Commento al Vangelo del 26 Agosto 2018 – p. Fernando Armellini

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 26 Agosto 2018.

Il risultato di un esame istologico, il responso di un’ecografia, l’esito di un’amniocentesi, la diagnosi di un medico possono sconvolgere la vita di una persona, scompaginare progetti e sogni di una coppia, collocare di fronte a scelte drammatiche e l’alternativa è sempre fra la saggezza di questo mondo e quella di Cristo.

Fare della propria vita un dono non è facile né comodo; richiede sacrifici, rinunce, ascesi. Accogliere la volontà di Dio è disponibilità a seguire “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), anche quando tutto indurrebbe a ritenerla illogica e inconcludente.

È difficile dar retta agli impulsi dello Spirito, elevarsi a Dio e puntare sulla vita che rimane in eterno. Più agevole, ma sempre deludente, è entrare per la porta larga e scegliere la strada spaziosa (Mt 7,13), ripiegare sulle prospettive materiali, dimenticando che “passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7,31) e che all’uomo non giova nulla guadagnare il mondo intero (Mt 16,26). Fare scelte “secondo la carne” sembra ragionevole anche se, nel proprio intimo, ci si rende conto che “ogni carne è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo” (Is 40,6).

Anche il discepolo che ha “gustato la parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro” (Eb 6,5) rimane soggetto alla tentazione di volgere le spalle a Cristo e “preferire il secolo presente” (2 Tm 4,9).

L’eucaristia è una proposta. Chi decide di riceverla dice sì alla Luce e rifiuta la tenebra. È questa la scelta che qualifica il cristiano.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Quando tutte le ragioni stessero da una parte e Cristo dall’altra, sceglierei Cristo”.

Prima Lettura (Gs 24,1-2a.15-17.18b)

1 Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele in Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi del popolo, che si presentarono davanti a Dio. 2 Giosuè disse a tutto il popolo: 15 “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate. Quanto a me e alla mia casa, vogliamo servire il Signore”.
16 Allora il popolo rispose e disse: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dei! 17 Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. 18 Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano il paese. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio”.

“Dopo la morte di Mosè, servo del Signore, il Signore disse a Giosuè, figlio di Nun, assistente di Mosè: attraversa il Giordano verso il paese che io dò agli israeliti. Dal deserto e dal Libano fino al fiume grande, il fiume Eufrate, fino al Mar Mediterraneo, dove tramonta il sole, tali saranno i vostri confini” (Gs 1,1-4). Così inizia il libro di Giosuè, un libro piuttosto imbarazzante, perché in esso si parla di guerre compiute nel nome del Signore, di violenze, di esecuzioni in massa, di decine di re sgominati e di popoli scacciati dalla loro terra per far posto agli israeliti giunti dall’Egitto.

Questo racconto della conquista della terra promessa è stato scritto molti secoli dopo i fatti e, pur riferendo avvenimenti in parte confermati anche dall’archeologia, non va considerato un testo di storia in senso moderno; è una lettura teologica di quanto è accaduto. Israele, ormai divenuto sedentario, ripensando al modo come era riuscito, pur essendo il più piccolo e il più debole dei popoli, a impadronirsi di una terra non sua, attribuì quest’impresa non alla propria forza o abilità, ma alla benevolenza del suo Dio.

Il brano di oggi è tratto dall’ultima parte di questo libro, quella del discorso di addio di Giosuè al suo popolo (Gs 22-24). “Io sono vecchio, molto avanti negli anni – dichiara il grande condottiero – e voi avete visto quanto il Signore vostro Dio ha fatto a tutte queste nazioni, scacciandole dinanzi a voi” (Gs 23,2-3). Non accenna ad alcuna delle sue gloriose battaglie, non si vanta per le vittorie ottenute, ricorda solo ciò che il Signore ha operato in favore di Israele.

Prima di considerare conclusa la sua missione, pone il popolo di fronte a una scelta decisiva. Vuole che dichiari apertamente e in modo risoluto quale Dio intende servire; solo dopo, all’età di centodieci anni, sereno, potrà chiudere gli occhi in pace, sulle montagne di Efraim (Gs 24,29-30).

Raduna le tribù in Sichem ed espone la sua proposta: scegliete il vostro Dio; volete tornare a servire gli dèi adorati dai vostri padri in Mesopotamia, prima che Abramo lasciasse Ur dei caldei; oppure le divinità del paese degli amorrei nel quale ora abitiamo; oppure il Signore che ci ha liberati dalla schiavitù e subito aggiunge: “Quanto a me e alla mia casa, vogliamo servire il Signore” (v. 15).

Davvero sorprendente questa richiesta di verifica! Pare impossibile che un popolo che ha assistito a tanti prodigi, che ha attraversato le acque del mar Rosso, ha mangiato la manna e bevuto l’acqua scaturita dalla roccia, che ha visto crollare le mura di Gerico e ha ricevuto in dono una terra in cui scorre latte e miele, possa abbandonare quel Dio che lo ha favorito e protetto, anzi, che lo ha fatto sorgere dal nulla.

Eppure, in tutto questo non c’è nulla di strano, è la nostra storia. Chiamati all’esistenza dall’amore di Dio, introdotti in un mondo nel quale siamo destinati a vivere da pellegrini, ricolmi di doni da condividere con i fratelli, possiamo essere sedotti dalle creature che incontriamo e cominciare a servire gli dèi adorati su questa terra – il denaro, il potere, il piacere – dimenticando colui che ci ha creati e, attraverso Cristo, nuovo Mosè, ci ha liberati dalla schiavitù e dalla morte.

La risposta di Israele è giunta immediata, senza esitazioni: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi” (v. 16), vogliamo continuare uniti a colui che ci ha liberato dall’Egitto e protetto durante l’esodo nel deserto; siamo certi che da nessun altro riceveremo tante manifestazioni di amore (vv. 17-18).

La scelta del Dio da adorare – e di un Dio hanno comunque tutti bisogno – non è professata una volta per sempre; va rinnovata in ogni momento, perché, costantemente, si presentano altri dèi che chiedono di essere serviti, idoli che seducono, illudono, ma rovinano chi crede in loro. Solo il Signore, Dio d’Israele, merita piena fiducia e non tradisce.

Chi ha ricevuto la missione di guidare il popolo, è chiamato a proclamare per primo, come ha fatto Giosuè, a parole e con la vita, la propria adesione al vero e unico Dio.

Seconda Lettura (Ef 5,21-32)

21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo.
22 Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; 23 il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. 24 E come la chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
25 E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, 26 per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, 27 al fine di farsi comparire davanti la sua chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. 28 Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. 29 Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la chiesa, 30 poiché siamo membra del suo corpo. 31 Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola.
32 Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla chiesa!

L’adesione a Cristo comporta un cambiamento radicale anche dei rapporti all’interno della famiglia e l’ultima parte della Lettera agli efesini dedica ampio spazio a questo tema (Ef 5,21-6,9).

I contrasti, le discordie, le incomprensioni familiari nascono sempre dal fatto che qualcuno prevarica, tenta di dominare, pretende di essere servito dagli altri: il marito dalla moglie e viceversa, i figli dai genitori, i padroni dagli schiavi.

Il brano di oggi introduce un principio innovatore cui si deve sempre fare riferimento e dal quale devono essere regolati i comportamenti reciproci: Siate sottomessi gli uni agli altri. Nessun dominio del forte sul debole, del ricco sul povero, di chi sta in alto su chi si trova in basso; ma solo sottomissione, disponibilità al servizio, nel timore di Cristo (v. 21). Il timore biblico non indica la paura di un castigo, ma l’adesione amorosa a una persona di cui ci si fida ciecamente. I timorati di Dio sono coloro che operano scelte conformi alla parola del Signore e non agiscono mai in difformità dalle sue indicazioni.

Cristo propone la scelta dell’ultimo posto: “Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,26-28).

Stabilito questo principio, l’autore fa alcune applicazioni ai rapporti familiari. Raccomanda anzitutto: “Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al Signore” (v. 22). “Siano sottomesse” è un’aggiunta, non compare nel testo originale ed è bene toglierlo perché il senso è chiaro ugualmente e si evita di accentuare una disposizione già di per sé piuttosto imbarazzante e, per le donne, addirittura irritante.

Il brano va collocato nella mentalità del tempo. Nella lettera, infatti, si nota subito che la sottomissione è raccomandata solo ai più deboli, alle mogli, ai figli, agli schiavi; anche se le esortazioni: “Figli obbedite ai vostri genitori” (Ef 6,1) e “Schiavi obbedite ai vostri padroni” (Ef 6,5), sono poi bilanciate da altri ammonimenti: “Voi padri non inasprite i vostri figli” (Ef 6,4) e “Voi padroni comportatevi allo stesso modo verso i vostri servi, mettendo da parte le minacce” (Ef 6,9).

L’autore, dunque, applica, anzitutto alle donne, il principio che ha formulato. Se ogni cristiano deve considerarsi servo degli altri, non deve suscitare obiezioni il fatto che le mogli vengano invitate a rimanere sottomesse ai mariti. Certo, urta la nostra sensibilità moderna il fatto che alle donne, per prime, sia stata rivolta questa raccomandazione di cui forse (probabilmente) hanno più bisogno i mariti.

A conferma, viene addotta una ragione teologica: anche la chiesa è sottoposta a Cristo che è il capo e la sorgente della vita di tutto il corpo (vv. 22-23). La sua autorità, però, non ha nulla a che vedere con il dispotismo oppressivo, ma è solo un servizio alla vita e la sottomissione della chiesa a Cristo è disponibilità ad accogliere i suoi doni, frutti del suo sacrificio, della sua immolazione per amore.

La conclusione, invece di sviluppare e concretizzare questo stupendo discorso, riprende il tema della sottomissione della moglie al marito, in ogni situazione (v. 24). Quest’insistenza, per noi eccessiva, è il pedaggio che l’autore paga alla cultura del suo tempo. Il principio innovatore del servizio reciproco è comunque stabilito e costituirà una condanna perenne, perché divina, di ogni arbitrio, di ogni abuso, di ogni forma, anche la più consolidata, di maschilismo.

Nella seconda parte del brano (vv. 25-32) l’autore della Lettera si rivolge ai mariti: “Amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei” (v. 25).

Ci saremmo aspettati che anche ai mariti fosse richiamato, come sarebbe giusto, il dovere di stare sottomessi alle mogli, invece per loro viene impiegato un altro verbo, amare, agapan. Agapan indica i sentimenti e le azioni di chi, dimentico completamente di sé e del proprio tornaconto, ricerca in modo attivo e appassionato solo il bene dell’altro. È la caratteristica della vita di Dio, che è amore (1 Gv 4,8). Per praticare l’agape, lo sposo deve mantenersi, in ogni momento e in ogni situazione, a servizio e totalmente sottomesso alla propria sposa.

Il modello d’amore proposto ai mariti è Cristo, che “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (v. 25). Con il suo amore, egli ha creato un capolavoro: ha trasformato la sua sposa, purificandola con l’acqua e con la parola e ha fatto di lei una donna splendida, “tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (vv. 26-27).

È questo l’obbiettivo che, nel giorno delle nozze, ogni sposo cristiano si propone di realizzare; infatti, davanti a tutta la comunità, dichiara di assumersi la responsabilità di testimoniare al mondo intero l’immenso e incrollabile amore di Cristo per la sua chiesa (vv. 28-32).

Per aver ingiunto alle donne di mantenersi sottomesse ai mariti, Paolo è stato accusato di misoginismo. Se si tiene presente la complessa articolazione del suo pensiero che, in questo brano, ci è stato trasmesso da un suo discepolo, e anche il fatto che le raccomandazioni rivolte ai mariti sono quattro volte di più rispetto a quelle delle mogli, si può concludere che certe affermazioni stereotipe sul suo conto non sono fondate.

Vangelo (Gv 6,60-69)

60 Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”.
61 Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: “Questo vi scandalizza? 62 E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63 È lo Spirito che dá la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita. 64 Ma vi sono alcuni tra voi che non credono”. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65 E continuò: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”.
66 Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
67 Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”. 68 Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; 69 noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.

Siamo alla conclusione del discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. I giudei, che lo hanno cercato come facitore di miracoli, sono posti di fronte a una sconcertante richiesta: accogliere lui, pane disceso dal cielo. Devono fare una scelta la cui posta in palio è alta: continuare a vivere come hanno fatto finora, adeguandosi alla sapienza di questo mondo e accontentandosi del pane materiale, oppure fare un salto di qualità, accogliere il suo vangelo, che è pane di vita.

All’inizio del brano (v. 60), stranamente, sono introdotti nuovi interlocutori: non più i giudei, ma i discepoli.

La ragione di questo cambiamento di personaggi è di ordine pastorale. L’evangelista riferisce la reazione delle folle, che hanno materialmente assistito al segno del pane, solo perché in essa vede riflessa la crisi di ogni discepolo, quando è posto di fronte alle richieste impegnative del Maestro. È ai cristiani delle sue comunità che egli si rivolge per invitarli a decidere, in modo risoluto, in chi o in che cosa intendono credere.

La constatazione è amara: molti dei discepoli che hanno visto il segno e che hanno ascoltato il discorso non accettano la proposta di Gesù. È troppo “dura”, dicono. Non che non l’abbiano capita. All’inizio, è vero, hanno frainteso; qualcuno ha forse pensato anche a un pasto da cannibali, ma ora non più, ora tutto è chiaro, hanno compreso benissimo ciò che Gesù intende, ma non se la sentono di dare il loro assenso. Unire la propria vita alla sua, fare la scelta del dono di sé comporta un rischio troppo grande.

Fidarsi o non fidarsi di lui, questa è l’alternativa.

La proposta può essere accolta o rifiutata, ma non negoziata, modificata, resa più accettabile mediante la cancellazione di alcune sue esigenze e la scelta non è fatta solo con la mente e il cuore, ma anche attraverso il gesto di accostarsi a ricevere il pane eucaristico in cui Cristo, realmente presente, si offre al discepolo.

A questo punto sorge un interrogativo inquietante. Se per ricevere degnamente l’eucaristia occorre essere tanto decisi e tanto radicali nel donare la propria vita insieme con Cristo, chi mai può azzardarsi a fare la comunione?

Lasciamo, per un momento, in sospeso la risposta a questa domanda e vediamo come Gesù reagisce alla difficoltà dei discepoli a aderire alla sua proposta?

Non si stupisce, perché l’incomprensione e il rifiuto fanno parte del mistero della coscienza umana (v. 61). Poi, invece di mitigare la sua richiesta, evidenzia un nuovo enigma, annuncia un momento drammatico per la comunità cristiana: il suo ritorno al cielo dal quale è disceso come pane.

La misteriosa affermazione “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” (v. 62) può essere parafrasata così: se avete tanta difficoltà ad accettare la mia proposta ora che sono in mezzo a voi, cosa accadrà quando sarò tornato al Padre? Allora vi sarà richiesta una fede ancora più pura, slegata da qualunque verifica, da qualunque visione, da qualunque contatto sensibile con me, diverso da quello dei segni sacramentali.

Per lasciarsi coinvolgere in questa fede pura, i discepoli sono invitati ad abbandonare il mondo della “carne” e a entrare nel mondo dello Spirito. “La carne non giova a nulla” a chi vuole comprendere la proposta evangelica (v. 63). La sapienza prettamente umana e terrena è incapace di introdurre nei misteri di Dio: “L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2,14). Non deve destare meraviglia, dunque, che il vangelo non possa essere accolto da chi si ostina a volerlo mettere d’accordo con il buon senso umano.

La conclusione è sconsolante, ma prevedibile: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (v. 66).

Questi discepoli, presenti anche nelle nostre comunità, non sono cattivi, non vanno considerati dei traditori, sono solo coerenti. Si sono resi conto che il Maestro sta esigendo troppo, non se la sentono di dargli il proprio assenso e si ritirano. Gesù rispetta la loro libertà, non li obbliga a condividere la sua scelta, non li costringe a “mangiare la sua carne”. Forse ci ripenseranno, anzi, siamo certi che rivedranno la loro posizione, soprattutto se chi si accosta ogni giorno all’eucaristia saprà dare loro una testimonianza di autentica vita cristiana.

Il brano non si chiude però con il rifiuto da parte dei giudei e con l’annuncio del tradimento di Giuda, ma con la risposta positiva dei dodici (vv. 67-69).

Gesù ha deluso le aspettative della maggioranza di coloro che lo hanno seguito, ma c’è un gruppo che, pur non comprendendo ancora pienamente cosa comporti l’adesione a lui, gli dà il proprio assenso.

La fede non è basata su prove certe e inconfutabili, ma è l’adesione amorosa a una persona. Non c’è da meravigliarsi che questa adesione si accompagni sempre a dubbi e perplessità e che molti rimangano, anche a lungo, esitanti.

Alla domanda del Maestro: “Volete andarvene anche voi”, Pietro, parlando al plurale, esprime la fede di tutti ed esclama: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.

È la professione di fede che oggi Cristo si attende da noi.

È rimasto in sospeso l’interrogativo: “Chi mai può sentirsi degno di accostarsi al banchetto eucaristico? Chi può essere tanto temerario da compromettersi con Cristo, in un modo così solenne, a donare la vita con lui?”.

Se l’eucaristia fosse un premio per i giusti, certo nessuno oserebbe riceverla. Ma essa non è il pane degli angeli, è il cibo offerto agli uomini pellegrini sulla terra, peccatori, deboli, stanchi, bisognosi di aiuto.

Nel racconto dell’istituzione dell’eucaristia, l’evangelista Matteo, riferisce le parole di Gesù nel momento in cui offre ai discepoli il calice del vino: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,27-28).

Non è per celebrare la propria purezza e santità che ci si accosta al banchetto eucaristico, ma per ottenere da Dio la remissione dei peccati. A chi fa la comunione non viene richiesta la perfezione morale, ma la disposizione del povero che riconosce la propria indegnità e la propria miseria e si avvicina a colui che lo può guarire. Per chi lo riceve con questa disposizione di fede umile e sincera, il pane eucaristico diviene una medicina, cura le malattie morali, rimargina qualunque ferita, vince ogni peccato.

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[accordion title=”Chi è Fernando Armellini” load=”hide”]Ha conseguito la licenza in Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana e in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma.
Ha perfezionato gli studi di storia, archeologia biblica e lingua ebraica presso l’Università di Gerusalemme.
Per alcuni anni è stato missionario in Mozambico.
Attualmente insegna sacra Scrittura, è accreditato conferenziere in Italia e all’estero ed è autore di commenti alle Sacre Scritture.[/accordion]
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