RESPINTI DAL CRISTO
“Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Con questo severo monito rivolto ai suoi discepoli, Gesù dichiara e chiarisce che l’ostentata esibizione di attestati di fedele ortodossia non è sufficiente per l’appartenenza alla comunità del regno. Questa viene concessa solo a quanti, nella pratica delle beatitudini, realizzano la volontà del Padre, prendendosi attivamente cura dei più deboli della società, i poveri, gli emarginati, gli esclusi, gli stranieri. La missione di Gesù è stata infatti quella di realizzare e portare a compimento il disegno del Creatore, che aveva espressamente chiesto che non vi fosse “alcun bisognoso in mezzo a voi” (Dt 15,4), unica garanzia della presenza del Signore in seno a una comunità (“Nessuno infatti tra loro era bisognoso”, At 4,34).
Per questo l’unico distintivo ammesso, il solo che fa riconoscere come seguaci autentici del Cristo, è l’amore che si fa servizio (“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”, Gv 13,35). Ponendo l’amore-servizio quale unico segno distintivo dell’appartenenza a Gesù, viene escluso qualsiasi altro. Purtroppo, quando questo non è compreso si sceglie la facile strada del surrogato, attraverso l’ostentata esibizione di stemmi, insegne, simboli, abiti, decorazioni, che vengono sbandierati per mostrare agli altri che si è religiosi, ma non sono sufficienti per essere riconosciuti quali autentici seguaci di Gesù. Mentre abiti o insegne religiose sono legate a un determinato contesto culturale e sociale, e limitato quindi geograficamente a una parte del mondo, l’amore che si traduce in generoso servizio è un linguaggio universale, che non conosce limiti e confini razziali o geografici, ed è l’unico distintivo, prontamente riconoscibile da tutti, che manifesta la presenza di Dio nell’umanità.
Ai discepoli, che non accettano il rimprovero del loro maestro, e rivendicano di non essersi limitati alla sola professione di fede ma di aver anche profetato, cacciato demòni e compiuti prodigi nel suo nome, tutte azioni che il Signore aveva loro espressamente incaricato di compiere («Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni», Mt 10,8), Gesù risponde duramente, mettendoli alla porta senza tanti complimenti. Adoperando una formula rabbinica di rifiuto che esprime la irreparabile separazione tra il maestro e i suoi discepoli (“Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”, Mt 7,23), Gesù esclude questi sedicenti discepoli dal regno, esattamente come farà per le “vergini stolte” della parabola (Mt 25,12).
Possono stupire queste parole dure, questo radicale rifiuto di Gesù: lui che ha sempre accolto peccatori e miscredenti, pagani ed emarginati, con tenerezza, compassione e misericordia, ora respinge in maniera inappellabile proprio i suoi più vicini seguitori. Gesù non si limita a escludere qualunque tipo di relazione con questi pseudo discepoli, ma li denuncia anche quali “operatori di iniquità”. Nella Bibbia con “iniquità” vengono designate le pratiche magiche (Nm 23,21.23; 1 Sam 15,23) e la forza nefasta che produce solo quel che è inutile, vano, inefficace; per cui il significato di “operatori di iniquità” è quello di essere costruttori del nulla.
Il motivo del rimprovero da parte di Gesù è nelle modalità dell’attività di questi discepoli, che hanno sì agito usando il nome del Signore, ma senza identificarsi in lui. Gesù infatti non contesta loro di non aver cacciato demòni, profetato o compiuto prodigi, ma rimprovera loro che queste azioni, anziché essere la conseguenza dell’adesione a lui (Mt 7,23) e dell’identificazione con la sua persona, sono solo frutto dell’uso del suo nome, adoperato quasi come una formula dall’automatico potere (“nel tuo nome”). Questi discepoli, pur avendo sottomesso i demòni, sono completamente sconosciuti a Dio, perché il Padre riconosce come suoi figli solo quanti gli assomigliano nel comportamento (cf Mt 5,43-45). Gesù esclude dal regno questi uditori/ripetitori del suo insegnamento, che però non si sono lasciato coinvolgere nella propria vita dal suo messaggio: ascoltano e annunciano, ma la parola predicata ad altri non ha messo radici in essi, e per questo non porta frutto (cf Mt 13,5‑6).
Quanti ostentano dottrine e insegne religiose, senza che loro vita sia minimamente sfiorata dal Vangelo che sbandierano, sono il nulla, come denuncia Paolo nella Prima Lettera ai Corinti: “Se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla” (1 Cor 13,2).
Per questo, subito dopo questo duro rimprovero, Gesù invita i discepoli non solo ad ascoltare le sue parole, ma a far sì che queste mettano profonde radici nella loro vita e ne modifichino il comportamento, per costruire la propria casa con saldi fondamenti sulla roccia. Quando questo non viene compreso, quando ci si limita ad ascoltare senza mettere in pratica, si costruisce sul nulla, la casa crolla, “e la sua rovina è grande” (Mt 7,24-26). Sembravano buon grano, mentre erano solo tossica zizzania (cf Mt 13,30). Non solo non hanno costruito nulla, ma quel che credevano di aver costruito è miseramente crollato. Questo fallimento, proprio da parte di quelli che si credevano i più vicini a Gesù, non impedisce al Signore di continuare a proporre continuamente nella storia il suo messaggio vivificante, che verrà accolto proprio da quelli che si consideravano i più lontani, gli esclusi, gli stranieri: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 8,11-12).
Fonte: Il Libraio