Alberto Maggi – l’occhio maligno

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Omelia di Alberto Maggi, pubblicata su Adista del 30 luglio 2011

Non è facile accettare un Dio che anziché premiare i buoni e castigare i malvagi fa invece “sorgere
il suo sole sui cattivi e sui buoni” (Mt 5,45), offrendo a tutti il suo amore. Un Dio del genere sembra
ingiusto, come il padrone della parabola narrata da Gesù (Mt 20,1-15). In essa viene presentato un
proprietario terriero che assolda dei braccianti per la sua vigna. L’importanza del lavoro fa sì che sia il padrone stesso a uscire da casa all’alba, per andare alla piazza del paese, e ingaggiare operai (Mt 20,1). La paga era un denaro il giorno, ed è questa che il padrone assicura ai lavoratori.

La gran disponibilità di mano d’opera faceva sì che con una sola chiamata di operai si potesse soddisfare il fabbisogno dell’intera giornata. Invece, a sorpresa, verso le nove del mattino, il padrone esce di nuovo, in cerca di altri operai. Non lo fa per la necessità della vigna, i primi chiamati sono più che sufficienti, ma li assolda perché essi sono ancora disoccupati, e senza lavoro, in quella società, significa non mangiare. È al loro bisogno che il padrone pensa. E a questi promette di dare un compenso in base al lavoro fatto (“quello che è giusto”, Mt 20,4).

A metà giornata, l’uomo torna di nuovo in piazza, e assolda altri operai, e lo stesso fa alle tre del
pomeriggio. Ormai di operai nella vigna ce ne sono abbastanza, ma il padrone è più preoccupato dal fatto che ci siano persone senza lavoro che del suo interesse. Ed è ormai quasi il tramonto, verso le cinque del pomeriggio, quando il padrone si reca in cerca di altre persone che nessuno ha chiamato a lavorare. Manca soltanto un’ora al termine della giornata lavorativa, ormai nessuno li prenderà più. Non hanno lavorato, quindi non mangeranno. Se nessuno ha pensato a loro, se ne occupa il padrone della vigna, che chiama anche questi a lavorare, senza parlare però di alcun compenso: non lavoreranno neanche un’ora, e potranno essere ripagati con un tozzo di pane.

La piazza del paese è deserta. Nessun bracciante è in attesa del lavoro: sono tutti alla vigna, che
sovrabbonda di operai. Quelli che hanno iniziato il lavoro all’alba, sono stati ben felici di veder
arrivare durante tutto il giorno altre braccia per aiutarli nel lavoro; con il loro apporto la giornata
non è stata pesante. La loro felicità si trasforma in entusiasmo quando vedono che il fattore
comincia a pagare gli ultimi, quelli che hanno lavorato un’ora scarsa, e dare loro un denaro: non è
una paga, ma un regalo. Se quelli che hanno lavorato un’ora ricevono quanto era stato pattuito con i primi lavoratori per una giornata intera, a quelli che hanno sopportato il peso della giornata e la
calura certamente verrà dato almeno tre volte tanto. Ma quando questi vedono che sono retribuiti
con un denaro, come era stato pattuito, sfogano la loro delusione e il loro malumore, perché erano
certi “che avrebbero ricevuto di più” (Mt 20,10), e ritengono il padrone ingiusto. Il signore della
vigna non è stato ingiusto (quel che aveva pattuito è quel che è stato dato), ma generoso. Non toglie nulla a quelli che hanno lavorato dall’alba, ma vuole dare lo stesso salario anche agli ultimi.
Difendendo il suo comportamento, il padrone della vigna si definisce buono (“Sei invidioso perché
io sono buono?”, Mt 20,15). Nell’atteggiamento del proprietario della vigna, Gesù raffigura quello
del Padre. Dio non è un padrone severo, ma un signore generoso che non retribuisce gli uomini
secondo i loro meriti, ma secondo i loro bisogni, perché il suo amore non è concesso come un
premio, ma come un regalo. Quel che motiva il suo agire è la necessità dell’uomo, la sua felicità. E
se a qualcuno questo comportamento può sembrare ingiusto, e non gli sta bene, è perché il suo è un“occhio maligno” (Mt 20,15), quello dell’avaro, dell’invidioso (Dt 15,9), di colui che fa tutto per la sua convenienza. Questi non potrà mai capire l’agire di un Dio che non “cerca il proprio interesse”(1 Cor 13,5), ma quello dell’uomo.

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