Gesù rientra nella “terra dei padri”. Sembra essere solo in questo viaggio, dopo essere stato circondato dalla folla. Viaggio che si risolverà in ulteriore solitudine, visto che ciò a cui assistiamo oggi è un non incontro. Si reca in luoghi conosciuti, tra persone che l’hanno conosciuto in passato, coloro che dovrebbero essergli “familiari”, e che invece non lo riconosceranno. Un’enorme distanza lo separa da chi si trova nella “loro sinagoga” (v. 54). Non c’è un noi, c’è Gesù e c’è chi invece di parlare con lui, di incontrarlo, parla di lui, cerca di definirlo in base a ciò che sa di lui.
Gesù è già noto a quelle persone, presumono di conoscerlo già. Come possono lasciarsi sorprendere se sanno già tutto di quell’uomo che è nato tra loro? Le loro idee, i loro pregiudizi creano un muro attorno a loro, attraverso il quale Gesù non riesce a entrare, non può operare “segni” per loro e in loro, non vi è porta di accesso attraverso convinzioni così solide. La via dell’incontro è preclusa proprio dalla loro presunta vicinanza. “Cosa altro c’è da sapere di quest’uomo? È figlio di… fratello di…”. L’avranno guardato, avranno alzato lo sguardo verso di lui per vederlo? La vera conoscenza dell’altro passa per un’unica via: una relazione fatta di parole, gesti, scambi, e ha come ostacolo, spesso insuperabile, l’incasellamento automatico, il sentito dire, l’etichettare a priori. A causa della provenienza, della discendenza, dell’origine, del colore della pelle, della lingua… Succedeva solo a Gesù e alla sua gente?
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Gesù “viene nella sua terra” e opera con sapienza nuova, compie gesti che possono trasformare e rinnovare le vite di chi lo incontra, le nostre vite. Ma il suo passaggio può passare “non-osservato”, non riconosciuto, perché ci fissiamo su un particolare che occupa tutto il nostro interesse: “da dove?”. Da dove può mai venire tutto questo, se lui è uno di noi, un semplice concittadino? C’è qualcosa che sfugge al controllo della nostra logica, e per inseguirlo noi sfuggiamo l’incontro.
Quante volte il nostro presumere, il “sapere già”, provocano la non conoscenza del fratello e della sorella? Non possiamo mai considerare terminata la conoscenza dell’altro, essa richiede un lento e continuo rinnovarsi dell’incontro faccia a faccia, fatto di ascolto, di attenzione a ciò che l’altro veramente è e dice, non a ciò che “già so”. Solo in questo passaggio si apre lo spazio per vincere la diffidenza, la paura e costruire piano piano la fiducia, che non ha più alcun interesse per quel “da dove?”.
Il nostro pregiudizio, le nostre presunzioni, hanno un enorme potere negativo: tolgono ogni possibilità che qualcosa di nuovo avvenga nelle nostre vite e le trasformi, tolgono la possibilità al cambiamento, al movimento verso l’esterno, al di fuori degli stretti confini della nostra patria, verso la “patria dei cieli”. Un incontro vero, profondo, con un altro che rimane Altro, accolto con uno sguardo di fiducia, che a sua volta ricambia lo sguardo dandomi fiducia, può operare in me “segni e prodigi” (cf. At 2,22), può creare in me vita. Dobbiamo andare incontro all’altro lasciando che il suo volto ci “sbalzi di sella, ci cavi dall’arcione” (E. Lévinas): il non conosciuto che incontreremo sarà fonte di vita che può trasformare le nostre vite.
sorella Elisa della comunità monastica di Bose
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Mt 13, 54-58
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.