto d’ombre che è la solitudine, mi ricordo di ciò che mi ha raccontato una di loro. Col suo amato, a fine giornata, quando la luce allenta la sua morsa sul mondo e sulla carne, faceva sempre un gioco: raccontarsi a vicenda la cosa più bella di quel quotidiano trascorrere, perché era l’unico modo di salvarla per sempre, non di sconfiggere il tempo ma di scommettergli contro. La luce rifratta dalle foglie bagnate d’autunno, l’incanto di un racconto d’amore e di morte, il bagliore di un fuoco in una casa strappata a una notte di ghiaccio, il rumore costante di un torrente che canta proprio quando incontra un ostacolo… Quella cosa bella non salvava solo se stessa, ma tutta la giornata, come ne fosse il centro, il punto di leva e di espansione, la benedizione. Era l’istante affrancato dal tempo, pur essendo nel tempo generato.
Da quella donna ho compreso che salvo è tutto ciò che si sottrae alla seduzione della polvere: ciò che senza rinunciare al tempo viene dal tempo liberato e se ne fa misura, e dello spazio che gli è concesso fa la sua dimora.
Ma come possiamo noi, fatti di tempo e spazio, salvarci dal conto dei giorni e dalla scatola del mondo?, ho insistito.
Noi, ha risposto lei, “facciamo l’amore”, l’espressione più semplice e inspiegabile della sintassi umana, perché “fare un mistero” è un paradosso, è come provare a scavalcare la propria ombra. Ma è proprio cercando di fare il mistero che i nostri corpi rivelano la ferita che portiamo nella carne e che mai si rimargina, la paura di essere venuti alla luce così nudi e il desiderio di voler rinascere nuovi.
E del mistero di questa ferita si può ascoltare l’eco nelle storie che genera, perché solo le parole ci sono state date per accostarlo: un tempo gli uomini, dopo una giornata di duro lavoro, sedevano insieme in cerchio attorno a un fuoco che ardeva, immersi nel buio dell’esistenza, nel silenzio dei giorni, finché qualcuno, minacciato come gli altri dagli ululati dei lupi, dal fruscio di alberi antichi, da tutto il vuoto che si sente sotto i nodi di stelle, prendeva la parola e pronunciava la formula che lenisce la stanchezza e, allo stesso modo di un “ti amo”, ferma il tempo: “c’era una volta”. E tutti scoprivano che stava dando vita a un’altra storia d’amore, perché non esiste avventura che non sia ricerca di qualcuno e qualcosa per cui rischiare la via e la vita, non esiste protagonista se non alla luce di un desiderio del quale non si è ancora all’altezza.
Riscaldati anche tu a questo fuoco, nella notte fredda del mondo che indurisce il cuore di paura, e ascolta il mistero di ogni nascere.
Partenza: la mappa del viaggio
Nacque l’uomo, o fatto con divina semenza da quel grande artefice, principio di un mondo migliore, o plasmato dal figlio di Giàpeto, a immagine degli dèi che tutto regolano, impastando con acqua piovana la terra ancora recente, la quale, da poco separata dall’alto ètere, ancora conservava qualche germe del cielo insieme a cui era nata; mentre gli altri animali stanno curvi e guardano il suolo, all’uomo egli dette un viso rivolto verso l’alto, e ordinò che vedesse il cielo e che fissasse, eretto, il firmamento.
Ovidio, Metamorfosi, I
Natus homo est, sive hunc divino semine fecit
ille opifex rerum, mundi melioris origo,ive recens tellus seductaque nuper ab alto
aethere cognati retinebat semina caeli,
quam satus Iapeto mixtam pluvialibus undis
finxit in effigiem moderantum cuncta deorum.
Pronaque cum spectent animalia cetera terram,
os homini sublime dedit caelumque videre
iussit et erectos ad sidera tollere vultus.
Devo avvertirti, lettore, il mio lungo viaggio a tu per tu con le donne prevede alcuni momenti di sosta, nei quali ripercorro la storia d’amore che tutte le contiene. La storia di tutte le storie d’amore è quella di Orfeo ed Euridice raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio, perché non c’è trasformazione più radicale di quella generata dall’amore.
In Il mio cuore messo a nudo Baudelaire scriveva: “Che cosa è l’amore? Il bisogno di uscire da se stessi”, l’estasi che tutti cerchiamo per redimerci dalla nostra fragilità. Il nostro desiderio di infinito è soddisfatto dalla consistenza dei nostri amori, non da emozioni di superficie ma dalla spinta con cui, dal ripiegamento su noi stessi, ci apriamo al rischio del tu, all’avventura della vita. Solo le relazioni, con il loro movimento ora faticoso ora gioioso, conducono alla definizione profonda di sé e alla fioritura dell’io.
Perciò, lettore, ogni tanto sosta con me: anche fermarsi a riposare è parte di un viaggio. Eccoci qui dunque, pronti a incamminarci insieme; sempre, all’inizio di una spedizione si considerano sulla mappa la meta, gli snodi del percorso, e si verifica di avere l’entusiasmo necessario a superare la fatica.
Ho sempre amato il mito di Orfeo ed Euridice perché contiene tutti i movimenti di una storia d’amore. Il mito, d’altronde, è la clessidra capace di custodire i granelli di sabbia di tutte le storie nel tempo e nello spazio. Il mito è la storia di tutte le storie. E l’amore è il motore di tutte le storie.
La forza narrativa di un mito non sta nel descriverci come effettivamente siano andate le cose, ma nel testimoniarci come sono state ricordate. Il mito rivela la nostra urgenza di dare un fondamento al mondo, un senso allo scorrere del tempo, il mito non è una fase precedente al pensiero, ma è pensiero esso stesso, di carattere narrativo: gli uomini pensano raccontando e raccontando pensano. Narrare storie, lo mostra una messe di studi, è necessario alla sopravvivenza umana tanto quanto l’aver scheggiato la pietra per trarne strumenti e armi: l’immaginazione ci fa abitare il mondo. E se una narrazione sopravvive nel tempo è perché offre uno strumento di cui l’uomo non può più fare a meno proprio come la ruota, il fuoco, la sepoltura… Noi siamo e diventiamo le storie che sappiamo ricordare e raccontare a noi stessi.
Mi innamorai di queste pagine di Ovidio all’università, negli anni finali dello scorso millennio. Frequentavo un corso di letteratura latina alla Sapienza di Roma, ed era strano immergersi nella sospensione del tempo della poesia, quando fuori dall’aula impazzava il caos di una sede universitaria simile a un mercato. Ma in quelle ore le Metamorfosi di Ovidio prendevano il sopravvento, e mi rivelavano che in ogni cosa, in ogni pianta o animale, si nasconde una storia.
La scintilla dell’innamoramento scoccò quando, all’inizio del primo libro, Ovidio racconta del momento in cui il Dio, che plasmò le cose dell’universo, pose le stelle nel cielo e “sidera coeperunt toto effervescere caelo”, le stelle cominciarono a scintillare nel cielo.
Il verbo effervescere risvegliò in me la nostalgia di non riuscire più a vedere il cielo stellato come lo vedevano gli antichi. Mi piacque immaginarlo come un calice di champagne nella sua esplosione di luci. Ma il colpo di grazia giunse quando, nel descrivere la creazione dell’uomo da parte di quel divino artefice, il poeta dice che lo fece a immagine degli dèi, dandogli un “viso”, perché potesse entrare in relazione con il “firmamento”, vincendo quel sentimento di vergogna del vivere che più comunemente chiamiamo paura.
L’intuizione mi parve straordinaria. L’uomo è tale perché ha il viso volto verso il firmamento, il suo è appunto un “volto” (ri-volto all’orizzonte o al cielo), non un muso. L’uomo è diverso dagli animali perché, potendo fissare il cielo e le stelle, è capace di destino e di destinazione. Il volto è la causa di ogni nostra ricerca: “A che tante facelle?”, “Ed io che sono?”, “Ove tende questo vagar mio breve?” si chiede il pastore errante di Leopardi interrogando il firmamento.
Tutto dipende dallo sguardo e da ciò che lo attrae: noi diventiamo ciò che guardiamo, noi diventiamo ciò che ci ri-guarda. I nostri telefoni spesso ci costringono al basso, a inarcare la schiena, ci fanno scordare di intercettare in orizzontale il volto altrui, in verticale la volta celeste. E chi non guarda i volti e la volta del cielo rimane imprigionato in una condizione pre-umana, perché solo nel volto dell’altro si scopre la propria essenza umana, solo nella volta del cielo si scopre la propria essenza divina. Senza uno dei due sguardi l’uomo zoppica, senza entrambi è paralitico. Lo ha detto in due versi un altro poeta: “Stelle, / non discende da voi all’amante la voglia del viso / di quell’amata? E l’intima vista del puro volto di lei / a lui non discende dalla costellazione pura?” (Rainer Maria Rilke, Terza elegia duinese).
I poeti, in poche esatte parole, ci svelano che l’uomo è essenzialmente “aperto”, un essere in dialogo con qualcosa che lo interpella, a cui risponde con la meraviglia, lasciandosi ferire dalla bellezza che invita all’esplorazione della realtà, al rischio dell’oltre.
Questa è l’essenza di ogni storia: un protagonista (dal greco: colui che combatte per primo, colui che rischia in prima fila) è immerso in un’avventura (dal latino: le cose che stanno per accadere, che possono accadere in questa ricerca) che gli svelerà il senso del mondo e di sé, perché lui si è aperto verso un oggetto d’amore, che vuole raggiungere. Più questa apertura è generosa, più l’avventura si fa appassionante e ricca, e il protagonista matura una vita piena, proprio perché ha abbandonato le comode certezze della posizione fetale e si è aperto a relazioni profonde con il mondo e gli altri. Una storia noiosa è sempre una storia in cui il protagonista rinuncia alla chiamata, all’avventura, all’apertura, e sceglie la sicurezza. Invece c’è storia quando sceglie la salvezza, cioè l’apertura rischiosa, anche se dovesse costargli la vita o la felicità. Noi vogliamo avere un destino e una destinazione, una storia, per questo abbiamo un volto: per questo trovo affascinante che la parola “persona”, originariamente la maschera teatrale (dal latino per-sonare: “suonare attraverso”, perché serviva come amplificatore della voce), sia poi passata a indicare l’uomo nella sua interezza. Anche in greco antico prosopon era sia la maschera sia il volto: il personaggio e la persona hanno una storia perché hanno un volto, la loro relazione con il mondo e gli altri, attraverso la parola e la presenza. Oggi invece ci siamo abituati a indicare la persona col termine “individuo”, ovvero qualcosa che “non si può dividere” ulteriormente, traduzione del termine greco “atomo”, ciò che non può essere tagliato. La persona, fatta per l’apertura della relazione, è ridotta a ciò che non può essere tagliato, quando invece proprio l’esistenza dell’uomo e della donna ci dice che siamo esseri tagliati: “sesso” viene dal latino secare (“tagliare”), e il sesso è la forma più radicale della relazione intima con l’altro, proprio per via del taglio che ci caratterizza. Il taglio non è quello dell’essere sferico immaginato da Platone, spaccato in due da Zeus per punizione e quindi disperatamente in cerca della sua metà erotica per essere completo. Quando trova la metà mancante, egli placa la sua sete erotica e ha compiuto la sua ricerca, mito alla base di tante illusioni sull’essere destinati a qualcuno (la dolce metà) che estinguerà il nostro bisogno di essere amati. L’amore non c’entra nulla con la sicurezza, che ne è la condanna, c’entra invece con la salvezza: quella che nelle storie si trova solo a costo di uscire di casa, perché, come diceva qualcuno, la porta della felicità si apre sempre sull’esterno. Non è quello dell’eros platonico il taglio che separa l’uomo e la donna, ma quello di una ferita costitutiva, un taglio che rimane sempre aperto, anche quando abbiamo trovato l’amato/a, perché niente di finito può suturare un desiderio infinito. Si tratta di una ferita che paradossalmente ci guarisce se rimane aperta, perché non ci fa accomodare nella noia del nostro egocentrismo e nelle spire della paura, una ferita che rimane aperta anche quando siamo innamorati e impariamo a riconoscerla nell’altro e a condividerla, senza vergognarcene, anzi, impegnandoci nella reciproca cura. Il sesso è il dono di esseri aperti, fatti per amarsi e che godono nella misura in cui si amano, non viceversa.
Nessuno di noi può diventare protagonista se non in rapporto a un tu che lo stana. Il tu capace di stanare sempre e comunque l’uomo è la bellezza, l’avamposto di cui si serve l’amore per chiamarci, la seduzione all’avventura, la promessa di una pienezza di cui lo stupore iniziale è solo l’idea rispetto all’opera compiuta, il ponte levatoio che ci immette nelle mura del castello interiore pieno di nemici, che non sono altro che gli ostacoli della nostra piena maturazione e felicità: la nostra salvezza. Nessuno si innamora se non attraverso la bellezza.
Nelle Metamorfosi eroi ed eroine sono tutte le bellezze dell’universo. Il narciso dal cuore giallo e i petali bianchi non è semplicemente un fiore che cresce lungo i corsi d’acqua, ma un ragazzo prosciugato dall’amore per se stesso, prigioniero della propria immagine riflessa. Eco non è un fenomeno di rifrazione delle onde sonore, ma una donna consunta d’amore per un uomo incapace di corrisponderle, proprio Narciso. Di lei rimane solo il desiderio d’amore incompiuto, un corpo senza più consistenza se non un fiato di voce. Animali come il lupo, l’orsa, il cervo, il delfino, il pipistrello, la rana, la donnola, la scimmia, il pavone, il cigno, la rondine, il picchio, l’alcione, il corallo… piante come il gelso, il pioppo, il girasole, il cipresso, la quercia, il tiglio… cose come gli scogli, le fonti, le statue… sono uomini e donne incastrati in quella forma in seguito a una storia con gli dèi, quasi sempre drammatica e violenta, come sa essere il mito.
Tra i libri che dovevo studiare in modo approfondito c’erano il decimo e l’undicesimo, in cui domina la storia d’amore più bella, quella di Orfeo ed Euridice, che Ovidio comincia a raccontare a partire dalla festa di nozze.
Si fa festa perché l’amore è una promessa, non una garanzia: l’idea romantica dell’amore ci ha illuso che sia una garanzia. L’amore vero invece festeggia la trasformazione della vita, passo dopo passo, in un cammino di scoperta di se stessi attraverso l’altro e insieme all’altro, e non a causa dell’altro. L’amore vero è una storia, l’amore romantico il sogno di una storia.
Alla tentazione romantica si oppone quella cinica, che porta ad amare l’altro non per quello che è, ma per quello che ha, qualità fisiche o spirituali riscontrabili con il passare del tempo in altre persone, con conseguente durata a scadenza. L’amore vero è una storia, quello cinico una barzelletta che non fa neanche ridere.
L’amore romantico si confonde con gli stati emotivi e fa dell’altro un dio del proprio benessere, caricandolo di aspettative impossibili da soddisfare. L’amore cinico si confonde con l’attrazione temporanea per le qualità dell’altro, e fa di lui un servo del nostro ego, uno strumento della nostra soddisfazione e sicurezza. Ogni volta che decidiamo di amare così, in realtà stiamo praticando il disamore, condanniamo l’amore a morire sovvertendolo nel suo fondamento: anziché guardare l’altro in volto, lo costringiamo narcisisticamente a reggere uno specchio che ci rimanda la nostra immagine. Nei racconti che compongono questo libro saranno le donne a incarnare il ventaglio di possibilità che va dall’amore al disamore. Saranno i mille volti di Euridice. Le storie d’amore tra gli artisti e le loro donne sono infatti tormentate, seducenti, tenere, folli, feconde, distruttive, devote, ancillari, cruente, giocose, eterne… e tutta la tavola periodica di possibilità che l’amore e il disamore offrono, soprattutto perché si tratta di un triangolo, nel quale la donna, in carne e ossa, vuole conquistare un territorio già occupato dalla Musa.
L’amore di Orfeo ed Euridice è invece l’amore che voglio esplorare nelle soste, da filomito, cioè colui che ama il mito, perché, come dice Aristotele, “chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia”. Inoltre, volendo giocare con le parole, questo racconto mitico sarà anche il “filo” che ci guiderà nel labirinto della storia, per cercare di non smarrirsi strada facendo.
Apri bene gli occhi e partiamo.