Al termine del suo insegnamento in parabole sul regno dei cieli, vale a dire su ciò che Dio prepara per la sua creazione, Gesù sembra cambiare radicalmente di registro. Finora ha paragonato la vicenda del regno a un seme che cresce, al lievito che fa gonfiare la pasta, o a un tesoro la cui scoperta provoca una gioia immensa. L’avvenire appariva felice e ricco di speranza, anche se non esente da difficoltà e sofferenze. Ora invece la prospettiva si fa cupa: all’orizzonte si profila la possibilità di essere “buttati via” e di finire nella “fornace ardente” in cui vi è “pianto e stridore di denti”. La gioiosa notizia sfocia forse in un punto interrogativo? Cosa ci attende: gioia e festa o spavento e pianto?
Per tentare una risposta, che troppo spesso facciamo dipendere solo da noi, forse non è inutile il finale del discorso: la parola sullo scriba discepolo che dal suo tesoro “estrae cose nuove e cose antiche”, in cui si è voluto talvolta vedere la “firma” dell’evangelista.
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Fra le “cose antiche” c’è l’annuncio del giudizio ultimo, di cui parlarono i profeti. Da loro però la catastrofe, riassunta nel “giorno di collera” di Sofonia 1,15-16 (e di altri), era annunciata e minacciata per evitare che si realizzasse e per provocare il ritorno del popolo a Dio. Così pure Giovanni Battista: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione!” (Mt 3,7-8). Anche Gesù vi allude, ad esempio quando parla degli scandali e dice che è preferibile entrare monco o zoppo nella vita, anziché con due mani o due piedi essere gettato nella Geenna (Mt 18,6-9), o nell’insegnamento sul giudizio finale in Matteo 25. La predicazione cristiana l’ha poi ripreso e sviluppato, troppo spesso però per incutere paura e così meglio esercitare un controllo sulla coscienza dei fedeli.
Invece, fra le “cose nuove” vi è il senso sorprendente che la vita, la morte e la risurrezione di Gesù danno al giudizio. Gesù ci ha amati “fino alla fine” (Gv 13,1), fino a diventare, come dice Paolo, maledizione perché scenda su di noi la benedizione (cf. Gal 3,13-14). Quando Giovanni scrive che sulla croce Gesù “effuse, o consegnò lo Spirito” (Gv 19,30), dice che là Gesù ha preso su di sé le nostre disperazioni e maledizioni per infondere in noi la sua vita (il suo Soffio), contro cui la morte non ha più potere.
Ecco il giudizio: condanna del peccato e della morte e salvezza dei peccatori. Là si è rivelata la grazia di Dio già presente, certo, nel Primo Testamento, ma spesso velata e comunque poco evidenziata, come ricorda l’Apostolo: “La grazia ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del Salvatore nostro Cristo Gesù” (2Tm 1,9-10).
Cosa allora ci è chiesto? Forse solo gratitudine per il dono fattoci dal Cristo, gratitudine che si esprimerà soprattutto nel non essere di scandalo ai piccoli, agli emarginati, agli stranieri, e nell’essere accoglienti nei loro confronti, cosa che oggi sembra tutt’altro che ovvia.
fratel Daniel della comunità monastica di Bose
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Mt 13, 47-53
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Terminate queste parabole, Gesù partì di là.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.