Alberto Maggi – “Peccato sia femmina”: il biblista Maggi sulla resistenza della comunità cristiana ad accettare le donne

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La tradizione religiosa giudaica, confluita nel Talmud, considerava la nascita di una bambina un castigo divino (“Maledetti coloro le cui figlie sono femmine”, Qiddushin B. 82b), e si insegnava che “il mondo non può esistere senza maschi e senza femmine, ma felice colui i cui figli sono maschi e guai a colui i cui figli sono femmine” (Baba.B.B. 16b). In un mondo dove si insegnava che “la migliore delle donne pratica l’idolatria” (Qid. Y. 66 cd) e che “chiunque discorre molto con una donna, è causa di male a se stesso, trascura lo studio della Legge e finisce nella Geenna” (P. Ab. 1,5), la rivoluzionaria normalità con la quale Gesù si rapportava con le donne non doveva essere ben vista, anche da parte della primitiva comunità cristiana, come traspare nel vangelo di Giovanni, dove i discepoli, sorpreso il loro maestro in colloquio con una samaritana, “si meravigliavano che parlasse con una donna” (Gv 4,27), essere inferiore che non merita alcuna attenzione da parte degli uomini. In una società in cui i rabbini non si mostravano in pubblico neppure con la propria moglie, e se l’incontravano non la salutavano, Gesù non esita ad accogliere nel suo gruppo anche delle femmine, con evidente grande scandalo per la presenza di queste “donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni. Giovanna, moglie di Cuza, l’amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni” (Lc 8, 2-3).

Nel Talmud è scritto che è meglio che “le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne” (Sota B. 19a), e nella lingua ebraica non si conosce un termine per indicare “discepola”, che esiste solo al maschile. È evidente che con questa mentalità la presenza delle donne nella comunità cristiana doveva essere proprio insopportabile ai discepoli. Nei Libri apocrifi, meno preoccupati dell’ortodossia teologica, si avvertono tutte le tensioni tra i maschi, capitanati da Pietro, e le femmine, rappresentate da Maria Maddalena. Nel Vangelo di Tommaso, (apocrifo della metà del secondo secolo), Pietro chiede addirittura che le donne vengano cacciate dalla comunità: “Simon Pietro disse: Maria se ne vada da noi, ché le donne non meritano la vita!”.

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Più sconcertante della richiesta di Pietro è la sorprendente risposta di Gesù, che accoglie la protesta del discepolo: “Gesù rispose: Ecco, io la trarrò così da renderla uomo”, per arrivare poi alla deduzione teologico-spirituale che solo “ogni donna che si fa uomo entrerà nel regno dei cieli” (Vang. Tom. 114). In un altro testo Pietro, a nome dei discepoli, si rivolge al Signore lamentandosi che “noi non siamo capaci di sopportare questa donna [Maria Maddalena], perché ella ci toglie ogni occasione; non ha lasciato parlare nessuno di noi, ma è lei che parla sempre” (Pistis Sophia, 36). Maria Maddalena dal canto suo risponde accusando di misoginia Pietro “che è solito minacciarmi e odia il nostro sesso” (P.S. 2, 72). Pietro inoltre trova intollerabile la pretesa delle discepole di prendere la parola nell’assemblea cristiana, e arriva a chiedere: “Signor mio, cessino le donne di domandare, così che noi pure chiediamo!”. E ancora una volta Gesù accondiscende alle lamentele di Pietro e “dice a Maria e alle donne: Date opportunità ai vostri fratelli maschi di chiedere loro pure” (P.S. 2,146).

Il disagio dei discepoli a dover convivere e sopportare le donne, che pretendevano la parità di trattamento nella comunità cristiana, non traspare solo dagli scritti apocrifi, ma è ben documentato anche dai testi canonici, come si legge nella Prima Lettera ai Corinzi. L’autore dello scritto cerca di togliere la parola alle donne (che pur Paolo aveva concesso, cf 1 Cor 11,5), e non potendosi appellare all’insegnamento di Gesù, fa ricorso all’Antico Testamento: “Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea” (1 Cor 14,34-35; Gen 3,16).

Similmente, nella Prima Lettera a Timoteo si trova scritto: “La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo” (1 Tm 2,11). Per giustificare la sua misoginia l’autore si deve arrampicare sugli specchi, arrivando a scomodare perfino Adamo ed Eva, “perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre” (1 Tm 2,13-14). Per le povere donne, sempre colpevoli di tutto, l’unica salvezza è quella di sfornare figli a getto continuo: “Essa potrà essere salvata partorendo figli” (1 Tm 2,15).

La difficoltà di accettare che una donna possa far parte dei seguaci di Gesù è attestata anche nell’interpretazione che è stata data di un versetto della Lettera ai Romani, dove Paolo saluta: “Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,6). Si tratta di marito e moglie, credenti della prim’ora, che Paolo definisce non solo apostoli, ma persino insigni. Ma più la Chiesa si istituzionalizzava e si trasformava in un’organizzazione monarchica, governata con fare autoritario da soli maschi, più questo testo creava difficoltà: come poteva una donna essere parificata nientemeno agli apostoli e per giunta essere considerata insigne!

E nonostante che padri della Chiesa dello spessore di Giovanni Crisostomo rendessero omaggio a Giunia (“Quant’è grande la sapienza di questa donna, che è stata ritenuta degna persino del titolo di apostolo”, Ad Romanos 31,2), dal tempo di Bonifacio VIII (1230-1303), il testo fu modificato. Il tremendo papa autoritario, con la Bolla “Periculoso, De statu Monachorumin sexto”, nel 1298, confinò l’attività delle monache all’interno dei monasteri per cercare di arginarne il loro influsso, e fu da allora che, per sminuire l’importanza delle donne nella Chiesa, si cominciò a interpretare e tradurre il nome Giunia al maschile, che così divenne il diminutivo di Giuniano, inesistente nell’onomastica romana.

Nel processo di riabilitazione delle donne dei vangeli, papa Francesco ha elevato la semplice memoria liturgica di Maria Maddalena a festa, proprio come per gli altri apostoli, riconoscendola “apostola degli apostoli” (come l’aveva definita san Tommaso). Il papa ha messo così la parola fine all’equivoco causato da papa Gregorio Magno (VI sec), che aveva identificato Maria di Magdala nell’anonima peccatrice di Luca (Lc 7,36-50), creando la figura della Maddalena pentita ai piedi della croce (Gv 19,25), ma sminuendo di fatto la sua importanza all’interno del gruppo dei discepoli del Cristo.

Chissà se con Papa Francesco sarà ora riabilitata anche Giunia, l’ “insigne apostola” che patì anche il carcere per la sua fedeltà al vangelo. Infatti, solo nella Chiesa ortodossa Giunia è considerata santa e festeggiata il 30 giugno, ma il suo nome è tuttora assente nel Martirologio Romano.

Fonte: il Libraio